mercoledì 30 gennaio 2013

Django unchained - Quentin Tarantino (2012)

(Id.)

Visto al cinema.
La storia la conosciamo ormai tutti a memoria.

Diciamolo subito a scanso d'equivoci, è un bel film. Ha un ritmo e un'arte (oltre che una percentuale di godimento complessivo) decisamente più altro della media.

...ciononostante mi ha deluso.
Obbiettivamente me ne importa relativamente che questo sia il primo vero film politico di Tarantino; non mi interessano affatto le polemiche; non vivo per vedere un citazionismo spinto ed ammiccante (che in questo film è ai minimi storici) e, direi, sono di secondaria importanza gli spruzzi di sangue pantagruelici. Il problema è che Tarantino è decisamente sottotono.
Se è vero che dopo Kill Bill Tarantino ha smesso di sperimentare, quantomeno ci aveva abituato ad un minimo fatto di grandi dialoghi, scene registicamente gustose, esplosioni di violenza estetizzante.
Qui il vero problema è la sceneggiatura. Il film è diviso in tre pezzi, l'incontro, Candieland e la vendetta. La prima parte latita di interesse, si costruiscono i personaggi, ma in realtà dopo aver introdotto il dentista il resto è particolarmente inutile (molte sono scene divertenti o semplicemente belle, ma le parti in cui si dovrebbe creare il rapporto fra i due il ritmo latita, si pensi alla scena in cui viene descritta la storia di Sigfrido). La parte di Candieland è quella che presenta molti punti di interesse perchè mostra due personaggi fantastici (Candie e Stephen), ma anche qui i dialoghi arguti latitano molto. Il finale di vendetta è molto tarantiniano, ma discontinuo e sembra mettere Django in situazioni di pericolo che si risolvono all'ultimo con stupidi colpi di fortuna come il batman degli anni 60.
Detto ciò, la sceneggiatura diluita in maniera inutile ha molti picchi di fascino o di grande comicità (la scena del kkk), ma quello che più mi ha colpito è stata la mancanza di grandi dialoghi! Ricordo perfettamente almeno 2 o 3 dialoghi per ogni suo film, ma per Django, una volta uscito dal cinema già non me ne veniva in mente nessuno. Questo soprattutto ha un impatto notevole sui personaggi, che, di fatto, vengono sprecati.
Le scene registicamente gustose non mancano, ma sono poche; l'incipit, la scena dell'omicido dei 3 fratelli, il primo incontro con Candie e la sparatoria in villa sono da antologia; ma non ne riesco a ricordare altre che ne siano all'altezza...
Infine i grandi spruzzi di violenza estetica c'è, è vero, ma da sola non regge un intero film.

Bello; ma, per me, il peggiore della sua carriera.

lunedì 28 gennaio 2013

Donkey punch - Oliver Blackburn (2008)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Dicesi Donkey Punch la pratica sessuale per cui alla donna, presa da recto, si applica un grattone a livello cervicale nel momento dell’acme del rapporto, affinchè la possente pacca faccia perdere conoscenza alla partner causando una contrazione del pavimento pelvico che aumenti il piacere dell’uomo… non si sa bene se faccia piacere anche alla donna, ma tant'è.
Da una base così profonda le possibilità di vedere un gran film non erano esattamente ai massimi livelli. Eppure…
Tre ragazze inglesi in libera uscita in Spagna incontrano quattro ragazzi inglesi che le ospitano sullo yacht che utilizzano; li la droga la farà da padrona, così come il sesso e dunque l’inevitabile applicazione del titolo. C’è bisogno di dire che il donkey punch avrà conseguenze estreme? Non credo. Ciò che ne vien fuori dopo è un gioco al massacro fra i componenti del gruppo, ognuno più o meno normale, ognuno con la propria buona ragione per comportarsi in quel modo, ognuno che reagisce al panico in maniera diversa.

Quello che bisogna dire subito è che il film vira verso il thriller splatter fin da subito. Detto ciò voglio aggiungere che in questa nicchia è un grande film. Nel cinema assoluto è invece un film buono. La tensione è decisamente ottimale, l’inquietante si palesa fin dall'inizio, ma niente viene concesso per almeno mezzora, il film si prepara lentamente mostrando le personalità dei protagonisti solo per disattendere le aspettative poco dopo. Una volta che il casino si compie invece non ce n’è più per nessuno e si scatena un homo homini lupus straordinario, preciso, fantasioso nel mischiare continuamente le carte e nei modi di finir male. Per gli amanti del genere sarà uno spasso.

Per chi non ama il genere posso rimettermi giacca e cravatta e commentare positivamente una fotografia ragionata ed esteticamente bella; posso sottolineare l’ottima regia considerando gli spazi angusti offerti dalla barca; ma soprattutto un applauso per l’uso dell’ambiente che avrebbe soddisfatto anche Hitchcock, senza esagerare lo yacht diventa parte integrante della storia rappresentando di volta in volta, una prigione, una via di fuga, un mezzo per chiedere aiuto, uno strumento di morte, tutto viene usato dalla sala motori, al gommone di salvataggio (a conti fatti è proprio questo che Hitchcock considerava come l’uso drammatico dell’ambiente).
Si insomma complessivamente un (inaspettato) ottimo film di genere.

venerdì 25 gennaio 2013

La mia droga si chiama Julie - François Truffaut (1969)

(La sirène du Mississipi)

Visto in DVD.

SPOILER ALERT
Un industriale del tabacco (Belmondo) che vive nelle isole della Reunion cerca una donna per motivo matrimonio con un’inserzione su un giornale. Una ragazza francese risponde all'annuncio e dovrà raggiungerlo alle Reunion. Sulla nave però la donna sembra non esserci, la Deneuve però gli si palesa e ammette l’inganno che gli ha fatto, ha spedito una foto diversa per paura e quando è arrivato il momento di ammettere la cosa non ha più avuto il coraggio di dirglielo ed ora si trova costretta a questo show down imbarazzante. Dato che nel cambio c’ha guadagnato, Belmondo, non trova nulla da ridire, i due si sposano e si amano tantissimo; almeno finché lui non le da la possibilità di prelevare dal su conto privato; il giorno dopo lei scompare con tutti i soldi. La sorella della donna che avrebbe dovuto sposare arriva alle Reunion e avverte Belmondo che la Deneuve non è la ragazza che aspettava; i due si rivolgono ad un investigatore privato per ritrovare la ladra. A quanto pare Belmondo è più abile perché trova per primo la Deneuve che gli racconta una storia strappalacrime e lui se ne ri-innamora; ora però devono fuggire tutti e due dall'investigatore privato.
Film noir che ribalta le regole del genere americano (peccato che ignori gran parte dei polar classici) con una femme fatale tutto sommato vittima lei stessa; con un mondo dove non è difficile amare, ma rimanere innamorati; ma soprattutto con una cadenza da tragedia greca che è il vero dettaglio vincente. È da tragedia greca che sia proprio Belmondo a dare l’abbrivio alla loro disfatta creando il proprio antagonista; è da tragedia greca il finale in cui lei lo avvelena, ma lui, pur sapendolo, la lascia fare per amore; è da tragedia greca la lotta contro un destino già segnato fin dall'inizio (ok, questo è anche da noir tout court). Tutti questi dettagli uniti ad un noir che mischia cliché con alcuni ribaltamenti rende il film veramente interessante. A questo poi si possono aggiungere diverse buone idee, dal dialogo di Belmondo con il direttore della banca montato sulle scene in cui lui sta ancora guidando per raggiungere la banca; il fatto che si renda conto dell’avvelenamento guardando una strip di Biancaneve; oppure ancor quel sapore tutto Langiano per cui ogni uomo nasconde dentro di se un assassino (che in effetti è uno dei concetti che il noir ha rubato alle opere del regista tedesco).

Il problema è però la fattura della sceneggiatura, possibile che i dialoghi siano così didascalici e demagogici (per esempio nel loro primo reincontro in Francia)? È possibile che i loro sentimenti riescano ad essere così assoluti, ma a cambiare anche con una inversione completa in pochi secondo (un po’ in tutto il film, ma soprattutto nel finale)? Questo sommato ad una certa visione scontata del tema amoroso e ad una qualità delle immagini che è maledettamente figlia dei suoi anni (il che vuol dire pessima), riduce un potenziale capolavoro in un buon film. E basta.

mercoledì 23 gennaio 2013

Il segreto del bosco vecchio - Ermanno Olmi (1993)

(Id.)

Visto in Dvx.

Per la storia rimando qui.
Tratto da un'opera di Buzzati è un po’ un riassunto delle sue tematiche, il rapporto con la natura; una sorta di realismo magico sconosciuto, ma rapidamente accettato; il senso del trascorrere del tempo e l’attesa ed il rapporto con un mondo che non c’è più o che sta finendo; i sentimenti negati, assenti o nascosti fino alla fine.
Di fatto in parte è proprio la poetica di Olmi, il rapporto di rispetto sacrale (anzi proprio spirituale) nei confronti della natura è totalmente in linea, l’ambientazione in un’epoca passata che è però un punto di svolta è nelle corde del regista e anche tutto il discorso sui sentimenti presenti, ma mai mostrati è in parte suo. E allora eccolo Olmi che indugia tantissimo sui dettagli, mostra con dovizia di inquadrature anche affascinanti i boschi; ecco che il momento in cui l’albero viene abbattuto diventa una sorta di “Il cielo sopra Berlino” dentro ad una foresta (la stessa estetica, gli stessi silenzi pieni di significato, la stessa tragica sacralità). Si insomma, Olmi ci sguazza, si prende i suoi tempi ed il film ripete in maniera quasi pedissequa il racconto originale (rende solo più confuso il rapporto fra il protagonista ed il nipotino) prendendosi i suoi tempi, lento, ma costantemente diretto verso il suo obbiettivo.

La presenza scenica di Villaggio è assolutamente all'altezza, ma la voce riecheggi troppo Fantozzi; ma il vero tallone d’Achille è il giovane attore che fa il nipote… decisamente imbarazzante.
In ogni caso il classico film che ci si può aspettare da Olmi, con il 30% in più di favola disneyana. 

lunedì 21 gennaio 2013

Lo hobbit: Un viaggio inaspettato - Peter Jackson (2012)

(The hobbit: an unexpected journey)

Visto al cinema.

Il giovane Bilbo viene precettato per aiutare un gruppo di 14 nani per liberare la loro antica capitale del regno, ora tenuta in scacco da un drago. La vicenda (divisa in tre capitoli) mostra la nascita dei rapporti di Bilbo con Gandalf, il ritrovamento dell’anello e il classico romanzo di formazione per lo hobbit.
I difetti che erano ovvi anche prima di vedere il film sono tutti racchiusi nel libro originale, Lo Hobbit è un libro per bambini, quindi decisamente più ingenuo de Il signore degli anelli, ed è un libro di circa 300 pagine; folle quindi tirarci fuori un film di 3 ora, figuriamoci una trilogia di 9!

Eppure a vedere il primo capitolo ogni dubbio viene immediatamente tolto. La storia è permeata da una ironia più ingenua, specie nella parte iniziale, ma ben presto il clima ed il tono passano ad assomigliare a quelli del Signore degli anelli (solo qualche concessione è data ogni tanto all'infantilismo, come nella figura del Bruno). Per quanto riguarda lo svolgimento della trama, bisogna riconoscere una certa rilassatezza (ed un uso eccessivo delle canzoni), ma come la compagnia si mette in marcia cominciano tre ore di azione continua in un tuor de force difficile da credere, ma assolutamente avvincente, anzi n alcuni momenti il repentino succedere di eventi è pure eccessivo. Per quanto possa essere esile la trama iniziale, il film si dilata adeguatamente e dopo tre ore ci si ritrova a chiederne ancora come un tossicodipendente.

Inoltre la trama è ben scritta, nel senso che è un film che viene dopo una trilogia enorme, lo sa e allora strizza un occhio al pubblico ogni volta che può, racconta eventi, dice cose, lascia presagire fatti, che tutti già sanno.
Non l’ho, volutamente visto in 3D e non l’ho, purtroppo, visto in 48 fps. Recupererò con i prossimi due.

PS: cast spesso noto, che è un piacere rivedere riunito, unico difetto il povero Christopher Lee che appare veramente vecchio e ormai poco capace di tenere una parte.

venerdì 18 gennaio 2013

Adam resurrected - Paul Schrader (2008)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Ambientato negli anni ’60 in un ospedale psichiatrico per sopravvissuti all'olocausto; in un ambiente rigido e impeccabile si muove il lato oscuro di chi il lato oscuro l’ha vissuto direttamente. Il protagonista Adam è sopravvissuto ad un campo di concentramento facendo il cane al gerarca nazista d turno, mentre moglie e una figlia venivano uccise. Adam ha anche la particolarità di avere un controllo totale sul proprio corpo sanguinando a piacimento o “morendo” volontariamente per poi “risorgere”; è inoltre un inguaribile donnaiolo con la tendenza all'alcool.

Schrader sembra essere rimasto agli anni ’70, tutto il film verte sui suoi temi standard, la colpa personale, il male perpetrato agli altri nonostante l’impossibilità a fare altrimenti, e poi i consueti percorsi verso l’espiazione. C’è tutto, qui, una famiglia distrutta dal protagonista senza che lui potesse farci nulla; un ambiente che è un coacervo di estetica puritana, ma l’interno è costituito da sofferenze e turbinio di peccato (l’ospedale con il suo ripieno di personaggi senza speranza; il protagonista stesso; l’infermiera ligia alle regole, ma con la tendenza a fare il cane…); e poi c’è il deserto come luogo principe per ritrovare se stessi o per purificarsi (come già Gesù ne “L’ultima tentazione”). Infine, negli ultimi minuti, Schrader riesce pure ad aggiungere la solita domanda se valga la pena vivere nel lato oscuro o nella banalità del bene.

Una fotografia color pastello, una regia dinamica che fa tanto Scorsese e un Jeff Goldblum che finalmente torna a recitare concludono i pregi… Perché i difetti sono diversi, ma su tutto è il senso di finzione che traspare da tutto. I flashback sono uno shoa movie in cui tutto urla la ricostruzione in studio e i personaggi che si vedono sanno di banale macchietta nazista fin dall'inizio; l’importante personaggio del ragazzo/cane è di uo stucchevole da far paura e tutta la sua parabola è una lunga sequenza di prevedibilità poco credibile…  Peccato, un buon piano viene sprecato da un’impossibile sospensione dell’incredulità.

giovedì 17 gennaio 2013

La migliore offerta - Giuseppe Tornatore (2013)

(Id.)

Visto al cinema.

Un battitore d’asta con evidenti problemi di socialità viene assunto da una ragazza per la vendita dei mobili dei genitori. Il battitore accetterà il lavoro senza mai vedere la ragazza che, scoprirà in seguito che la proprietaria della casa soffre di agorafobia e che si rinchiude in una stanza segreta della villa quando entra il personale della casa d’asta; tra i due si instaurerà un rapporto che va oltre il professionale…
Ovviamente non è tutto qui, fin dall'inizio si respira un aura di mistero e di ambiente disturbante. Di più non si può dire.

Di per se la storia non è niente di originale (SPOILER ALERT) neppure il colpo di scena finale è un’idea innovativa (già visto con gusto in “Complotto per un uomo solo” o “Il genio della truffa” per fare un paio di esempi) (SPOILER ALERT FINITO).

Quello che però risulta vincente è l’ambientazione. L’idea della casa d’aste e dell’antiquariato come mondo asettico e vecchio di per se, un ambiente dove il falso e il particolare si nascondono anche dietro a pezzi di legno ammuffito, rende perfettamente il tono dell’intero film e risulta una parabola perfetta per descrivere contemporaneamente sia la trama che l’animo del protagonista. Ecco il protagonista è proprio l’altra buona idea; un personaggio non originale, ma ben scritto, interpretato impeccabilmente da Geoffrey Rush che viene previsto in ogni singola inquadratura mangiandosi tutto il resto (peccato per un Sutherland obbiettivamente sprecato), tutto tranne l’ambiente.
Tornatore in questo senso azzecca tutto, location, cast, musiche, ritmo, tono e anche la regia, geometrica, spesso simmetrica, sempre impeccabile, proprio come il protagonista. Un film affascinante dall'inizio alla fine.

mercoledì 16 gennaio 2013

Cloud atlas - Tom Tykwer, Andy e Lana Wachowski (2012)

(Id.)

Visto al cinema.

Non ci proverò neanche a spiegare la trama di questo film, basti sapere quello che tutti sanno, ci sono 6 storie ambientate tra il 1800 e il 2300 in cui si muovono le esistenze di diversi personaggi, tutti collegati fra loro non solo a livello spaziale, ma anche temporale, in maniera diretta (chi in un capitolo è il martire di una rivoluzione nel successivo è il dio di una religione, il componimento musicale di uno verrà ascoltato nel capitolo successivo ecc..), in maniera spirituale (la voglia a forma di stella cometa), in maniera emotiva (in ogni storia c’è sempre un nocciolo centrale formato dall'amore di una coppia, che è sempre la stessa anche se cambiano le fattezze) ed in maniera genetica (ogni attore interpreta diversi personaggi che inevitabilmente si somigliano).

Ecco detto ciò direi che si può dire senza eufemismo che ci si trova davanti ad un’opera colossale con ambizioni enormi. Se a questo si aggiunge che è un progetto europeo e totalmente indipendente capitanato dallo splendido Tykwer a cui si associano i Wachowski; beh, siamo dalle parti del mito. Il risultato però bisogna ammetterlo è sotto le aspettative. I difetti sono evidenti fin da subito, diversi problemi nella sceneggiatura (il capitolo della nuova Seul, incredibilmente simile a Matrix è anche eccezionalmente debole e dovrebbe essere la spia dorsale del film), un film lungo ed estremamente ostico alla comprensione rendono un’opera grandiosa qualcosa di vicino ad un successo mancato. Si, successo mancato perché di fatto non è il film epocale che poteva essere.
Tuttavia io l’ho trovato grandioso lo stesso. Al netto dei difetti prima citati (a cui si può aggiungere un trucco che non è sempre all'altezza del proprio compito o alcuni eccessi nel cast complessivamente buono) quello che si ottiene è un filmone.

Tre ore di film che però tiene botta dall'inizio alla fine, passano i minuti senza che ci si renda conto e le sei storie hanno il tempo di dipanarsi con grazia. Sei storie che sono quasi tutte complete, indipendenti e che potrebbero divenire opere a sé, che si distinguono per tono, significato e genere cinematografico (idea ancora più arrogante del resto), ambientante in luoghi incredibili dalla potenza visiva invidiabile. Sei storie connesse fra loro da fili sottilissimi (quelli citati nella spiegazione della trama) che non devono essere tali perché il significato ultimo non è che siamo tutti connessi nel tempo da ampie evidenze scientifiche, ma siamo connessi in maniera sottile e non matematica, qualcosa che è più percepibile che dimostrabile (questo punto è spesso visto come una pecca, a mio avviso ciò non è, ma è fuori discussione che si tratti dell’ennesimo colpo d’arroganza).

L’ultimo colpo di genio e di audacia è collegare visivamente le storie fra di loro non solo con il cast identico, ma con la regia. Il montaggio diviene parte integrante del racconto come non mai e affianca le diverse vicende con l’assonanza delle scene più che con tagli netti al termine di una sequenza completa, in maniera tale che per la scena dedicata ad un epoca da il tempo di mezza inquadratura per poi fare dieci minuti per la storia successiva. Il racconto diventa ostico da vedere, ma estremamente affascinante nello svolgersi e denota una voglia folle di fare un cinema che non si ripieghi costantemente sul già visto in fatto di messa in scena e denota altresì un incredibile fiducia nel pubblico.

Che poi i pregi del film non sono tutti qui, c'è anche tutto un magma di citazioni trasversali più o meno evidenti che vanno dalla letteratura (Solženicyn), ai film (Soylent green) ai manga (tutto l'episodio a neo Seul), che sono comunque solo i più evidenti (chissà quanti altri più sottili ce ne devono essere) e che costituiscono non un nozionismo fine a se stesso, ma vogliono significare qualcosa, si paragonano con quanto accade (o accadrà o è accaduto) per dargli significato.

Che poi le singole storie trattino di rivoluzioni compiute dalla consapevolezza acquisita da un solo personaggio è un classico dei Wachowski, non disdegnato da Tykwer, che fa sempre piacere vedere riproposto.

lunedì 14 gennaio 2013

L'oro di Napoli - Vittorio De Sica (1954)

(Id.)

Visto in DVD.

Film a episodi diretto con gusto da un De Sica in gran forma e con una spiccata voglia di far commedia.
Nel primo Totò è un mattariello nella cui casa si è installato un boss di quartiere; nel secondo la Loren è una moglie fedifraga che per non dover dire dove ha realmente lasciato l’anello regalatole dal marito riferisce di averlo perduto nell'impasto delle pizze appena vendute; nel terzo De Sica stesso è un nobile a cui la moglie non lascia portar fuori di casa neppure un soldo per la smania di giocare a carte e la prerogativa di perdere sempre, si consolerà sfidando un bambino; nel quarto la Mangano è una prostituta che viene chiesta in moglie da un ottimo partito in modo assai ambiguo; nell'ultimo De Filippo è un saggio locale che dispensa consigli (sempre efficaci) a pagamento.

Gli episodi sono estremamente scarni, nella maggior parte si può a fatica trovare una storia vera e propria (quello con De Sica e De Filippo non hanno né incipit né fine) e tutti comunque peccano in una trama realmente appassionante… ma d’altra parte è evidente che l’obbiettivo non è questo. Gli episodi sono solo un pretesto per parlare di una certa Napoli, di una certa napoletanità (come viene apertamente scritto ad inizio film). Le storie non sono importanti in se, ma in quanto mostrano dei personaggi che in venti minuti schiudono tutto un mondo, una profondità che va ben oltre la durata della puntata stessa e, quasi in tutti, nel farlo regalano qualche piccolo momento di poesia (poche eccezioni, personalmente direi solo la Loren non ne ha) e molta ironia (ovviamente l’episodio della Mangano ne è completamente privo).

Impossibile dire quale sia il preferito perché tutti veicolano qualcosa ed è inutile fare una graduatoria degli attori perché tutti sono totalmente in parte, sembrano nati per fare quel personaggio e danno sfoggio di se e dei tic che li accompagnano sempre, ma declinandoli all'ombra del Vesuvio… indubbiamente però l’episodio che più mi è rimasto impresso è proprio quello della Mangano, l’unico dramma in mezzo a tante commedie non può non colpire in maniera particolare, e poi quella mancanza di speranza nel finale, quella rassegnazione sono una strizzatina d’occhio a quanto De Sica sa fare nell'ambito melodrammatico.

venerdì 11 gennaio 2013

Terminator - James Cameron (1984)

(The terminator)

Visto in tv.

Negli anni ‘20 del duemila le macchina renderanno il controllo del mondo e cercheranno di distruggere la razza umana. La sopravvivenza di tutti sarà possibile solo grazie alla resistenza organizzata da John Connor; le macchine, rendendosi conto di non essere più in grado di eliminare il problema, decidono di eliminare la questione dalla radice; mandano indietro nel tempo un cyborg che ammazzi la madre di John prima ancora che lo concepisca.

Anche se sono più affezionato al sequel, questo è uno di quei film epocali che va al di la della qualità in se. Un film in cui, in un colpo solo, un blockbuster americano si rimette in linea con tutta la fantascienza extra US fatta fino a quel momento, mettendoci dentro un futuro distopico, i cyborg che si confondono con gli umani, una caccia spietata, un discorso sui viaggi nel tempo che farà scuola, lo scontro uomo-macchina estremizzato come solo “Matrix” 15 anni dopo e una predestinazione (anzi, direi un’annunciazione) quasi cristologica. Il tutto messo in scena con quel gusto machistico e fracassone degli anni ’80… non poteva non andare a buon fine; da questo film in poi tutti copieranno a mani basse.

Ottima, in ogni caso, la fattura in sé ad ogni livello produttivo dalla sceneggiatura (in cui le continue spiegazioni di ciò che accadrà sono assolutamente messe in un contesto tale da non risultare fuori luogo o fastidiose) agli effetti speciali (punta di diamante di ciò che potevano fari gli anni ’80).
Ok, ok, anche questo film cita (come tutti i scifi coi robot) “Westworld”, ma la forza qui sta nell'andare oltre e fare un film multistrato in cui la caccia di Yul Brinner è attualizzata e affiancata a ben altre idee. In ogni caso un encomio per la scelta azzeccatissima di dare a Schwarzenegger la parte del cyborg (così è giustificato a non recitare) cattivo.

Il discorso sui viaggi nel tempo sarà poi saccheggiato da chiunque negli stati uniti divenendo lo standard, ma di fatto è uno dei principali oppositori al concetto di futuro mutevole di Zemeckis e dei suoi ritorni al futuro; qui infatti e per tutta la saga, tutto ciò che vien fatto non cambierà il futuro, anzi, ogni sforzo fatto per modificarlo sarà determinante perché avvenga esattamente allo stesso modo. Ecco questa saga e quella di “Ritorno al futuro” hanno detto tutto al cinema sul discorso viaggi nel tempo.
Infine, sarà solo l’abitudine o un eccesso di dietrologia, ma personalmente trovo che la scena (di per se insignificante) di Schwarzenegger che entra al Technoir incarni completamente gli anni ’80 cinematografici. 

mercoledì 9 gennaio 2013

Come vinsi la guerra - Buster Keaton, Clyde Bruckman (1926)

(The General)

Visto in Dvx.


Un macchinista di una locomotiva, Keaton, è innamorato dell’immancabile ragazza, giusto in quel mentre scoppia la guerra civile americana e i sanguigni uomini sudisti fanno la fila per scendere in prima linea, la ragazza tanto amata non può non essere una fervida sudista anch’essa e pertanto si disamora del suo Keaton che viene rigettato (e solo perché un macchinista fa più comodo sopra una locomotiva che non dietro ad un moschetto. Proprio mentre la ragazza si trova dentro ad un vagone il treno su cui stava viaggiando viene rubato dai nordisti, l’unico che se ne accorge e accorre a salvarla è proprio Keaton a bordo della sua locomotiva (il General del titolo originale), il lungo inseguimento sarà una corsa a ostacoli di difficoltà circensi crescenti fino all’arrivo in terra straniera. Tra mille vicissitudini riuscirà a carpire il piano segreto dei nordisti, trovare la amata e fuggire sulla sua locomotiva; a questo punto l’inseguimento a ostacoli dell’inizio diventa una fuga speculare a quanto fatto prima. Ovviamente Keaton riuscirà a diventare militare (ad honorem), ritrovare l’amore e fermare l’attacco nemico in una delle sequenze più folli della storia del cinema; quella in cui un vero treno viene fatto correre su un vero ponte in fiamme per poter crollare nel fiume sottostante.

Film godibilissimo anche oggi con la facilità di quella maschera impassibile di Keaton di creare gag slapstick al limite dello stunt, con una recitazione (per sottrazione) che è ritornata attualissima e una storia ritmata in maniera perfetta; ci si rende conto che il film è muto solo perché talvolta si è disturbati da qualche cartello.

lunedì 7 gennaio 2013

L'ascensore - Dick Maas (1983)

(De lift)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Sono talmente sul pezzo che prima di vedere questo film ne ho visto il remake americano fatto da Maas stesso oltre 15 anni dopo… quindi paragonerò questo film all'altro e non viceversa.
Detto ciò la storia è la stessa; in un grattacielo cominciano ad esserci strani, e frequenti, incidenti con gli ascensori, il tecnico incaricato di controllarne la parte meccanica rimane sempre più coinvolto nella cosa finché, grazie all'aiuto di una giornalista, scoprirà che cosa sta succedendo.

È incredibile notare che questo sia il migliore tra i due film. Nonostante le tecniche siano avanzate notevolmente (e quindi più possibilità d’effetti speciali), nonostante un budget chiaramente più alto e nonostante il ripetere delle stesse scene (e quindi vien spontaneo smussare gli inevitabili difetti) il remake sia un boiata senza possibilità di salvezza, mentre questo film sia decisamente buono.

Per carità, rimane un horror tecnologico/metafisico anni ’80 a budget ridotto con tutti gli attori che si ostinano a parlare in olandese, ma al netto di tutto ciò rende decisamente meglio del cugino americano. Dirò di più, l’ambientazione anni ’80, con tutte le loro problematiche di gestire la grande incognita tecnologica rappresentata dall'evoluzione dei neonati computer, il rapporto fra uomo e macchina che tanto affascinò metà della cinematografia scifi dell’epoca e pure quel tocco ingenuone così eighties a cui si perdona tutto, rendono decisamente più credibile il finale che, tutto sommato, si discosta di poco da quello della controparte made in USA.

La qualità migliore del film è però in tutto il resto, in una ambientazione credibile, e non kitsch come nell'altra; in una serie di personaggi che hanno una personalità, dei problemi, una vita e non sono solo le vuote creazioni di uno sceneggiatore strafatto di film di serie B (il protagonista deve gestire un ascensore assassino, un matrimonio in bilico e il figlio che ha una voglia matta di prendere delle sberle); la sceneggiatura è decisamente più compatta, meno voli pindarici ingiustificati, meno salti poco credibili e meno scene clou (di fatto si vede pochissimo in questo film, giusto una testa mozzata, e pure male, ma in confronto al pessimo uso del computer e alle idee dementi del remake questo minimalismo è un toccasana). Infine si vede che Maas qui ci credeva sul serio, ci prova a fare del suo meglio e in alcune occasioni riesce pure ad ottenere qualche punto in più (buona tensione nel finale dentro al vano dell’ascensore; esteticamente splendida la sequenza dall'ascensore che “gioca” con la bambina, degna di “Shining”).

venerdì 4 gennaio 2013

Southland tales, Così finisce il mondo - RIchard Kelly (2006)

(Southland tales)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Storia. No, lo linko perchè a scriverla è troppo complesso.
Il film è un paciugo estremamente complesso di tutto ciò che (secondo Kelly) ha reso figo "Donnie Darko" (stati allucinatori, personaggi metafisici, questioni spazio temporali, previsioni apocalittiche, new age, ecc..) un gusto molto più camp per allestire il tutto (sembra un brutto film di fantascienza anni ’70), un po’ di critica a Bush che porta sempre spettatori in più e una serie di personaggi che per numero sembra voler battere Guerra e Pace. Inutile dire che esagerare in ogni ambito non può aiutare molto.

Non può aiutare neppure un mai così mal utilizzato (e mai così bollito) Christopher Lambert. Non può aiutare un Dwayne Johnson costretto a recitare (siamo onesti, mi piace, ma deve fare le sue parti senza raffinatezze psicologiche) e quel che ne viene fuori è una versione parodistica dell’autistico di “The cube”. Non può aiutare un racconto tortuoso che per due ore confonde e per 10 minute vuole unire tutto. Non aiuto un copiare pedissequo tutte le idee del film precedente. Non può aiutare quell'occhiolino al “cinema contemporaneo” con il racconto fatto tramite spezzoni di programmi tv. Non aiuta Wallace Shawn nella sua versione più idiota e dai vestiti più stupidi di sempre. Non aiuta uno stile camp di messa in scena. Non aiutano personaggi insipidi, stupidi o macchiettistici a dire, fare o predisporre ogni svolta di trama.
Un film tanto pretenzioso quanto non riuscito.

mercoledì 2 gennaio 2013

Azione mutante - Alex de la Iglesia (1993)

(Acciòn mutante)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

In un futuro distopico un gruppo di guerriglieri deformi si ribella ai simboli della bellezza e della salute rapendo la figlia di un magnate di biscotti dietetici. Purtroppo anche tra i freaks non tutti sono realmente ciò che sembrano e durante il viaggio che deve condurli al pianeta deputato per lo scambio cominceranno a farsi fuori a vicenda.

Il primo film di De la Iglesia è un compendio di tutto quello che verrà dopo. Ci sono deformità fisiche e mentali, c’è un continuo ribaltamento del concetto di buono, c’è splatter ed un’accenno di action, c’è ironia e grottesco, c’è il graduale distruggersi vicendevole dei personaggi, ci sono dei titoli di testa imbarazzanti ma soprattutto c’è l’idea di mondo che verrà poi riproposta in maniera praticamente continua nel suo cinema. In questo film infatti i rappresentanti del bello sono o dei nazisti mancati o degli idioti completi, a dimostrazione che la bellezza esteriore non corrisponde all’interiorità; tuttavia i guerriglieri freak sono tanto mostruosi fuori quanto dentro, dimostrando una stupidità fuori dal comune o una crudeltà degna degli antagonisti di questo film (se non di più) e uno spregio per la vita umana quasi invidiabile; in poche parole, come al solito nei film di De la Iglesia, il brutto esteriore corrisponde all’interno e in una società dove tutto è negativo a vincere non sono i buoni, ma i meno peggio (se va bene) o in alternativa vince solo chi ha più fortuna.
Detto ciò devo ammettere che il film è troppo idiota anche per me. L’ambiente creato è esagerato e la trama diluita per metterci in mezzo quante più amenità è possibile annoia abbastanza.