venerdì 31 maggio 2013

Palla da golf - Harold Ramis (1980)

(Caddyshack)

Visto in Dvx in lingua originale con sottotitoli in inglese.

Un semi cult della comicità americana, ambientato in un golf club dove la vita dei caddie dei ricconi locali, delle nipoti ninfomani, dei giardinieri e di alcuni puristi del golf si intrecciano e si scontrano.

Il film è una serie di episodi separati fatti da personaggi spesso macchiettistici che si muovono in gag anonime e quasi mai divertenti. Forse negli anni ’80 qualcuna di quelle doveva essere ancora non abusata, ma davvero l’idea della talpa (affidata ad un Bill Murray sottotono) ha avuto successo? Mi pare difficile. Particolarmente irritante la presenza di Dangerfield, nella parte di un chiassoso cafone locale, che rimesta nel solito rapporto di “cattivo vicinato” con un golfista austero e perfettino.

Un film sostanzialmente inutile che risulta interessante per i completasti di Murray (o di Chevy Chase se ne esistono) e per la nota di costume anni ’80, quando in un film comico standard si potevano infilare due tette e nessuno gridava alo scandalo.
Ho visto la versione originale e alcune battute (non molte in realtà) giocano su doppi sensi o incomprensioni, non so come siano state rese in italiano, ma se il titolo italiano è una traccia direi che il risultato sarà peggiore dell'originale.

PS: per pudore no ho nominato Ramis alla regia che si può perdonare solo perché era alla sua opera prima... non commenterò neppure che fu uno degli autori...

mercoledì 29 maggio 2013

Gone baby gone - Ben Affleck (2007)

(Id.)

Visto in Dvx in lingua originale sottotitolato in inglese.

Una bambina di un quartiere periferico viene rapita, la famiglia dopo un putiferio mediatico decide di affidarsi ad un giovane (anzi giovanile) investigatore privato che ha fama di buone capacità essendo nato e cresciuto in quello stesso, difficile, quartiere. Le indagini porteranno a scoprire diversi risvolti della vita della madre della bambina che la indicheranno più come colpevole involontaria che non vittima. Verso la metà del film il caso viene risolto, ma non finisce come si vorrebbe… a quel punto la storia riparte da zero, il caso ha portato crisi e ha lasciato ferite, ma presto l’investigatore si accorge che non tutto torna.

Thriller tutt’altro che banale che regala almeno due film distinti racchiusi in uno. Alla sua prima regia Ben Affleck (che ha il buon gusto e la buona idea di non esserne il protagonista) regala un film stereotipato (l’investigatore che viene dal basso che risolve il caso, il capo di polizia buono, i popolani rozzi e stupidi, ecc…) che all'improvviso si stravolge per diventare altro; ma in entrambi i momenti, senza virtuosismi inutili, il film punta sulla solidità della regia, sullo squallore dei luoghi e delle persone, ma soprattutto punta tutto sui corpi degli attori. Se i protagonisti sono i soliti fighi americani, tutti i comprimari sono attentamente scelti per assomigliare ai veri volti e ai veri corpi che possono vivere in un quartiere degradato, un lavoro di casting fatto sui difetti, sui baffi e sulle movenze goffe che sarebbe degno di Friedkin.

Tutto sommato quindi Affleck confezione un thriller originale, un tantino esagerato nel finale vero, ma solido dall'inizio alla fine, con una serie di scelte estetiche azzeccate. Non vuole strafare, vuole solo fare un buon lavoro e ci riesce.

PS: buono il cast nel complesso, ma immenso Ed Harris.

lunedì 27 maggio 2013

Il grande Gatsby - Baz Luhrmann (2013)

(The great Gatsby)

Visto al cinema

Ci sono molti modi per mettere in scena una storia poco complessa, ma molto emotiva (e molto americana) come “Il grande Gatsby”; certamente la versione più esagerata, kitsch, chiassosa e tracotante è proprio quella di Baz Luhrmann. Solo lui, con un’idea di regia così pesante e muscolare poteva realizzare un film così arrogante senza sfociare nel ridicolo. E se per tutto il film è tutto un florilegio di colori chiassosi, location estremizzata, macchine da presa a volo d’uccello (e un uso frenetico ed interessante del montaggio nell'incipit), tutto riesce ad essere credibile, a dare l’idea della grandezza senza schiacciare la storia tutto sommato intima. In una parola Luhrmann si è sdoganato dal passo falso di “Australia” ed è ritornato sul sentiero di “Moulin rouge”.

Unico neo della regia, a mio avviso, è l’uso eccessivo di un CGI che non si riesce a controllare o a fondere perfettamente con le riprese reali (più qualche green screen mal realizzato), ma tutto sommato l’uso del computer è sempre presente in scene estetizzanti che altrimenti non sarebbero possibili e, a dopotutto, lo si perdona. Al solito le musiche sono moderne, ma stavolta, salvo per le feste, sono rimaneggiate in maniera ancora più affascinante e pesante che non in “Moulin Rouge”.

Il vero problema si annida li dove si trova anche il valore aggiunto: il cast. 
Un Dicaprio monumentale, mai così bravo e convincente, mai così in parte, perfetto per il ruolo per fisico, espressione ed autorevolezza dell’attore prima ancora che del personaggio (per fare Gatsby ci voleva un attore che fosse universalmente ricordato nel contempo per romanticismo ed impegno sociale, tutto possibilmente condito con tanti soldi); quello che più mi ha colpito sono state i continui atteggiamenti del viso che presi palesemente da Marlon Brando che hanno reso Dicaprio quasi identico al defunto attore. 
Come dicevo però il problema è sempre qui, nel cast; ora io mi chiedo, se devi fare un film che non sia comico mi è difficile pensare di scritturare Tobey “espressione buffa” Maguire, ma se devo fare un colossal dove l’attore deve essere credibile quando lo inquadro dopo essere sceso in picchiata con un aereo sulla New York degli anni ’20 beh, vorrei davvero scritturare un attore e non Tobey “l’inopportuno” Maguire. Lui da solo riesce a far cadere la sospensione dell’incredulità ad ogni suo primo piano.

venerdì 24 maggio 2013

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto - Elio Petri (1970)

(Id.)

Visto al cinema.

Per chi non ha mai visto il film consiglio caldamente di guardarlo prima di leggerne la trama. Per una descrizione pedissequa della storia rimando a wikipedia; qui sotto, al secondo capoverso, c'è un piccolo spoiler...

Un film che a fatica si accetta essere italiano ed essere degli anni ’70. Se non fosse calato nel clima delle proteste studentesche e delle lotte politiche extraparlamentari lo si potrebbe considerare completamente americano (in senso positivo). Una trama cinica e disincantata, ma anche molto sottile a livello psicologico (il continuo tentativo di farsi scoprire e poi il correre ai ripari nascondendo le prove) e dal thrill perfetto.

Un incipit di incredibile arroganza cinematografica con un uomo che avverte una donna che la ucciderà tagliandole la gola, inizia un amplesso consenziente e poi… l’uomo le taglia la gola davvero, quindi si scopre chi è l’uomo; e il suo gesto non sarà compreso se non alla fine. Fantastico.

Poi Petri si dilunga nei primi e primissimi piani, nel sottolineare dettagli, nel muovere la macchina da presa attaccata ai visi, agli oggetti o alle azioni dando un dinamismo al film che altrimenti risulterebbe estremamente statico.
Il tutto condito con una musica emblematica di Morricone che farà storia. Capolavoro

L'ho detto che c'è un grandissimo Volonté come protagonista o l'ho solo pensato? splendido, odioso e ben curato con un accento magnifico e un carattere psicotico. Bravissimo.

mercoledì 22 maggio 2013

A young doctor's notebook - Alex Hardcastle (2012)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Radcliffe è uno studente di medicina neolaureato che, nella Russia zarista, viene mandato a condurre, come unico medico, un ospedaletto di campagna distante chilometri da ogni forma di civiltà. Affiancato da uno strambo gruppo di personale sanitario variegato dovrà affrontare la propria impreparazione, l’ignoranza della gente del luogo e, soprattutto, la sifilide.

Miniserie televisiva inglese tratta da una serie di racconti di Bulgakov (molto belli) che insistono sul senso di impotenza di chi è chiamato ad affrontare da solo una serie di prove che ha imparato a conoscere solo attraverso la teoria, l’ansia da prestazione, l’insicurezza cronica, l’arroganza di chi sa che deve dimostrare molto sono tutte caratteristiche che la miniserie riesce perfettamente a rendere, ma per fortuna non si limita a questo.

I racconti di Bulgakov sono solo l’inizio, gli autori della serie ci ricamano sopra una serie di personaggi assolutamente autonomi azzeccando praticamente tutto. A fianco della struttura narrativa di base la miniserie la butta sul lato comico della situazione dando vita (nella prima puntata) ad una serie di momenti tra i più divertenti visti in tv ultimamente; costruisce una mitopoiesi di personaggi macchiettistici, ma assolutamente autonomi; si lancia nello splatter (gli interventi chirurgici vengono mostrati) riuscendo in tal mondo a rendere maggiormente i sentimenti del protagonista portato a considerarsi dapprima un medico, poi un macellaio ed infine un assassino; infine, ultima idea, mostra il protagonista sia da giovane, sia da adulto che rilegge i diari dell’epoca e, tornando indietro con la memoria, interagisce con se stesso da giovane, senza mai essere d’aiuto (di fatto è solo una fantasia, mica un viaggio nel tempo), ma mostrando dove è arrivato quel ragazzo con così grandi speranza. Quest’ultimo punto, il confronto fra il futuro ed il passato rappresenta il filo rosso della quattro puntate e devia, lentamente, di nuove nel dramma.

Come dicevo il lavoro di adattamento (e di modifiche) realizzato dagli autori è stato davvero magistrale e merita un encomia a se; la miniserie però funziona anche grazie ad un cast di caratteristi azzeccatissimo e a un Daniel Radcliffe senza vergogna che dimostra quanto sia bravo a recitare vincendo il mio personale razzismo nei confronti dell’attorucolo che ha interpretato Harry Potter e basta (ancora una volta il primo episodio mostra perfettamente le doti del protagonista). Infine la fotografia evidentemente low budget (rispetto ad un film) mostra degli esterni fatti con un computer che fa di tutto per non nascondere la sua origini, ma l’impressione di finzione degli esterni (unita ad una precisione fantastica nella realizzazione degli interni) da alla serie un sapore vintage che altrimenti non sarebbe riuscita ad ottenere.
Purtroppo il tono della serie cala dopo la prima puntata fino al finale che ha un po’ troppo l’aspetto di un qualcosa di raffazzonato alla meglio; questo si vittima della tendenza a rendere sempre più drammatico il mood, cosa che, obbiettivamente, non giova affatto. 

lunedì 20 maggio 2013

Io sono l'amore - Luca Guadagnino (2009)

(Id.)

Visto in Dvx.

Una bella famigliola dell’altissima borghesia milanese, praticamente dei nobili dei giorni nostri, fatti di figlie che si scoprono lesbiche, figli che aiutano gli amici ad aprire ristoranti,e madri irreprensibili che si scoprono attratte dagli amici dei figli.
Guadagnino dirige da dio. Questo va detto subito. Anzi, Guadagnino dirige da Scorsese. Una profusione di carrellate brevi, ma incisive e pervasive, un gusto per i dettagli degli arredi che sembra venire da “L’età dell’innocenza”, un costruzione impeccabile delle location e un uso della musica come la si userebbe per dirigere un balletto (unica differenza sta nel genere). Si insomma Guadagnino si dimostra essere uno Scorsese italiano, almeno al parti di Sorrentino… però di Scorsese ha tutta la tecnica, ma gli manca completamente il cuore.
Guadagnino dirige con un distacco che il regista newyorkese non ha, e di per se forse non sarebbe un problema, anzi, sarebbe una cifra stilistica. Purtroppo però il film è sorretto da una trama che è già gelida di suo, con personaggi molto artefatti e banali, da una sequela di comprimari inutili (la sorella lesbica che funzione ha? La moglie incinta? La nonna rifatta?) e un’intera teoria di sequenza prive di ogni empatia nei confronti di qualunque accadimento. Ecco, se a tutto questo si aggiunge una regia distaccata l’effetto è quello di fregarsene delle sorti di tutti. Se poi la sceneggiatura si prende pure il lusso di una svolta finale da melodramma di terz'ordine, il film si declassa ad essere un’opera interessante, ma da sconsigliare… 

venerdì 17 maggio 2013

PTU - Johnnie To (2003)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

In una notte ad un poliziotto un gruppo di… beh teppisti più che malavitosi… beh questi tizi rubano la pistola; ovviamente il poliziotto si mette alla ricerca dell’arma prima che i superiori lo vengano a sapere, nella ricerca chiede aiuto anche ad un amico a capo di una pattuglio di PTU (Police Tactical Unit). Purtroppo entro poco tempo si viene a sapere che il capo di quella banda è stata ucciso, il che complica ulteriormente le cose e invischia le forze dell’ordine in un gioco molto più complesso fatto ufficiosamente ed in cui entrano come attori anche bande rivali e una sezione della polizia.
Io conosco gli ultimi lavori di Johnnie To, per chi è come me diciamolo subito, non c’è la regia acrobatica di "Breaking news" o la perfezione formale di "Vendicami"; c’è pure qualche cialtronata di troppo (all'inizio l’uomo che con una lama piantata nel petto che lo attraversa da una parte all'altra si mette a correre per la strada alla ricerca di un taxi!?). però questo è proprio un film gustoso; un film che da proprio piacere mentre lo si guarda e lo si riguarderebbe subito dopo.
Intanto non ci sarà la profusione di mezzi dei film successivi, ma c’è tutta l’arte di To. Si prenda solo l’incipit: divertente la scena del ristorante che sembra solo un siparietto comico mentre invece risulta essere il cuore del film dando la cifra a tutto quello che verrà dopo con un misto di noir e ironia; la scena subito fuori dal ristorante mostra l’altra costante del film, i vari personaggi (le varie storie) ognuna interdipendente dall'altra senza neppure rendersene conto, con sequenze che si incrociano e si influenzano a vicenda in maniera evidente solo ad uno spettatore esterno. Inoltre la lunga notte dell’ispettore è condita anche da un fantastico gioco di ruolo fra forze dell’ordine, suddivise fra compiti e considerazioni diverse le une dalle altre che convergeranno tutte verso un unico finale.
Un film veramente ben orchestrato con una serie di colpi di scena affascinanti. Gli si perdonano le ingenuità senza problemi e, come ho detto, dopo averlo visto vien voglia di guardarlo subito un’altra volta.

mercoledì 15 maggio 2013

Bubba Ho-tep, Il re è qui - Don Coscarelli (2002)

(Bubba Ho-tep)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Elvis non è morto, si sa. Quello che non si sa è che si trova rinchiuso in una casa di riposo in texas dopo uno scambio d’identità che gli è costata la fama. Li dentro, lontano da droghe, donne e famiglia si ritrova a dover fare i conti con se stesso e con ciò che ha fatto della sua vita, mentre si intrattiene con alcuni (pochi) amici non dementi. Tutto sembra ormai destinato ad un lento declino, fino a quando una serie di strane morti si diffondono nell'ospizio; che centri forse la mummia di un faraone?.... ovvio!

Filmo culto dl regista di culto Don Coscarelli, basato su un racconto dello scrittore di culto Joe Lansdale e con protagonista Bruce Campbell (che non dico essere un attore di culto, perché, almeno lui, dovrebbe essere comunemente adorato da tutti).

Un film cazzaro che non vuole raccontare niente di più di una mummia che succhia l’anima dal culo sconfitta da Elvis e Kennedy; tuttavia il film riesce ad essere molto di più.
Tutta la prima parte del film, senza mai eccedere in divagazioni o momenti di noia, riesce ad intessere un racconto sulla resa dei conti con la propria vita, su quanto anche ai grandi prima o poi tocchi fare i conti con quanto fatto e che non importa quanti dischi hai venduto e per quante persone sei stato importante, c’è sempre qualcosa che manca. Tutto questo riesce a farlo con un’ironia impagabile, senza dover mai immergere il film nel genere comico vero e proprio. 

Certo Coscarelli e Lansdale si dividono il merito di una rappresentazione del genere, ma la credibilità ed il successo del film deve parecchio anche all'incredibile interpretazione di Campbell che personalmente considero coma la migliore della sua carriera.
La seconda parte, con la comparsa della mummia, non solo non elimina la prima,ma la arricchisce di ironia, “azione” da geriatria e un gusto dadaista fantastico. Il finale è una delle vittorie meno scontate che fosse possibile dare al protagonista.

lunedì 13 maggio 2013

I nuovi mostri - Dino Risi, Mario Monicelli, Ettore Scola (1977)

(Id.)

Visto in tv.

Film collettivo seguito del celeberrimo (che non ho visto….) film del solo Risi del 1963. È un film ad episodi completamente disgiunti gli uni dagli altri che dovrebbero mettere alla gogna i vizi di una nazione ipocrita ad ogni livello. Gli episodi sono in totale 14, ma la versione televisiva è ridotta a soli 9 episodi… purtroppo ho visto quest’ultima versione.

Complessivamente il film è assolutamente da guardare, non è esattamente un film comico, è un grottesco degno del cinema spagnolo (ma d’altra parte, il grottesco è nel sangue di un certo cinema italiano) che fa risaltare su tutti l’ipocrisia della società, ma soprattutto al bravura degli attori. L’episodio del vescovo interpretato da Gassman, così come quello della madre portata all'ospizio con Sordi sono si della accuse sociali (banali e all'acqua di rose), ma soprattutto sono due prove d’attori, certamente caricaturali come vuole il tono del film, ma di assoluto livello; affascinante anche la macchietta del nobile romano in giro per ospedali interpretata sempre da Sordi. Essendo un film ad episodi il livello è altalenante, ma il tono è sempre mantenuto. L’unico cambiamento degno di nota è nei due episodi interpretati dalla Muti; le storie trattate lasciano le rotaie del grottesco per andare a parare in un cinismo veramente nichilista, senza speranza e con pochissima ironia, curiosamente questo cambio di tono non ammazza il film, anzi ne rende il mood più torbido.

Gli episodi censurati nella versione televisiva appaiono (ne ho solo letto le trame) particolarmente cinici o brutali che difficilmente potevano essere accettati dalla tv di stato di 30 anni fa...

sabato 11 maggio 2013

Il mondo perduto - Harry Hoyt (1925)

(The lost world)

Visto, ovviamente, qui.

O’Brien venne assoldato per realizzare una serie di film d’animazione sul tema più universale di sempre, i dinosauri.
Dato che i dinosauri non possono non piacere O’Brien si trovò nel ’25 a dirigere gli effetti speciali (ma non il film, che è invece targato Hoyt) questa prima versione de “Il mondo perduto” di Michael Crichton Arthur Conan Doyle.
Quello che ne vien fuori è circa mezzora di preparazione abbastanza rapida, ma senza particolare interesse; poi un’altra mezzora fatta di dinosauri, dinosauri che lottano, dinosauri che precipitano da una rupe, dinosauri che rimangono imprigionati in una pozza di fango, altri dinosauri singoli e per finire un dinosauro in giro per Londra.
La qualità dell'animazione è buona, non eccelsa per i parametri odierni, ma complessivamente si fa notare, inoltre la gran quantità di dinosauri visti in questo film di dinosauri potrebbe piacere anche ad un bambino d’oggi.
Il film fu un grande successo (ovvie mante, dato il numero di dinosauri) e fu il trampolino di lancio per il film “Creation”; progetto abortito di O’Brien che credo vertesse su alcune lucertole giganti che lottano, ma non sono sicuro; e che a sua volta fu uno degli eventi che portò alla lavorazione di quel capolavoro d’ogni tempo di “King Kong”.

venerdì 10 maggio 2013

The dinosaur and the missing link: A prehistoric tragedy - Willis O'Brien (1915)

(Id.)

Visto qui.

O’Brien era un tizio statunitense che dopo un inizio carriera come scultore venne ingaggiato dalla compagnia di Edison per una serie di film di animazione sul tema prediletto dall'uomo; i dinosauri.
O’Brien che doveva essere pazzo, ma non scemo, tentò una via autonoma all'animazione, un sistema da lui chiamato “dimensional animation”, che oggi, a quasi un secolo di distanza, ci ostiniamo a chiamare stop motion. Chiariamolo subito, non ne fu l’inventore, il sistema era già stato utilizzato in parte o del tutto fin dagli albori del cinema, anche dal vate Méliès, ma O’Brien fu il primo ad applicarlo in maniera massiva e precisa.

O’Brien fu uno dei pionieri dell’animazione ed il padre nobile del passo uno. Il suo primo lavoro, che lo vide impegnato nella costruzione di figure in argilla (di scimmie, dinosauri ed esseri umani!) e nella regia, è questo cortometraggio datato 1915.

Guardandolo non può non sorprendere. La storia è la classica linea logica dei film degli anni ’10, una serie di sequenze praticamente senza soluzione di continuità che, dato il pubblico a cui si proponeva, creano una serie di gag slapstick base e si impegna pure nelle battute scritte sui cartelli (se volete entrare, vi offrirei del te, se solo il te fosse già stato scoperto)!
Quel che sorprende è l’incredibile fluidità del movimento dei personaggi (considerando che deve essere sui 16-18 fotogrammi al secondo), si veda soprattutto la coda del dinosauro; nonché alcune concezioni notevolissime come il montaggio parallelo fra l’interno e l’esterno della grotta e l’uso delle stelle o del fulmine per indicare il doloro (di cui onestamente ignoro l’origine, ma che vedo qui applicato al cinema in una delle sue prime apparizioni).
Semplicemente 5 minuti di storia del cinema.
Il lavoro di O’Brien diede l’abbrivio alla fervida mente di Harryhausen per intraprendere la sua carriera nel mondo dell’animazione.

mercoledì 8 maggio 2013

Killer Joe - William Friedkin (2011)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Poi all'improvviso dall'America ti arriva un film di un noir torbido e acre come pochi, così folle e senza speranza da fare impressione, con squarci di perversione da poter competere con Miike.
Ti arriva questo film, un film dove un ragazzo con problemi di soldi da restituire (gli è sparita una partita di droga che doveva vendere) va dal padre decerebrato e gli chiede se è d’accordo di uccidere la sua ex moglie (del padre, che poi è la madre del ragazzo) perché pare che abbia un’assicurazione sulla vita la cui beneficiaria sia la sorella del giovane (la bella e matta sorella del giovane). Ovviamente il padre, che è molto un decerebrato, accetta. Si rivolgono ad un poliziotto Joe Cooper, che nel tempo libero uccide a pagamento e si accorda per dargli parte dell’assicurazione, intanto a mo’ di cauzione, si fa dare la sorella… e questo è solo l’inizio; quando si pensa di essersi ficcati nell'occhio del ciclone noir ci si accorge di essere arrivai solo alla periferia.

Una regia che è un utilizzo degli attori come poche altre; i personaggi sono folli e poco credibili, ma ben delineati, agli attori il compito di metterli in vita. Ma in questo compito sono affiancati da un uso dei loro corpi (nelle espressione che fanno, nell'uso dei corpi nello spazio, nel voyerismo nel mostrare nudità, ecc…) da una regia che si prende il lusso di infilare alcune brevi sequenze indipendenti dalle scene principali solo per delinearne il mood (si pensi ai fulmini nella sequenza in auto), e taglia tutto con una fotografia tetra e squallida al punto giusto. In un ambiente del genere il perfetto lavoro di casting permette, come ultimo tocco il miracolo.
Poi all'improvviso dall'America ti arriva un film noir anni ’50 classico, reso solo senza speranza come un dramma indipendente anni ’80-’90 e con inserti di post-modernismo e di follia invidiabili. Poi guardi a chi è il regista e ti accorgi che nonostante l’anagrafe lo condanni ad essere quasi un ottuagenario Friedkin si dimostra il più giovane fra i registi made in USA.

PS: si lo so c’è un Matthew "ctrlC" McConaughey impressionante, ma d’altra parte non mi soprende troppo. Lui era nato come il successore di Paul Newman, bello, giovane e bravo. Poi ha fatto la scelta che tutti noi avremmo fatto, girare un film all'anno a torso nudo su una spiaggia caraibica affiancato da una modella dopo l’altra, è chiaro che se ti viene data questa possibilità te ne freghi dell’Academy. Poi, adesso che inizia a vedere il 50 anni che si avvicinano, ha deciso di prepararsi la pensione, tira fuori quello che sa fare e si dilunga nella scena con l’uso più perverso di una coscia di pollo. E tutti noi ci alziamo in una standing ovation; ma in fondo l’abbiamo sempre saputo.

lunedì 6 maggio 2013

L'uomo illustrato - Jack Smight (1969)

(The illustrated man)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Rimando a qui, per un'idea della trama.
Tratto da un’idea di Bradbury questo film dimostra come con una regia meno che buona non si possa andare lontano. Se i singoli episodi (in effetti di questo si tratta, di un film ad episodi) presi singolarmente possono risultare interessanti, qui però, legati insieme alla meglio e condotti malamente da un ritmo assolutamente sbagliato, divengono motivo di noia ulteriore. Peccato perché ognuno di quegli spezzoni sarebbe stato un degnissimo episodio di “Ai confini della realtà” (di cui ha tutte le caratteristiche).

Il film si muove noioso e confuso con il non entusiasmante intento di incutere una tensione che non sale mai, nonostante le migliore intenzioni ed i migliori presupposti. La recitazione sforzata di Drivas è controproducente, mentre Steiger mi risulta meno raffinato del solito, con gli occhi recita da dio (sarebbero sufficienti quelli), ma poi sbraita e si dibatte come in una screwball comedy.

Inoltre anche l’idea della trama che fa da sfondo è un poco sorpassata; forse per l’epoca un uomo totalmente tatuato poteva impressionare…

Ecco direi che questo è un film per completasti della carriera di Bradbury, o di Steiger (ammesso che si riesca a sopportare l’idea di vederne il culo in molte scene).

venerdì 3 maggio 2013

Amsterdamned - Dick Maas (1988)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Direi che Maas si conferma l’unico regista olandese di cui m’importi qualcosa ( ah già, Verhoeven… vabbè lo considero statunitense… ah già, Six… lo considero cittadino del mondo!?). Allora ricominciamo.

Direi che Maas si conferma uno dei tre registi olandesi di cui m’importi qualcosa.
Dopo l’ottimo “De lift” ed il successo (almeno in patria) del secondo lungometraggio “Flodder” è evidente che in Maas ci credevano e gli han dato in mano i soldi, quelli veri.
E Maas ti tira fuori un degno seguito (ideale) di “De lift”. Stessa idea folle di base (qui un 15% meno folle), la solita soluzione finale che mostra quanto siano i capitalisti il problema (qui 25% meno demagogico), gli stessi attori e la stessa struttura narrativa. Quello che arriva con i soldi sono location fighe, inseguimenti con macchine e con motoscafi (quest’ultimo tra i canali di Amsterdam è decisamente buono), riprese subacquee ed esplosioni… direi che si è già detto tutto.

Poi se si vuole riesce molto meglio a creare dei personaggi che non sembrino statue di sale e una storia un 5% più complessa del primo film. Ma l’altro vero cambiamento è che pur mantenendo una regia sinuosa dà ritmo alla storia. Il vero problema di “De lift” era un racconto piuttosto acerbo che frenava in molti punti, qui no, l’idea sarà scema, ma il ritmo è sempre ben tenuto. Poi non si può negare che l’estetica è leggermente meno considerata (nessuna scena come quella della bambina con gli ascensori) e devo ammettere poca tensione, ma forse questo è anche dovuto all’epoca della pellicola e all’inevitabile invecchiamento dei film.

mercoledì 1 maggio 2013

XX secolo - Howard Hawks (1934)

(Twentieth century)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un arrogante e vanesio produttore di Broadway scopre e lancia una giovane attrice che presto diverrà sua compagna, il rapporto fra i due diverrà rapidamente burrascoso quando anche lei assumerà la tracotanza di lui. Si lasceranno e questo determinerà il declino del produttore. A distanza di tempo si incontreranno per caso su un treno dove ricominceranno a scontrarsi.

Screwball comedy di Hawks, solitamente maestro del genere. Se il film è complessivamente una commedia simpatica si può dire che i pregi finiscono li. Non ci sono guizzi geniali del regista, non c’è la rapidità o il divertimento immutato di altre sue commedie (“La signora del venerdì” ad esempio), l’ambiente teatrale sembra essere stato preso non solo come location, ma anche per una sceneggiatura più verbosa del solito e per una recitazione particolarmente calcata (anche per una screwball comedy). Direi che il film si lascia vedere con facilità e ci si gode soltanto al simpatia di primari e comprimari (personalmente sono rimasto colpito dalla parte di John Barrymore che io consideravo un compito gentiluomo, ma qui si mette pure ad imitare i cammelli di Babilonia).