mercoledì 30 novembre 2016

Estasi - Gustav Machatý (1933)

(Ekstase)

Visto in Dvx, in lingua originale.

Una ragazza è sposata con un uomo più anziano di lei... e impotente. Fugge dal matrimonio sfortunato e ripara dal padre. Lì conosce un ingegnere (oddio... non so se è un ingegnere, ma la professione conta poco) di cui s'innamora e con cui ha una soddisfacente relazione. Il marito torna per riprenderla e li scopre con tutte le conseguenze del caso.

Di fatto un film muto. Ci sono alcuni dialoghi, ma di fatto il film si sviluppa senza bisogno di parole, ma con le immagini.

Questo film è qualcosa di grandioso, una regia pazzesca che non lesina dettagli nella costruzione delle scene; movimenti di macchina da presa incredibilmente moderni per quasi tutta la durata; inquadrature costruite su più piani; uso della luce in senso emotivo; soggettive; inquadrature con punti di vista costantemente diversi e un montaggio efficace nel legarle e molti dettagli; ma c'è anche una sequenza di avvicinamento alla finestra illuminata resa con una serie di inquadrature fisse in sequenza.
Da manuale del cinema alcune sequenze. L'incipit con l'impotenza sessuale mostrata con evidenti metafore e la frustrazione di lei palpabile dovuta ai continui contrattempi è fantastica; la sequenza del primo incontro notturno fra i due amanti o quella della morte sono entrambe un capolavoro. Uh, per non citare la sequenza finale in cui il montaggio serrato dà un ritmo incredibile e ci sono le inquadrature letteralmente attaccate agli oggetti. Vabbé direi di fermarmi qui perché rischio di citare l'intero film.

Ma questo è anche il film con la Lamarr nuda (anche se la Lamarr sostiene di essere stata ingannata; doveva essere ripresa con un campo lungo, ma il regista utilizzò un teleobiettivo e lei lo venne a sapere alla prima del film), il primo nudo integrale in un film non porno amatoriale; è il film del primo orgasmo (la cui espressione, sempre la Lamarr sostiene, sia stata ottenuta pungendola con uno spillone). Ma molto più di questi due eventi, questo è un film erotico per come gronda sesso in ogni sequenza; le allegorie sono continue, il desiderio della Lamarr è palese da metà film in poi. Ed è il film che rende iconografica la natura come mezzo per significare/scatenare il desiderio, dai fiori in primo piano alla Malick, agli insetti (che sono i veri specchi dei personaggi interpretando la libertà tarpata, l'imprigionamento del dolore, il sesso appunto e la decisione irrevocabile del finale), nonché i cavalli che sono tra le metafore più sfacciate del film.

lunedì 28 novembre 2016

Re-animator - Stuart Gordon (1985)

(Id.)

Visto in Dvx.

Uno studente di medicina che frequenta la figlia del rettore diventa il coinquilino di un nuovo arrivato, arrogante e misterioso. Presto scoprirà che il coinquilino ha ideato un liquido per far rivivere i morti, ma le conseguenze degli esperimenti non saranno all'altezza delle aspettative.

E poi, a metà anni '80 è arrivato Yuzna. Se l'horror c'è sempre stato, Yuzna però ha reso programmatico lo stile cazzaro, senza esagerazioni, ma con la giusta dose di autoironia. Qui nelle vesti di produttore e affiancato da uno Stuart Gordon agli inizi ma già competente. I due mettono insieme un film horror splatter che pur rimanendo sempre serio riesce a prendersi alla leggera, quindi senza dover inserire gag o battute riesce ad avere il passo della commedia.
Non si inventa niente, ma diventa capostipite di una serie e pur senza esserne il migliore si lascia ricordare piacevolmente. Distante dalle splendide farse low budget di Peter Jackson, ma lontano anche dalla splendida follia di "The society"; qui viene creato un film vero e proprio che vive di un'idea che non viene concentrata solo nel finale, mentre la regia di Gordon rende dinamico e ritmato tutto il minutaggio.

venerdì 25 novembre 2016

L'avventura di Teri - William Dieterle (1932)

(Jewel robbery)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Una donna viene sedotta (si fa sedurre) da un ladro gentiluomo che con incredibile eleganza e charme rapina la gioielleria dove lei si sta facendo comprare un costoso anello dal marito. Ovviamente neanche lui sarà completamente immune al fascino di lei e la cercherà a casa sua.

Commedia sentimentale upper class pre codice Hays... come si può ben notare per gli ammiccamenti sessuali e il riferimento più che evidente per la marijuana.

Io ho indubbiamente una passione per i personaggi british che siano uomini o donne, tuttavia credo di non esagerare nel dire che Powell è strepitoso e nelle vesti del ladro gentiluomo potrebbe anche battere un Niven qualunque.

Regia dinamica, rimane sul pezzo e cerca di non farsi notare, ma quando viene lasciata libera si sfoga con controcampi di profilo o piccoli piani sequenza. Le dinamiche però sono piuttosto ingessate con lunghe sequenze ambientate negli stessi locali a tirare di lungo, quando per seguire il dinamismo dei dialoghi e dei personaggi avrebbero dovuto essere più snelle.
La storia in sé non è originale, ma si risolve alla svelta con un minutaggio minimo. In definitiva però l'intero film (e l'intera regia) però si basa moltissimo sui volti, sui corpi, i movimenti e le smorfie degli attori, e come detto, non sbaglia.

Un un film impeccabile, ma sicuramente efficace.

mercoledì 23 novembre 2016

Joshû 701-gô: Sasori - Shunya Itô (1972)

(Female prisoner #701: Scorpion)

Visto in Dvx in lingua originale sottotitolato in inglese.

Una donna viene sedotta da un poliziotta che la convince ad aiutarlo per incastrare dei criminali. Facendo da esca verrà picchiata e violentata e il poliziotto si dimostrerà totalmente disinteressato, lui puntava solo agli arresti e lei era solo un oggetto. Cercherà di vendicarsi, ma sarà arrestata; nel carcere diventerà la vittima preferita dei secondini e il target delle frustrazioni delle altre detenute.

Il film è di per se una risibile e grottesca galleria di violenze psicologiche e fisiche su una donna forte, dico risibile per il piglio cartoonesco che rende il tutto per nulla impressionabile e per l'insistenza voyeristica. Tutto ciò però può far perdere rapidamente interesse per un film che, per il resto, vive solo del numero (decisamente ragguardevole) di tette che vengono esposte. Per carità, queste sono le direttive per ogni buon film del genere donne in carcere... ma qui c'è di più.

Qui c'è una regia pazzesca, dinamicissima, fatti di montaggio rapido, inquadrature articolate e sghembe, rapidi movimenti di macchina da presa e zoom; il tutto con un occhio all'estetica generale (costruzione delle immagini e fotografia complessiva) senza farsi prendere troppo la mano sul colore. In poche parole, il meglio della regia tipica anni '70.
Ma ancora Itô non si accontenta e aggiunge alcune sequenze che rappresentato dei picchi di autorialità inaspettata (il flashback realizzato quasi in un'unica sequenza con scenografie mobili simile a quello che farà Coppola con "Un sogno lungo un giorno"), crossover di generi (la collutazione nella doccia con la donna trasformata in un demone da teatro kabuki) e spunti espressionisti (il cielo durante la rivolta delle carcerate con i badili).

Un film da vedere.

PS: protagonista la bellissima (e cinematograficamente violenta) Meiko Kaji (futura "Lady Snowblood") che canta la tarantiniana "Urami bushi".

PPS: il costume di Sasori (così come il nome) è citato in "Love exposure" di Sono... come un pò l'intera struttura del finale.

lunedì 21 novembre 2016

Fiori nel fango - Douglas Sirk (1949)

(Shockproof)

Visto in Dvx in lingua originale sottotitolato.

Una donna esce dal carcere sulla parola dopo una condanna per omicidio. Il suo parole officer (non so come si dica in italiano) la mette in guardia circa il tornare a frequentare le stesse persone che l'hanno portata sulla cattiva strada. Per portarla verso una vita nuova le trova un lavoro come donna di compagnia della propria madre cieca. Il parole officer si innamora, si dichiara e i due si sposano. Quando l'ex della donna viene trovato morto lei viene sospettata e i due scappano insieme.

Un film particolare, un dramma sentimentale in ambiente poliziesco ben realizzato, una storia ancora molto godibile. Il dettaglio più interessante della trama è la discesa verso il basso, il crollo dalla vita borghese a quella da latitanti scontenti che inizia dal momento della dichiarazione d'amore; da quando l'amore arriva alla luce del sole, li la coppia dovrà darsi alla macchia.
L'idea dunque è buona, ma viene affossata nel finale che è più idiota che sdolcinato...

Dietro la macchina da presa c'è un Sirk che sembra più competente nella gestione del ritmo che della regia vera e proprio (in cui viene costruita qualche buona inquadrature e ci piazza un paio di carrelli veloci, ma per lo più passa inosservata); anche grazie alle capacità di Sirk il film scorre via piacevolmente.

I protagonisti sono incredibilmente legnosi.

venerdì 18 novembre 2016

The congress - Ari Folman (2013)

(Id.)

Visto in Dvx.

Un'attrice, dopo un inizio carriera enorme negli anni '80, ma ormai di secondo piano viene contattata per essere scansionata e digitalizzata. Quello sarà il primo passo verso la completa digitalizzazione dell'industria cinematografica. A malincuore, ma l'attrice accetta. 20 anni dopo, l'azienda cinematografica è divenuta una struttura a sé che sembra poter controllare ogni cosa; invita l'attrice a un congresso in cui verrà presentata una nuova droga. In questo mondo si può accedere solo utilizzando una sostanza che altera la percezione facendo sembrare tutto un cartone animato.

Il passato e la realtà vengono realizzate con il live action classico, anche se indorato da una fotografia fatta di luci diffuse e colori decisi; lo stato alterato di percezione viene realizzato con un'animazione fatta tramite rotoscope.

Folman realizza un film originale, non tanto per la fusione fra live action e  animazione, quanto per la complessità della trama raccontata che prende le mosse da una sorta di critica all'industria cinematografica per approdare a un discorso molto articolato con il passato e i ricordi, ma soprattutto con il rapporto che si decide di instaurare con essi. La protagonsita che viene tentata dall'idea della giovinezza, ma soprattutto del ricordo di quello che è stata due decenni prima; una galleria di personaggi che assumono l'aspetto dei miti del passato nelle loro versioni più iconografiche; la ricerca spasmodica dei figli come legame con il passato (per cercarli rinuncerà anche a una love story hollywoodiana) e l'intero percorso costellato da riferimenti a quel mondo passato che la protagonista cerca di ricostruire (gli aquiloni o i continui riferimenti al volo o la presenza continua di Danny Huston)

Nel mondo dell'animazione le citazioni e i dettagli sono ovunque, con personaggi che interpretano icone del passato (un applauso a Grace Jones), citazioni di Bosch e un tratto cartoonesco che sembra riprendere quello dell'animazione americana anni '20-'30.

A questo va aggiunta la presenza di Robin Wright che concede la possibilità di sfruttare anche la propria storia personale e il suo nome e che riesce perfettamente a muoversi a suo agio in continui cambi di prospettiva. Supportata da un cast interessante per l'uso che ne viene fatto (mai visto un Keitel così paterno e rassicurante) e assolutamente sul pezzo.

Al di là delle indubbie competenze tecniche e di contenuto il film si distacca dalle attuali produzioni occidentali d'animazione per due dettagli importanti. La parte animata di fatto è una lunga cavalcata nel surreale con contatti con la storia e la realtà più nelle assonanza e nella struttura generale anziché nelle sequenze inanellate. Ma soprattutto per una capacità incredibile nel costruire scene bellissime e dal contenuto poetico enorme (si pensi al rapporto sessuale che fiorisce con le fiamme dell'incidente che incombono), capacità che viene sfruttata anche per la aprte in live action (la mappatura nella prima parte o i dirigibili con i medici raggiungibili tramite aquilone nella seconda parte); queste sono scene che non aggiungono niente alla vicenda e che avrebbero potuto essere realizzate con minor dispendio, ma che regalano complessità e mood a un mondo sfaccettato.

mercoledì 16 novembre 2016

About Elly - Asghar Farhadi (2009)

(Darbareye Elly)

Visto in Dvx.

Un gruppo di amici si prende qualche giorno di vacanza al mare, con le varie coppie (sposate!) si aggiunge un amico in cerca di una compagna e una ragazza, insegnante della figlia di una coppia e amica di amici. Durante la vacanza un incidente fa irrompere la tragedia, quando finalmente il dramma rientra si rendono conto la ragazza è scomparsa, è fuggita o è scomparsa nell'oceano? e l'uomo che continuava a chiamare chi è?

Film precedente al bellissimo e ambiguo "Una separazione" di cui sembra una emanazione.
Con il capolavoro successivo condivide la medesima messa in scena; una ambientazione "neorealista" (quanto è oramai abusato questo termine per descrivere il cinema mondo iraniano?); una fotografia verosimile, ma tirata a lucido; una macchina da presa a mano che però non lesina nella costruzione delle scene e nella gestione degli spazi (così come degli attori sulla scena).

Ovviamente però quello che fa la differenza è la trama e la gestione di ciò che succede. A fronte di una prima metà solare, non proprio commedia, ma uno spaccato di vite in una giornata felice, dal momento dell'incidente nell'oceano si scoprono le carte e quello che si vede è che la verità non esiste. In primo luogo non si riesce a capire che cosa sia successo; Elly se ne è andata come aveva paventato o è scomparsa al largo tentando di salvare il bambino? se ciò fosse dov'è finita la sua borsa? Anche qui dunque inizia a essere evidente che la verità non potrà comunque essere dimostrata. La verità instabile risulta meno programmatica che nel successivo; tuttavia qui si innesta presto un altro fattore; la menzogna e l'omissione. SE in "Una separazione" la verità è di per se irrintracciabile, qui si dimostra che tutti nascondono qualcosa, tutti mentono e tutti omettono; nessuno in malafede, tutti candidamente, ma ognuno si adopera attivamente per nascondere la verità proprio mentre la sta cercando.
Inoltre, dopo un'apertura solare, il film si chiude nella cupezza, perché una volta che si è esplicitata l'inaffidabilità delle persone, il dubbio altera le coppie e distrugge i rapporti sociali e nessuno ne è indenne.

lunedì 14 novembre 2016

Capitan Blood - Michael Curtiz (1935)

(Captain Blood)

Visto in Dvx.

Un medico inglese dal cuore puro e ardimentoso in spirito viene condannato al carcere nei Caraibi per aver soccorso un ribelle. Nei Caraibi sarà vessato come schiavo, ma per le sue acute capacità mediche entrerà nelle grazie del governatore. Durante un assedio da parte degli spagnoli ruberà una nave con altri fuggitivi e diventerà in breve uno dei pirati più temuti. Dopo mesi arriverà per lui la possibilità di un riscatto.

Solo ora che lo vedo non posso che dare ragione a Sloth per la sua passione per questo film.

Il film si pregia di un Errol Flynn in piena forma che, nonostante la solita parte dell'eroe senza macchia, riesce a tenere lo schermo con piglio scanzonato dall'inizio alla fine che non può non risultare simpatico
Magnifiche la scenografie; sia degli interni, spigolosi e irrealmente spogli dove le ombre hanno gioco facile a farla da padroni nella fotografia; sia della ricostruzione del ponte della nave che, completamente in antitesi con gli interni, ricostruito al dettaglio con un profluvio di oggetti. Una cura che mostra un'attenzione all'effetto che si vuole ottenere sullo spettatore prima che sull'aderenza alla storia.
La macchina da presa che rimane salda a costruire inquadrature sempre piene specie nella seconda parte; addirittura sfruttata (con lievi movimenti paralleli alla scena o in avvicinamento) per rendere il beccheggio della nave con un'idea semplice quanto intelligente. Inoltre la regia si dimostra particolarmente sul pezzo nelle scene d'azione, dove spicca l'arrembaggio nel finale; dinamico, fastoso, con un numero incredibile di comparse e un effetto finale ottimale ancora oggi.
Non ho visto molti film di pirati, ma è fuori discussione che questo è, al momento il migliore; ma dirò di più; questo è un film d'avventura realizzato nel 1935 e invecchia per nulla, ancora attuabile e fruibile.

PS: l'ho detto che c'è Michale Curtiz alla regia? no per dire che non ha fatto solo "Casablanca" e che "Casablanca" non è stato un caso isolato.

venerdì 11 novembre 2016

...e giustizia per tutti - Norman Jewison (1979)

(...and justice for all)

Visto in tv.

Un avvocato d'esperienza decennale, si muove fra casi di giustizia sociale sempre frustrati da un giudice troppo intento a dare esempi che a dare giustizia. Quando il giudice si troverà accusato di violenza sessuale contatterà l'avvocato e lo obbligherà a difenderlo. L'avvocato si troverà moralmente alle strette fra aiutare un uomo da condannare per la sua storia pregressa e il suo carattere e cercare di fare il proprio lavoro.

Alla regia c'è Jewison, alla sceneggiatura Levinson, due personaggi che continuo ancora a confondere, ma che rappresentano il meglio del cinema mainstream che cerca di fare film politici o sociali. Ovviamente figuriamoci se in questo incontro si smentiscono.
Fin dal titolo è evidente dove si voglia andare a parare, quindi tutti i casi seguiti da Pacino sono casi di giustizia sociale che cozza contro un sistema giudiziario troppo rigido o miope; non sorprenderà che tutti, tutti, i processi che avverranno durante il film finiranno per distribuire ingiustizia.

La regia asciutta con una fotografia che asseconda il voler essere sullo sfondo, immerge del tutto i suoi personaggi dentro enormi aule giudiziarie o li fa muovere per lo più di notte, o in carceri.
Al Pacina ha del miracoloso, facendo una parte stucchevole e banale, recitando con molta, troppa foga, eppure rimane sempre entro i limiti del verosimile regalando una performance splendida che in mano a chiunque altro sarebbe stata semplicemente inguardabile.

La vera differenza la fa una sceneggiatura a tesi che da una parte sembra un giorno in pretura (mostrando la vita e i dubbi di chi lavora nel sistema della giustizia, umanizzandoli e disumanizzandoli secondo le necessità), dall'altra rasenta la farsa con un villain ai limiti della credibilità (se fosse stato del tutto innocente ci sarebbe stata meno agnizione, ma ne avrebbe guadagnato di significato) e con un giudice aspirante suicida che da leggerezza, ma che è del tutto fuori luogo.

mercoledì 9 novembre 2016

La divorziata - Robert Z. Leonard (1930)

(The divorcee)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

La felicità di una coppia viene infranta dal tradimento di lui. I due si parlano, sembrano chiarirsi, lui insiste sul fatto che in fin dei conti quel tradimento non abbia valore. Lei sconfortata, cede e lo tradisce a sua volta... stavolta però il marito non sembra più di così larghe vedute e chiede il divorzio. La donna si trascina cercando conforto in un vecchio amore, ma si farà da parte per non essere lei la causa della fine del matrimonio dell'amico. Happy end finale.

Una commedia romantica; addirittura stucchevole nella parte iniziale che si trasforma poi in un dramma (che in un altro decennio avremmo definito borghese) con spunti di melò piuttosto riusciti. Il finale positivo è, come spesso succede, fuori posto, ma dopotutto, in questo caso, sopportabile.
Quello che risulta più indigesto è piuttosto l'inizio, eccessivamente enfatico verso il lato rosa della vicenda, ma indubbiamente è necessario per creare un contrasto maggiore con l'agnizione della separazione.

Dietro la macchina da presa c'è Leonard, regista che conosco pochissimo, ma di cui penso molto male per quanto concerne il ritmo, ma penso molto bene circa la costruzione di immagini. Se il ritmo qui è adeguato, ma senza sprazzi, e la regia in generale sembra sottostare a questo profilo basso; qualche tocco molto positivo lo si può notare, su tutto la serie di amanti e di avvicinamenti mostrati solo attraverso le mani dei protagonisti.

Buono il cast con una Shearer sempre credibili e che rimane il vero motivo per cui guardare questo film (oltre al gusto di vedere un film sentimentale ancora libero dal codice Hays).

Purtroppo il limite di questo film è proprio la sua intenzione, Vuole essere un dramma intimo su un divorzio e tale rimane, solo la storia di un divorzio; poca empatia, poco allontanamento dal piccolo per poter diventare universale; godibile, ma rimane chiuso in sé stesso.

PS: innegabile non fare il paio fra questo film e il successivo "Donne"... il film di Cukor non è impeccabile, ma innegabilmente riesce molto di più a farsi empatico.

lunedì 7 novembre 2016

La casa nera - Wes Craven (1991)

(The people under the stairs)

Visto in Dvx.

Un regazzino del ghetto viene convinto a rubare in una casa sigillata dall'esterno dove vive una coppia di ricchi pazzi; rimarrà bloccato li dentro e scoprirà di non essere l'unico ad avere difficoltà ad uscire.

Che poi gli si vuole bene a Craven, perché ha avuto un inizio carriera che ha creato uno standard e perché poi ha fatto cose da urlo reinventando di nuovo il genere e rendendolo anche intellettualmente pesante. Poi però ogni tanto da di matto e sputtana tutto. Qui ci sono troppi elementi tutti insieme, cannibalismo, mostri in cantina, genitori psicopatici, una casa-trappola, un pazzo vestito di latex e borchie che spara al soffitto, un bulldog come antagonista principale, porte e pareti fatte di polistirolo... tutto ciò diventa eccessivo quasi fin da subito e considerando che in diverse occasioni il tono è quasi da commedia (i due villain sono delle macchiette).
La cosa peggiore è che Craven sembra incerto sul timbro da dare, continua a cambiare, inizia con un horror classico, passa all'avventura (in salsa horror) per regazzini sul filone ben rappresentato da "I Goonies", poi passa al blando film di denuncia sociale e finisce con un film anticapitalista. Perché? Non li fonde mai insieme, li alterna soltanto riuscendo a rendere insoddisfatto chiunque abbia un'aspettativa seppur minima.

Non c'è mai un brivido vero, non c'è un briciolo di splatter (a chi interessa quell'aspetto), non c'è un'idea innovativa. Un film perdibile.

venerdì 4 novembre 2016

Love exposure - Sion Sono (2008)

(Ai no mukidashi)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Giappone, il figlio di un pastore cristiano vive una vita religiosa e felice. Orfano di madre ha da sempre un ottimo rapporto con il padre; le cose cambiano quando una donna entra nella loro vita, seduce il padre e lo abbandona. Da gioioso compagnone, il padre, diventa un apocalittico predicatore totalmente apatico nei confronti del figlio, il quale, per attirare l'attenzione, comincia a cercare peccati da confessare. Le confessioni di peccati sempre più importanti causano reazioni violente nel padre e il ragazzo recepisce queste reazioni come interesse provandone piacere. Nel cercare nuovi peccati da compiere entra in una gang di voyeur che passano il tempo a fare fotografie sotto le gonne delle ragazze. Neanche da dire che la passione per il peccato del ragazzo lo trasformerà presto in un Guru. Per un gioco il ragazzo deve travestirsi da donna e girare per la città; a parte che sceglierà il vestito borghese di Sasori (e ne copierà il nome); ma lungo la strada incontrerà una ragazza insidiata da un gruppo di uomini. La aiuterà a eliminarli a colpi di kung fu. Ovviamente i due si innamoreranno, ma mentre il ragazzo si innamorerà della ragazza, quest'ultima si innamorerà di Sasori. Bon mi fermo qua, ma non è ancora tutto, perché al di la del gioco degli equivoci di questo innamoramento, tornerà sulla scena la donna che sedusse il pastore a inizio film ed entrerà a gamba tesa una nuova setta. La vicenda finirà a colpi di katana.

Film fiume di Sion Sono della durata di 4 ore, dalla trama articolata (con continue commistioni fra sesso, religione e disturbi sociali), dai personaggi che se ne vanno dalla vicenda solo per tornare più tardi e dal tono incredibilmente positivo. Ecco, la prima cosa che colpisce di questo film è il passo da commedia, in certi momenti di farsa, in altri da commedia romantica. Crea situazioni impossibili (la ricerca del peccato da parte del figlio) e le risolve in momenti di grottesco entusiasmo (i voyeur che si allenano a fotografare le donne come se si allenassero in un film di kung fu; addirittura con delle macchine fotografiche attaccate a dei nunchaku) e codifica la commedia romantica attraverso visioni di per se ironiche o alternative all'usuale (il ragazzo capisce di aver trovato la donna della sua vita per le poderose erezioni cartoonesche che gli provoca la sola vista della ragazza; o ancora la storia d'amore a tre con la ragazza che si innamora di un amore lesbico). Solo nel finale il tono cambia per diventare una sorta di revenge movie classico (con lo stesso piglio rapido e la stessa violenza dentro al palazzo supercontrollato che c'è proprio nel finale di "Female prisoner 701"), ma questo lascia presto il posto a un nuovo finale scanzonato.

La regia dinamicissima sembra anche lei un tributo ai film anni '70 giapponesi (con l'aggiunto di alcune scene costruite con il gusto per la costruzione di vere e proprie icone; si veda l'immagine della croce qui sotto come esempio) e riesce perfettamente a dare ritmo a una vicenda lunga e ridondante. Ecco, se dovessi dire il maggior pregio del film è quello di andare avanti per 4 ore con una serie di storie paradossali e non pesare mai troppo; Sono si dimostra capace di creare una narrazione fluida e svelta nonostante i gravi problemi della trama.
Il neo ovviamente è già detto, è proprio la storia. La magnifica premessa iniziale del religioso che cerca il peccato è bellissima, ma conduce a una serie di rivoli talmente numerosi da non poter essere seguiti tutti; mentre Sono sembra dell'idea di doverne seguire il maggior numero possibile. Quindi il film si riempie di personaggi che escono o entrano in scena continuamente; di vicende che si ripetono; di un continuo ritornare a un apparente punto iniziale. Non pesa mai troppo, proprio per la regia fluida, ma indubbiamente affossa la godibilità del film (e ne ipertrofizza il minutaggio).

In ogni caso per me rimane una delle prove migliori di Sono dopo "Cold fish".


mercoledì 2 novembre 2016

L'uomo del banco dei pegni - Sidney Lumet (1964)

(The pawnbroker)

Visto da registrazione dalla tv.

Steiger è un sopravvissuto di Auschwitz che ora lavora a un banco dei pegni a New York, mantenendo la moglie di un amico morto nel campo e cercando di venire a patti con i propri demoni allontanando da sé tutte le persone che cercano di avvicinarsi. Alle sue dipendenze c'è un ragazzo che vorrebbe essere un suo discepolo, rispettandolo e stimandolo a livello professionale; ma ne viene tenuto alla larga e reagirà di conseguenza cercando uno sbocco per il futuro in altro modo.

Steiger in una dolente versione di un borghese piccolo piccolo uscito da Auschwitz è un'evidente tentativo di fargli vincere un premio (e infatti vinse a Berlino). Per carità è bravo, ma soprattutto riesce a dare una nota dolente costante anche all'iniziale apatia del suo personaggio (oltre ad azzeccare le due scene madri, il dialogo con la donna e il finale; ma questo è il minimo che mi aspetto da Steiger), però non mi è sembrata la sua interpretazione di una vita.

La regia di Lumet è ovviamente interessante, con molte inquadrature oblique e una gestione del montaggio encomiabile (il montaggio rapidissimo e l'inquadratura a salire dopo il colpo di pistola è perfetto).

La sceneggiatura vorrebbe descrivere un film sul dolore presentandolo come un'opera teatrale (non mi risulta che ne sia tratto, ma potrebbe), viene fuori un film verboso oltre ogni dire, anche se il protagonista vince con i suoi silenzi.
Un film carino, ma non eccezionale.

PS: tra le comparse c'è la prima apparizione di Morgan Freeman.