mercoledì 27 febbraio 2019

Brick. Dose mortale - Rian Johnson (2005)

(Brick)

Visto in Dvx.

In un collage americano un ragazzo riceve una inquietante richiesta d'aiuto da parte della sua ex ragazza che sembra essere scomparsa. Si mette sulle sue tracce, ma due giorni dopo viene trovata morta. Si metterà a indagare autonomamente sul mondo della droga che sembra essere dietro al delitto.

Alla sua opera prima, Johnson, vuole giocare facile e difficile allo stesso tempo. Scegli un noir, un hard boiled duro e puro che è contemporaneamente il genere più facile e più intricato. Il più facile perché è il più stereotipato, tutti i personaggi che ci devono essere sono archetipici e non metterli non significa aggiungere originalità, ma togliere mood. Più intricato perché se si decide di creare un noir complicato... beh, bisogna avere la palle di ingarbugliare una matassa solo per sgarbugliarla perfettamente nel finale senza ammazzare l'hype con soluzioni di comodo.
Inoltre decide che la vita non è abbastanza complicata così e ambienta il suo hard boiled in una scuola superiore americana... il rischio di finire nel ridicolo o nella farsa è dietro l'angolo.
Invece il film è serio e tutti gli archetipi vengo proiettati nel microcosmo di un college (che si dimostra perfetto per accoglierli) e utilizzati con autorevolezza, nessuna concessione al ridicolo o al superficiale.

Quello che però stupisce di più è la regia. Se complessivamente la regia è buona, Johnson vince nei raccordi; nelle unioni fra le scene, nelle attese. Fade to black continui, ma molto sfumati; inquadrature particolari (l'insistenza sulle scarpe dei personaggi); montaggio rapido di inquadrature in avvicinamento e scene costruite su più piani. Dove la tensione di solito cala perché non sta avvenendo niente, il regista da il suo meglio.

lunedì 25 febbraio 2019

La collina dei conigli - Martin Rosen (1978)

(Watership down)

Visto in Dvx.

Un conigli con le visione prevede la distruzione della propria colonia. Assieme ai pochi che gli credono fuggono, ma nella loro fuga dovranno vedersela con predatori esseri umani e altri conigli per cercare una terra nuova dove poter vivere realmente in libertà.

Film di paesaggi, si pregia di un tratto delicato, ma preciso per i fondali; colorato ad acquerello (o pastello...), ma dettagliato. Mentre, al contrario, i conigli, hanno il tratto preciso da animazione classica.

Ma diciamo subito la pecca: l'animazione è mediocre. Dettagli piuttosto significativo in un film d'animazione, ma, fortunatamente, compensato dai lati positivi. Altri dettagli che vanno adscapito sono il ritmo altalenante e la scarsa differenziazione fra i coprotagonisti; tutte questione onestamente secondarie.

I difetti sono però qualcosa secondario; quello che rimane maggiormente impresso è il senso dell'epica di questo film. Parla di un gruppo di conigli, ma quello che sta raccontando è un'epopea classica con profezie, divinità, combattimenti, nemici, violenza e sacrificio, il tutto in una versione cartoon, ma senza censure. Di fatto siamo ai vertici della tracotanza cinematografica, parlare di totalitarismo e morte in film indirizzato ai bambini.
L'effetto finale è potente e il senso del dramma sempre presente, ma la fruibilità, anche per un pubblico molto giovane, è costante e la sfida enorme pare vinta.

Inoltre è interessante notare che  conigli di questo film sono antropomorfi per spirito; staccandosi dalla tradizione disneyana imperante, gli animali sono disegnati come animali e le loro necessità sono totalmente naturali (riproduzione compresa); ma a livello interiore hanno aneliti e spinte libertarie che li accomunano agli essere umani molto più di quanto lo sia Topolino.

venerdì 22 febbraio 2019

The dentist - Brian Yuzna (1996)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Un ricco dentista scopre che la moglie lo tradisce con il ragazzo che si prende cura della piscina; nella stessa giornata viene assalito da un cane, viene tampinato dal fisco e comincia ad avere allucinazioni. Lo stress lo porterà alla follia che sfogherà su ogni malcapitato che incontrerà accidentalmente, oltre che sul proprio staff che cercherà di farlo ragionare.

Il primo lungometraggio dopo l'exploit di "Society", che non fosse derivato da una saga, si dimostra un seguito ideale dello Yuzna-pensiero.
Partendo da una critica nei confronti della società del benessere americana (qui un ricco dentista che non paga le tasse), il regista accende il motore della stessa macchina a diesel del primo film. Accumula momenti stressogeni per il protagonista per almeno metà del minutaggio senza risolversi in uno scioglimento, ma insistendo sui motivi che lo causeranno in un climax piuttosto dispersivo. Al contrario di "Society", però, lo scioglimento, quando finalmente arriverà, non avrà la potenza necessaria per giustificare l'attesa. Inoltre lo stile fracassone e un pò cazzone sempre presente non aiuta nel rendere credibile la trasformazione del serio professionista in una macchina di morte.

Esattamente come nel primo film, siamo davanti a un horror che non punto sulla paura, ma sullo shock, sull'inventiva visiva; qui si parte dalla scontata paura del trapano e Yuzna si impegna molto a infastidire riuscendoci decisamente in paio di punto (l'astrazione e la trapanatura viste nel dettaglio), ma la scelta di limitarsi a un dentista pazzo rende ripetitivi i momenti grandguinleschi diminuendone di molto l'effetto.

Idee carine, ma nel complesso un film piuttosto deludente, l'impegno e la tecnica non mancano, ma manca il contenuto o l'idea devastante che ha reso famosa l'opera prima del regista.

PS: cast che va dal buono all'accettabile con una buona prestazione di Bernsen e una delle prime apparizioni degne di nota di Mark Ruffalo.

mercoledì 20 febbraio 2019

Lady Eva - Preston Sturges (1941)

(The lady Eve)

Visto in Dvx.

Una ragazza fa la truffatrice professionista sulle navi da crociera con l'aiuto del padre. Durante un di questi viaggi incontra il figlio di un magnate della birra che è un vacuo scienziato con scarso senso della realtà, torna dopo aver passato un anno nella foresta dell'Amazzonia a studiare serpenti. Inutile dire che proveranno a truffarlo, ma lei si innamorerà. Le cose, però si fanno più complicate quando lui scoprirà chi sono e lascerà la ragazza che vorrà vendicarsi; tornata negli USA si fingerà un'altra persona (identica alla truffatrice) e lo farà innamorare di nuovo.

Commedia romantica uscita in tutto e per tutto dagli anni '30, con iperboli poco credibili (il doppio innamoramento ovviamente), ma utili alla storia e inserite in un contesto con cui risultano, se non credibili, almeno tollerabili. La sceneggiatura, anzi sembra essere più compatta rispetto a molti film simili di qualche anno precedente.
La coppia centrale del film è perfettamente in parte con una Stanwyck abbonata a parti del genere che illumina lo schermo con il suo sorriso e un Fonda che fa una versione edulcorata degli ingenui picchiatelli di Grant assomigliando agli impacciati personaggi di Stewart.

I veri punti di forza di questo film però sono altri.
La trama, anche se evidentemente prevedibile, si affida a più twist cercando la via più inusuale per arrivare alla solita conclusione e, nel farlo, si butta molto sul lato sensuale della vicenda piuttosto che su quello più schiettamente romantico (la prima seduzione in cabina con i protagonisti abbracciati, il famoso finale che si conclude con i due che fuggono nella loro stanza e la macchina da presa che attende al di fuori). Questa sensualità molto forte in alcune scene e la decisione della Stanwyck di odiare chi ha amato hanno spesso paragonato il suo personaggio alla femme fatale dei noir, ma in chiave comica.
Il tono è sempre solare, il ritmo non altissimo, ma costante; ma il vero pregio (il secondo) sono le trovate comiche. Un mix di sceneggiatura e capacità di regia (vogliamo citarlo, finalmente, il povero Sturges? qui paragonato, un poco esagerando, a Lubitsch) che riesce a costruire scene perfette (basti pensare la partita a carte in cui il padre imbroglia per vincere contro Fonda, mentre la figlia imbroglia per fermare il padre).

lunedì 18 febbraio 2019

Le mura di Sana'a - Pier Paolo pasolini (1971)

(Id.)

Visto qui.

Al termine delle riprese per il "Decameron", Pasolini si risolve a realizzare una serie di registrazioni del centro storico della capitale yemenita e della popolazione locale. Quelle riprese verranno montate in questo cortometraggio.
L'intento è, dichiaratamente, un appello all'UNESCO affinché si faccia carico della salvaguardia della città medievale di Sana'a.
Intriso di un poco di arroganza (l'appello a nome del popolo yemenita che ancora non l'ha fatto, ma certamente lo farebbe) e di un occhio estremamente lucido sui mutamenti reali (l'idea cinematograficamente più azzeccata è la serie di inquadrature dei piedi degli yemeniti per sottolineare l'invasione dei beni di consumo) il documentario è un'opera interessante, ma confusa.
Interessante per l'invettiva iniziale anti neo colonizzazione (per lo più cinese!), che però è decisamente fuori tema, e interessante per il parallelo con quanto avvenuto in Italia, è però confusa per gli stessi motivi. Aggiungere argomenti al di fuori del significato fanno perdere nerbo al documentario e la lunga sequenza in Italia è eccessiva per l'obiettivo finale (anzi, l'obiettivo di sollevare lo stesso problema sul territorio nazionale sarà rappresentato molto meglio dal documentario televisivo "Pasolini e... la forma della città" del 1974; torneranno gli stessi argomenti, ma meglio esposti e con più minutaggio).
Rimane comunque un esempio precoce e altissimo di impegno sociale di un intellettuale al di là del proprio giardinetto di casa, che dimostra, inoltre, una preveggenza lodevole e una sensibilità non comune.

Accattone - Pier Paolo Pasolini (1961)

(Id.)

Visto in Dvx.

Accattone è un indolente che disprezza il lavoro e vive di espedienti con gli amici del quartiere e fa prostituire la propria compagna; quando questa viene arrestata lui ne cerca un'altra, la porta a fare la vita, ma, forse, si innamora. Proverà a lavorare, ma durerà una giornata.

Il primo film di Pasolini è un bignami di quanto avverrà subito dopo. Partendo dal neorealismo Pasolini si infila nei bassifondi dell'Italia dell'epoca, mostrando una Roma butterata, con edifici cadenti e un'umanità allo sbando, che vive e sopravvive. Il protagonista è un figlio di quell'ambiente, un protagonista passivo, né buono, né cattivo, vittima di sé stesso che fa del male a chi gli sta intorno.

Dal punto di vista tecnico ci sono già i rigidi movimenti di macchina dei film successivi e le passeggiate con carrelli di "Mamma Roma", qualche ingenuità di troppo nei continui primi/ssimi piani e un montaggio tagliato con l'accetta; entrambi figli del digiuno totale dell'autore per il mezzo cinematografico (possibile che l'impronta vera e propria l'abbia data Bertolucci, qui aiuto regista, che avrebbe esordito solo l'anno successivo).

Nel complesso il film è un dramma sociale che prende a piene mani dalla sensibilità di un ventennio prima, ma con l'occhio acuto e attualizzante del Pasolini scrittore. Assolutamente efficace, tuttavia non paragonabile al successivo "Mamma Roma", forse per la maggior esperienza del regista, forse per la presenza di un fiammeggiante Magnani.

venerdì 15 febbraio 2019

Vacancy - Nimród Antal (2007)

(Id.)

Visto in Dvx.
Una coppia prende la consueta deviazione dalla strada principale durante un viaggio notturno, finiranno in un motel isolato in cui si renderanno presto conto che sarebbe stato meglio non avvicinarsi.

Un film horror di poche pretese che si rivela essere non solo un ottimo horror, ma anche un ottimo film.
Partendo da una trama canonica, senza troppa inventiva, ma comunque efficace, Antal tira fuori un horror onestissimo che crea tensione anche a una seconda visione (la mia in questo caso) giocandosi tutto su un uso degli spazi perfetto e tutto fuorché banale. Il film usa la claustrofobia degli ambienti consueti, di quelli più particolari (i tunnel) fino ad arrivare a creare claustrofobia con gli ambienti esterni (grazie a un buio denso come una parete) riuscendo a trasformare ogni scena in un labirinto senza speranze. Nella realizzazione di questo mood collabora in maniera decisiva una fotografia magnifica che sfrutta i colori densi (o più spenti dell'interno della camera di motel) per definire gli spazi e le luci che illuminano sempre pochissimo per quel senso di claustrofobia costante.
Scene pulitissime e un utilizzo di ogni elemento per creare tensione (il sonoro, l'intermittenza delle luci, l'arrivo della cavalleria) dovrebbero essere d'esempio per chiunque si accinga a fare un horror, anche a bassissimo costo.

Infine, il film, riesce nell'impresa di introdurre uno sviluppo dei personaggi che si muove con le scene di tensione e non a discapito loro; i rapporti sono piuttosto scontati, ma il loro crescere e la chiusura finale riescono ad essere efficaci senza compromettere nulla.

mercoledì 13 febbraio 2019

Polytechnique - Denis Villeneuve (2009)

(Id.)

Visto in Dvx.

Il film ricostruisce gli eventi principali del massacro del politecnico di Montreal con una breve sequenza su quanto fatto poco prima dal killer e il futuro di due dei sopravvissuti.

Davanti a film del genere la mente corre subito a "Elephant", ma Villeneuve supera a destra l'opera di van Sant, togliendo completamente l'operazione intellettuale e tornando al mero svolgimento dei fatti, toglie il tentativo di capire il contesto sociale (giustificativo?) per riportare solo i fatti. E la paura.

In fin dei conti questo film è violento e crea tensione continua; ma il regista è estremamente pudico a nascondere gli omicidi (sotto i banchi, dietro a strutture, nei fuori fuoco o nei fuori scena ecc...), perché la violenza (che rimane altissima) è tutta psicologica: si trova nella ragazza che si finge morta di fianco all'amica paralizzata, si trova nella fuga di gruppo dalla sala comune fin fuori, sulla neve, si trova nella divisione della classe fra uomini e donne; la violenza è ovunque, senza mai bisogno di essere fisica.
Gli omicidi mai inquadrati si inseriscono perfettamente nello stile del film; un film chiaro e semplice (la pedissequa riproposizione di quei momenti) senza fronzoli  virtuosismi visivi, niente musica, niente colori (che aiutano a smorzare lo shock del sangue) niente invenzioni; ma dietro la macchina da presa Villeneuve si muove con stile e praticità, mettendo in campo piani sequenza impeccabili, gestione dei primissimi piani per nascondere le scene o per aumentare la tensione, oltre all'uso del fuori fuoco per mostrare senza mostrare.
Uniche deviazioni dalla rappresentazione dei fatti sono il breve preambolo iniziale , dove il killer scrive la lettera che spiega i motivi ufficiali del suo gesto e le due scene dove due sopravvissuti cercano di convivere con i loro demoni, con risultati diversi (mi pare che a Villeneuve piaccia giovare coi tempi dei film). Ecco, il finale, raccontato dalla ragazza, è forse la parte più debole; ovvio contraltare all'apertura dedicata all'assassino, la chiusura vuole riportare il fuoco su altro, ma a mio avviso perde molto del pathos e, anzi, rischia di finire del tutto fuori strada e lasciare adito a troppa drammatizzazione.

Nel complesso, però, il film rimane un'opera solidissima e densa, ricca di tensione e gestita alla perfezione.

lunedì 11 febbraio 2019

Blade runner - Ridley Scott (1982)

(Id.)

Visto in Dvx.

Film iconico per eccellenza di cui chiunque ha già detto tutto. Personalmente non sono mai stato un appassionato cultore, ma rivedendolo oggi non si può non riconoscerne il valore.

Il film si muove con il fiato spezzato del noir e con il ritmo lento degli Scotts degli anni '80.
Il film prende un vago spunto da un libro di Dick solo per partire con una densa trama filosofica, ricca di filippiche e strati di significato; una sceneggiatura complessa e complicata (un pò film autoriale un pò noir classico, di nuovo) che riesce a reggere il colpo nonostante qualche eccesso (il famosissimo monologo finale posto dopo un inseguimento teoricamente violento avrebbe ammazzato qualunque altro film).

Ma con tutto questo il film avrebbe fatto la gioia di Dick e sarebbe stato messo nel dimenticatoio del tentativo autoriale di un regista con potenzialità mainstream.
Il reale valore aggiunto però è altrove: nel comparto estetico.
Mi rendo conto della tautologia, ma mai come in questo caso siamo davanti a un film da guardare. Scott crea un film in cui le immagini trasmettono interamente il mood veicolato dalla sceneggiatura con in più informazioni potenziali su quanto successo fino a quel momento.
Anzi, Scott fa di più, crea un intero mondo solo con le immagini. Una Los Angeles che è un'immensa Chinatown, costantemente umida, barocca e adagiata nella sua dissoluzione, un disfacimento calmo e accettato da tutti, nonostante tutto. Un luogo buio in cui le luci al neon sono pervasive quanto gli schermi pubblicitari e le luci intrusive che dall'esterno illuminano gli interni ancora più cupi della città senza però chiarire ciò che accade, anzi, aumentando la confusione.
All'opposto rispetto al precedente "Alien", le immagini sono densissime pur nella loro semplicità, ma sono costantemente ragionate. La regia fa ciò che vuole per seguire i personaggi: primi piani, piani medi (per mostrare adeguatamente gli interni), movimenti di macchina, inquadrature fisse, montaggio interno; c'è tutto.
Il film parla più con le immagini che con le parole, accumulando informazioni, emozioni e simbologie in una serie di sequenze assolutamente impeccabili. Mostra, giocando, il concetto di mostrare (con i continui riferimento agli occhi, la vista e le immagini) e rappresenta di per sé un film nel film.

PS: Spoiler. Deckard è un replicante? L'idea (anzi l'idea di lasciare il tutto nell'ambiguità) è intrigante e aggiunge un nuovo livello di lettura tirando le fila di un discorso altrimenti solo evocativo (il rapporto con Gaff); ma, a conti fatti, non aggiunge nulla alla trama. L'incertezza di essere o meno un androide è già rappresentata da Rachael, l'idea che un androide vada a caccia di androidi non aumenta il fascino del film, il fatto che Roy nel finale sia più umano di un umano non è sminuita se quest'ultimo è un robot (ci sono degli umani dietro Deckard in ogni caso, Gaff non mostra neppure la comprensione del personaggio di Ford).

venerdì 8 febbraio 2019

Carmen ritorna a casa - Keisuke Kinoshita (1951)

(Karumen kokyô ni kaeru)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Una ragazza che fa "l'artista" (la cantante ballerina di avanspettacolo... o forse qualcoasa di più...) a Tokyo torna i campagna dove è nata e dove vive il padre che si rifiuta di vederla. Il villaggio si muove attorno a questo ritorno mentre lei cerca conferme negli sguardi degli altri.

Un filmetto grazioso, ma senza nerbo e senza motivi di interesse particolare. La vicenda è trattata in maniera superficiale e il mezzo twist del finale non ne aumenta la profondità. La sceneggiatura veleggia su una superficialità incosciente che rende la storia solo un ritorno, senza effetti sui personaggi (fatto salvo l'aver recuperato dei soldi), senza scavo, senza vere sorprese o cambiamenti.

Kinoshita si cimenta per la prima volta con il colore (il film è da ricordare unicamente per questo motivo: è il primo film a colori prodotto in Giappone) gestendolo in maniera semlicistica con un effetto zuccheroso; le due protagoniste indossano vestiti dai colori sgargianti, frequenti campi medi (o lunghi) che incastrano i personaggi in un idillio campestre fatto da campi verdi e cieli incredibilmente azzurri. Kinoshita si butta anche a gestire l'intero film con carrelli brevi che tentano di rendere dinamiche le staticissime sequenze o muovendosi con le passeggiate dei personaggi.

Quello che rimane è soltanto quello che già si è detto, il primo film a colori giapponese. Niente di più.

mercoledì 6 febbraio 2019

Upstream color - Shane Carruth (2013)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.


Devo ammettere che, guardando il film, non mi è stata mai completamente chiara la trama. Ovvio che le relazioni fra i personaggi e fra le due componenti della storia (gli uomini "contaminati" dalla larva e i maiali) risultano evidenti, ma i dettagli li ho colti solo leggendo qui... e devo ammettere che credo che alcune cose se le siano inventante...

A distanza di nove anni dal suo clamoroso esordio (he ha convinto tutti che la fantascienza si può fare anche con due spicci e senza muoversi da casa), Carruth torna, ma stavolta ha convinto i produttori a dargli dei soldi; esce dal garage di casa e realizza un film con decine di location, am l'essenza è sempre quella di "Primer".
Anzi, ancora più che nel precedente film, quest'opera parte da un'idea più o meno sci-fi per parlare d'altro. Qui infatti siamo davanti a una storia d'amore disperato ed enormemente sentimentale che parte da una larva che, dopo essere stata inoculata, controlla la volontà delle persone (grazie Cronenberg).
L'effetto finale è un film straniante fortemente emotivo e realizzato con un gioco di montaggio continuo (vi sono due storie parallele) che crea una tensione interna catalizzita del disturbato (ma dolce) rapporto a due dei protagonisti. Niente di enorme, ma tutto funziona alla perfezione. Nonostante le mie difficoltà a capire l'andamento della trama, l'interesse per "quello che viene dopo" mi è rimasto altissimo, semplicemente perché a livello emotivo tutto funziona, la tensione è realmente buona e la parte romance la sfrutta bene.

Dal punto di vista estetico, Carruth si può permettere una moltitudine di punti di vista, parecchie location, evolve la sua fotografia scarna in una dai colori strettamente controllati, si concede una cura per l'inquadratura ad effetto che nel precedente non c'era (la nota immagine dei due protagonisti abbracciati in vasca da bagno; anche contestualizzata non perde dolcezza, surrealtà e inquietudine), e si mette anche a giocare con sovrapposizioni di sequenze.

lunedì 4 febbraio 2019

Todo modo - Elio Petri (1976)

(Id.)

Visto in Dvx.

Agli esercizi spirituali di un prete carismatico, partecipano molti dell'intellighenzia dell'epoca (veri e propri protagonisti della politica o dell'economia italiana). Durante la settimana però cominciano a essere perpetrati degli omicidi, sconvolgendo il microcosmo (già piuttosto sconvolto). Ovviamente per le indagini nessuno potrà lasciare l'eremo.

Per capire com'è realizzato questo film direi che si può nominare "Il divo"; una regia dinamica ed estetizzante, un protagonista principale freak, isolato dalla società (qui isolata per il potere che rappresenta e per gli intrighi che vengono orditi); location estetizzanti quanto la regia (in questo caso moderniste ed essenziali, che fanno risaltare il grigiore) oltre a un costante senso di surrealtà.
Ovviamente l'esperimento è molto interessante, in quanto la via migliore per poter parlare della politica dell'epoca (il riferimento alla politica dell'epoca è dato da un Volonté che ricalca pedissequamente Aldo Moro) sembra essere quello della distopia. Non è fantascienza, ma l'ambientazione, il tono e il rapporto fisico e assurdo con la religione (l'uso insistito della fustigazione, il "Padre nostro" con i respiri profondi, oltre al rosario nell'episodio centrale del film) rendono il film alla stregua dei suoi contemporanei in cui il futuro era in mano a società para-religiose.
Come dicevo la regia punta molto sull'estetica. Una fotografia dai colori neutri (tutto è grigio, nero o color legno), le location dagli interni asettici e senza fronzoli (con alcune statue di intento religioso, ma dalla realizzazione inquietante); molta attenzione alle inquadrature e ai movimenti di macchina (molto bella la scena del rosario fatto camminando ad esempio).
Ottimi gli attori con un Volonté macchiettistico (come richiesto dalla parte) e un Mastroianni finalmente in una parte diversa dal solito (con un solfureo personaggio preso direttamente dagli imbonitori da fiera americani); purtroppo la Melato è utilizzata malissimo.

Le singole parti sembrano poter dare luogo a qualcosa di importante; purtroppo il risultato non è all'altezza delle aspettative. Il film è troppo surreale, troppo teso a voler essere metafora grottesca, senza avere il senso delle proporzioni o idee totalmente originali. Talmente estremo da risultare più farsesco che graffiante.

venerdì 1 febbraio 2019

Insomnia - Erik Skjoldbjærg (1997)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

In un paese norvegese al di sopra del circolo polare artico viene uccisa una ragazza; data la difficoltà del caso vengono chiamati due ispettori svedesi (?). La morte di uno dei due causata dal primo, indizi trovati (o creati) in maniera non ortodossa, il sole costante notte e giorno e un rapporto con l'assassino che diventa sempre più personale renderanno la sua permanenza sempre più autodistruttiva.
Da quest'opera, pochi anni dopo, Nolan trarrà il suo film omonimo.

Il film vive tutto sul rapporto con l'ambiente in cui è girato. Il circolo polare artico, il freddo e la luce pervasiva del sole di mezzanotte. Tutto gira attorno a questo elemento; il protagonista algido e distaccato (ma sempre più sofferente), la fotografia desaturata che rende visibile il mood, il ritmo, continuo, ma rilassato che porta avanti una trama ricca di suggestioni e autodistruzione.
L'opera, insomma, è il contenitore che prende la forma del proprio contenuto, trasformando un normale giallo in un'epopea umana dell'ispettore svedese disposto a tutto per arrivare in fondo alla vicenda di cui è vittima e carnefice allo stesso momento.

Se la vicenda, ben scritta, si appoggia tutta all'estetica calma e senza speranza, la credibilità della trama trova una sponda fondamentale in (un giovanile) Skarsgård, protagonista impeccabile, che gioca con l'impassibilità professionale dell'inizio per poi deviare verso fastidio, desiderio e consunzione continua e e in costante peggioramento, una prestazione ottima.