mercoledì 30 marzo 2016

Ave, Cesare! - Joel Coen, Ethan Coen (2016)

(Hail, Caesar!)

Visto al cinema.

Una giornata (28 ore) nella vita del Mr. Wolf di una casa di produzione; un uomo utile solo a risolvere problemi. Dovrà affrontare gravidanze indesiderate, incapacità attoriali, gestione degli scoop e un rapimento; oltre che scegliere se lasciare il lavoro, stare con la famiglia, confessarsi.

I Coen tornano a fare i Coen e lo fanno mettendoci dentro tutto quello che ci si può immaginare. Il protagonista è un personaggio noir 100% in grado di fare anche da spalla comica; quello che si muove attorno a lui è, al contempo, una carrellata di quello che produceva il cinema hollywoodiano negli anni '50 e una dichiarazione d'amore per la settima arte realizzata mostrando il caravanserraglio di professionalità che lavorano a un film.
A questo poi va sottolineata la presenza della solita galleria di personaggi bizzarri (con un numero di camei in vertiginoso aumento, stavolta sembra di essere in un film di Wes Anderson), una fotografia curatissima (dai toni pastelli, luci soffuse, effetti notte e tutto l'armamentario estetico degli anni '50) e una regia impeccabile in tutto. Infine qui si nota un uso del sonoro migliore del solito, la musica eccessiva ed enfatica (utilizzata ad hoc per l'effetto insieme emotivo e comico, oltre che come ennesimo omaggio al titanismo dei fifties) viene affiancata dai suoni diegetici per aumentare il climax, in altre scene (quella di Clooney che si sveglia dopo il rapimento) vengono usati per frustrare le aspettative.
La storia dunque, seppur con un impianto noiresco si muove in una serie di episodi da commedia in cui viene inserito il solito discorso sul caso tipico della coppia di registi sceneggiatori.

Niente di nuovo; grandi professionalità e una qualità media altissima. Ma non aggiungono niente e dove nei loro lavori precedenti creavano una galleria di personaggio a tutto tondo con tic e atteggiamenti macchiettistici, qui costruiscono una serie di macchiette che strepitano per essere personaggi. Se nei loro lavori precedenti riuscivano con stile a unire due o tre generi diversi, qui vorrebbero metterli tutti, far ridere, far riflettere, emozionare e continuare a parlare del caso. Inutile dire che stavolta hanno voluto strafare e non hanno ottenuto nulla. Nulla se si esclude un film dalla qualità impeccabile... ma vuoto.

PS: nonostante il lodevole lavoro dei doppiatori italiani, credo che questo film meriterebbe la lingua originale.

lunedì 28 marzo 2016

Palcoscenico - Gregory La Cava (1937)

(Stage door)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese

Pensionato femminile dove abitano aspiranti attrici; al gruppo già consolidato si somma una nuova ragazza; buone maniere, famiglia ricca, personalità accattivante, il gruppo si spezza fra chi la ama e chi la odia. La ricerca di nuove attrici per un dramma teatrale di nuova produzione provocherà ulteriori tafferugli nel gruppi, fino all'estremo gesto di una ragazza; le amiche rimaste le renderanno omaggio.

Una commedia sul mondo del teatro molto ben scritta, nella scena iniziale i vari personaggi intrecciano dialoghi, sentimenti, antipatie, psicologie. L'arrivo della Hepburn riesce a mantenere gli stessi standard pur catalizzando l'interesse. Nella seconda parte la commedia si vena di dramma trasformandosi in un melodramma sentimentale in maniera indicibile (splendida la scena prima del suicidio).

Di fatto un film non enorme, che si può dimenticare con una certa velocità; rimane comunque un ottimo esempio di scrittura (i dialoghi serratissimi dell'inizio sono esemplari) e un esempio ancora migliore di recitazione (c'è bisogno di dire quanto sa brava la Hepburn? circondata però da comprimarie che le rendono giustizia).

venerdì 25 marzo 2016

I Goonies - Richard Donner (1985)

(The Goonies)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

La storia credo che sia nota. Un gruppo di regazzini a cui stanno per demolire le case per farci un campo da golf per i ricconi trovano la mappa del tesoro di un pirata locale, immantinente si emttono a cercarlo, superando continui trabocchetti e venendo braccati da un gruppo di delinquenti locali.

Nel pieno dell'epoca d'oro della Amblin i film per regazzini con regazzini ormai erano un genere a sé che cercava solo nuove vie per svilupparsi; "I Goonies" si inserisce a pieno titolo in questa scia riuscendo a divenire (grazie ai passaggi televisivi) il rappresentante più noto del genere.
Se però lo si vuole considerare in maniera indipendente rispetto al mito che se ne è creato si nota che è non è scevro di difetti.
Il ritmo è piuttosto altalenante non riuscendo a mantenere attiva l'attenzione in maniera continua, molte sequenza risultano estremamente sciocche anche per un film dì'intrattenimento (le gag con Brolin in bicicletta sono antidiluviane) e i vari trabocchetti non sono degli enigmi complessi come nel migliore degli Indiana Jones, ma solo dei pretesti per rallentare la ricerca.

Però i pregi riescono tutt'ora a elevarlo. Di fatto i pregi sono quelli di ogni altro film della Amblin ben riuscito e si riassumo in uno solo: trattare i ragazzi come degli adulti e non come dei bambini ritardati. In quest'ottica si costruisce un film d'avventura vero e proprio, con pericoli reali e non all'acqua di rose; in quest'ottica il film d'avventura riesce a divenire un piccolo racconto di formazione senza diventare stucchevole; in quest'ottica si riescono a inserire riferimenti sentimentali e anche sensuali senza per questo virare in un irritante trama rosa o senza grevi riferimenti sessuale; in quest'ottica si riescono a ottenere sequenze ancora divertenti e politicamente scorrette come quelle dell'inizio con la statua rotta e con la traduzione in spagnolo.
A fronte di una regia non entusiasmante (fonte principale di questa mancanza di ritmo ammorbante) si riesce anche a godere di alcune sequenze intelligenti più che ben fatte come il lungo incipit dove, con un unico inseguimento d'auto, si presentano già tutti i personaggi principali.

Infine la caratteristica di questo film è di aver riportato al cinema il genere piratesco in uan versione amblianinamente riveduta e corretta, riuscendo ad appassionare all'idea migliaia di ragazzi distantissimi da quel "Capitan Blood" citato in tv.

mercoledì 23 marzo 2016

...e tutti risero - Peter Bogdanovich (1981)

(They alla laughed)

Visto in Dvx.

Un'agenzia di investigazione viene assoldata per seguire alcune donne e controllare le loro eventuali relazioni extraconiugali. Inutile dire che due su tre degli investigatori si innamoreranno della propria vittima.

Filmetto lieve e senza nerbo condotto come una commediola che si tinge di rosa autentico solo nella storia in cui compare la Hepburn. Di fatto l'idiozia e la semplicità della storia non sono il vero fattore negativo ("Ma papà ti manda sola?" era un film decisamente più cretino, ma altrettanto decisamente più riuscito). Il problema è che quest'opera non ha la classe o l'impegno estetico de "L'ultimo spettacolo", né l'ironia graffiante e il genio di "Paper moon", neppure il ritmo spigliato di "Rumori fuori scena" o la dissacrante anarchia (decisamente meglio diretta) del già citato "Ma papà ti manda sola?".
Questo è un film descrivibile per negazione, perché quello che rimane è solo un Gazzara sornione che fa il suo lavoro onestamente, è una Hepburn usata poco e con scarsa efficacia (anche se riesce ancora a riempire la scena con un sorriso).
Sarò io che sono prevenuto sul Bogdanovich degli anni '80, ma quello che manca è proprio una regia (e dire che lui ci ha abituati a una mano pesante ed elegante nello stesso tempo), un direttore d'orchestra che tiri le fila di una vicenda sfilacciata e la rimpolpi con una messa in scena esteticamente appagante (se non con qualche colpo di genio). Manca il regista, che sembra lavorare con il pilota automatico, già appagato dal cast messo assieme e speranzoso che sia sufficiente a realizzare un buon film.
Unica scena che mi ha colpito in positivo è le prove di vestito nel negozio di scarpe in cui la ragazza e uno dei protagonisti comunicano con gli occhi i vestiti da scartare. Buona, potenzialmente cult (sottolineo potenzialmente)... ma è comunque troppo poco.

lunedì 21 marzo 2016

Yabu no naka no kuroneko - Kaneto Shindo (1968)

(Id. AKA Kuroneko, AKA Black cat)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

La madre e la moglie di un soldato vivono da sole in campagna; vengono assalite da un gruppo di samurai che le violenta, le uccide e ne brucia la casa. Le due donne per vendetta diventano fantasmi con il preciso scopo (ma è più un giuramento con una qualche entità soprannaturale) di uccidere e bere il sangue di ogni samurai che riescano ad adescare. Sfortunatamente per loro il figlio/marito delle due torna dalla battaglia da eroe e viene inviato a combattere il terribile mostro che sta mietendo le fila dei samurai.

Dopo "Onibaba" Shindo ritorna in quelle atmosfere. Un Giappone medievale dove la violenza sembra essere imperante; figure di samurai smitizzate in pochi minuti, una coppia di donne sanguinarie; storia d'orrore e di dolore nel contempo. Beh per chi come me sperava in un bis di quel piccolo gioiello meglio essere chiari subito; non siamo neanche vicini.
Qui la trama è, forse, potenzialmente più interessante che nel precedente, ma a perdere è il ritmo che, dopo i primi 20/30 minuti si fa latitante, le scene ripetitive e nel finale si deraglia verso l'incomprensibile (e abbisogna di spiegoni continui).
...Però, come già nel precedente, a vincere è la messa in scena.
La pria sequenza è una secca rappresentazione realista di una terribile violenza realizzata senza parole e senza nessun intento shockante, con una regia misurata e fredda. Ma da li in poi comincia un film che tende verso l'espressionismo.
Inoltre c'è un piccolo wire-fu in nuce con i fantasmi che si sbizzariscono in volteggi.
Anche dal punto div ista estetico questo "Kuroneko" perde la sfida con "Onibaba", ma rimane il principale punto di interesse.

venerdì 18 marzo 2016

Society, The horror - Brian Yuzna (1989)

(Society)

Visto in Dvx.

Un ragazzo va dal terapista perché ritiene di essere disprezzato dai suoi genitori che gli preferiscono la sorella (a cui è comunque molto legato). Quando un amico gli fa sentire una cassetta registrata di nascosto la depressione del ragazzo sembra deviare verso la psicosi, ma poi l'amico muore accidentalmente...

Film horror per teenager, realizzato in un epoca in cui questo poteva voler dire tette.
Si muove con il passo smozzicato di una commedia per adolescenti mediocre titillando, oltre alla pressione sessuale, anche l'idea di essere incomprese e la voglia di essere stati adottati, cercando quindi di limonare con il proprio pubblico. Di fatto non viene ricordato per questo.

Il motivo per cui ancora oggi val la pena di veder un filmentto così mediocre (anche se intrattiene con un passo sorprendente) è l'ultima, folle mezzora. Il filmetto si trasforma in una body horror comedy come non si poteva neppure immaginare, con un dispendio di idee grottesche da applausi (di fatto è il film che prende alla lettere concetti come la "faccia da culo") e uno sforzo di effetti speciali d'epoca che ancora oggi rendono quasi al 100% (vabbé dai, io sono appassionati di questi effetti, non rendono perfettamente, ma hanno comunque retto bene il passare del tempo).

Film cult che ha sempre avuto tutte le carte in regola per diventarlo.

PS: si certo c'è una pesante critica sociale nei confronti nella società wasp (borghesissima e completamente chiusa) di Beverly Hills, che suona come una generalizzazione per tutte le società borghesissime, chiuse e autoreferenziali del mondo... tuttavia se questo fosse il centro del film credo che oggi nessuno lo ricorderebbe... invece la faccia da culo...

mercoledì 16 marzo 2016

Three... extremes - Fruit Chan, Chan Wook Park, Takashi Miike (2004)

(Saam gaang yi)

Visto in Dvx.

Tre registi orientali (uno cinese, uno sudcoreano e uno giapponese) tutti e tre sono famosi per la loro tecnica eccessiva e si incontrano proprio sul tema dell'eccesso, per contenuti o manierismi.

Dumplings. Segmento di Fruit Chan. Per ringiovanire (e far concorrenza all'amante del marito), un ricca signora si rivolge a una donna che vive nei bassifondi, ma che sembra ben conosciuta. Lei realizza dei ravioli di carne che hanno la dote di far sembrare più giovani le persone; l'ingrediente segreto è la carne umana, anzi di feto.
Film dalla trama pretestuosa utile solo a cercare di creare spasimi durante le (frequenti) scene in cui la protagonista mangia i ravioli. Dal punto di vista tecnico ben costruito, con colori carichi e suoni aumentati per rendere maggiormente gli avvenimenti mostrati. Sicuramente bello da vedere, ma di fatto gira tutto attorno all'assunto iniziale, terminata l'ondata di novità dell'idea il film esaurisce il suo interesse.
Nella parte della protagonista la cantante Miriam Yeung che finora conoscevo per parti decisamente più delicate.

Cut. Segmento di Park Cahn Wook. Un regista viene imprigionata nel proprio set, mentre un maniaco (una sua comparsa di un film passato) lo minaccia; le richieste continuano a cambiare e le motivazioni non sembrano chiare, ma vorrebbe che uccidesse una bambina (per dimostrare di non essere un uomo perfetto) o taglierà un dito per volta alla moglie (famosa pianista).
Qui la trama sembra decisamente migliore e l'assunto di base è ottimo e offre spunti per tenere in piedi un film anche più lungo. Purtroppo ho trovato il film troppo complicato, troppo confuso nelle intenzioni e nella linea da seguire nello svolgimento, rendendo annacquato l'interesse e l'effetto della sfida fra le due personalità in gioco, oltre ad ammazzare completamente l'effetto potente del plot; bella l'idea, ma gira a vuoto.
Inoltre la scelta del registro grottesco, con molti momenti quasi comici (e un villain perfetto per una parodia vera e propria).
Peccato, perché Cahn Wook è il grande regista che si conosce,  anche qui infatti c'è molta arte e una macchina da presa sempre in movimento (soprattutto si passa spesso dai mezzi busti ai primissimi piani); anche se meno debordante e fantasioso rispetto ai film subito precedenti e successivi a questo (dell'anno prima è "Oldboy" e del successivo "Lady vendetta").

Box. Segmento di Takashi Miike. L'episodio del regista giapponese è crtamente il più lento e complesso, più serio... in una parola è il meno cazzone dei tre. Miike dimostra fin da subito chi comanda allestendo un film che è costituito da un impianto nella messa in scena impeccabile sotto ogni dettaglio. La sequenza del flashback delle due sorelle quando si esibivano da piccole è di per sé un capolavoro di arte totale sostanzialmente perfetto; la scenografia, i gesti degli attori, le inquadrature filtrate attraverso oggetti che pendono dal tendone, le luci, il trucco (anche quando se lo stanno togliendo), la musica spezzata o la totale assenza di suoni; qui tutto è estremamente ragionato e tutto concorre in maniera equipollente alla realizzazione del mood.
Di fatto il film si muove sulle rotaie dell'opera d'arte perturbante per tutto il tempo.... Della storia ci ho capito poco, ma il corto mi ha intrattenuto con arte fino a 5-10 minuti dalla fine. Decisamente il migliore.

lunedì 14 marzo 2016

Situazione pericolosa - Bruce Humberstone (1941)

(I wake up screaming AKA Hot spot)

Visto in Dvx in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un uomo viene accusato dell'omicidio di una ragazza, non ci sono prove e la sorella dell'assassinata lo difende, ma un ispettore sembra essere certo della sua colpevolezza. Rilasciato si metterà a indagare per conto proprio.

Film atipico dalle atmosfere perfettamente noir (le luci e le ombre dell'interrogatorio di Mature sono da manuale; e in una scena successiva ci sono pure le ombre delle persiane proiettate sul viso dell'ispettore), tutte le sequenze nella stazione di polizia sono costruite in maniera impeccabile e l'uso del flashback sembra venire direttamente da un film di Siodmak. Tuttavia se il comparto tecnico è preso dal genere in voga i quegli anni, il mood è molto diverso, al di fuori delle scene dell'interrogatorio il resto è un dramma con sfumature da commedia romantica piuttosto fastidiose.

Dal punto di vista della regia è un film da vedere; magnifica la sequenza noiresca dei due interrogatori in parallelo; per il resto vi sono molti movimenti di macchina che inseguono i volti, pan focus e inquadrature oblique (ma quasi mai fini a sé stesse, sono invece necessarie per inquadrare tre personaggi seduti allo stesso bancone o il primo piano del protagonista con il mezzo busto del poliziotto che lo sovrasta).

Ma il vero punto di forza è nel personaggio dell'ispettore, una sorta di Quinlan al contrario che da il destro per un twist plot finale interessante; purtroppo l'intero film è affossato dalla scelta di registro completamente sbagliato; è come se Humberstone abbia creato un film tecnicamente perfetto, ma che all'ultimo gli abbiano cambiato la sceneggiatura.

Divertente la scena in piscina completamente avulsa dal resto della vicenda e con un mood ancora più sbagliato; scena utile solo a mostrare i pettorali di lui e le gambe di lei.

venerdì 11 marzo 2016

Il fuorilegge - Tod Browning (1920)

(Outside the law)

Visto in DVD.

Un filosofo confuciano di Chinatown convince un boss della malavita a ritirarsi dalle attività illecite; un boss rivale lo accusa ingiustamente di un crimine per cui viene arrestato e per cui perderà la fiducia nella propria redenzione. Il boss deciderà di fare un nuovo colpo con l'alleato di sempre per poi nascondersi, ma il boss rivale è deciso a distruggelro e a rovinare anche la vita della figlia (totalmente estranea alla vicenda).

Secondo film della premia coppia Chaney/Browning e gigantesco successo al botteghino (tanto che meriterà un remake sonoro nel 1930). Chaney qui è sfruttato (poco) in ben due parti; nel secondario personaggio del maggiordomo cinese del filosofo confuciano (personaggio che inizialmente doveva essere molto più rilevante, ma fu tagliato rimanendo essenzialmente una comparsa) e nella splendida parte dell'antagonista.
A essere buoni questo è un gangster movie da salotto, tutto giocato in interni illuminati con la trama che tende fatalmente alla bontà. A voler essere ulteriormente onesti, l'ambientazione sarebbe decisamente originale per una storia di redenzione classica con picchi di enfasi zuccherosa (i buoni sentimenti che nascono dagli abbracci di un bambino biondo, il confucianesimo come dottrina scaldacuore come neanche in "Karate kid" ecc..), peccato quindi per il tema di fondo decisamente fuori dalle corde del regista.
Lo stile, in ogni caso, riesce a essere modernissimo (considerando l'epoca), si pensi solo al dinamismo della lunga e sanguinante colluttazione del finale (e d'altra parte Browning aveva già una ragguardevole esperienza).
Lon Chaney risulta, ovviamente, in parte... anche nella doppia veste che gli viene (inutilmente) rifilata...

In definitiva, non sarà nella galleria dei miei film preferiti, ma rimane un'opera buona se considerato di per se, un film mediocre se si considerano i nomi che ci sono dietro.

mercoledì 9 marzo 2016

Il figlio di Saul - László Nemes (2015)

(Saul fia)

Visto al cinema.

In un campo di concentramento un ebreo deputato a occuparsi delle docce crede di riconoscere suo figlio in un ragazzino sopravvissuto (e poi ucciso comunque) al gas. Girerà per il campo mettendo a repentaglio la vita di tutti e anche la propria (oltre che rischiando di mandare a monte il piano di rivolta degli internati) per cercare un rabbino per poter sotterrare il corpo.

La primissima scena mostra esattamente lo stile del film; un'inquadratura completamente fuori fuoco in cui lo sfondo è descritto solo con macchie di colore; dalla distanza si avvicina un uomo che si ferma in un primissimo piano perfettamente a fuoco.
Subito dopo a questa presa di posizione estetica c'è una delle sequenze più potenti del film; tutto girato in un ostinato primissimo piano il protagonista si occupa degli internati che si spogliano per entrare nelle docce, alle sue spalle corpi nudi in fila sono resi con pennellate di colore molto vivide ed evidenti per contenuto, ma non chiare (le usurate immagini dei film da olocausto ci sono tutte, ma sono rese meno dettagliate, ma non meno potenti). Una volta entrati nelle docce si sentono da dietro al porta le grida delle persone che stanno morendo e il protagonista, sempre impassibile, va a tenere chiusa la porta mentre i rumori che provengono da dietro diventano sempre più forti fino allo stacco su un'inquadratura nera e senza suoni. Titolo.

Il cinema sull'olocausto è il più standardizzato in assoluto e il più spaventoso da affrontare con delle innovazioni pretendendo che gli stessi simboli riescano a essere sempre potenti nonostante l'usura del tempo (un vestito a righe, un filo spinato, ecc..) mentre i personaggi sono più macchiettistici che nel noir o nel western classico, con gli internati vittime innocenti ed estremamente buone e nazisti totalmente disumani; nessuna via di mezzo, mai. Qui, con pochi tratti e un'idea estetica più espressionista che descrittiva riesce a rielaborare i soliti simboli in maniera meno evidente, ma molto più efficace; quell'incipit è una delle scene più emotive che abbia mai visto in un film sulla Shoah.

Questa tecnica di lasciar suggerire senza mostrare permette di portare sullo schermo ogni efferatezza senza fermarsi a essere uno splatter, ma riuscendo a dare perfettamente il senso di ciò che avviene; il riverbero del fuoco trasforma la scena in un girone dantesco, l'uscita dal crematorio fa sembrare la scena presa da un fantasy, il fumo dei corpi bruciati rende tutto simile a Silent Hill, il lavoro delle donne è una frenesia da alveare.
Nemes però lavora anche sui suoni con l'impegno che ci mettono solo i registi dei film horror. Nessuna musica (una canzone solo per pochi secondi), continui comandi urlati in lingue incomprensibili (tedesco of course), mentre i rumori vengono amplificati mettendo in primo piano urla, pianti, lo scalpiccio dei personaggi, l'abbaiare dei cani, ecc.

Oltre alla sequenza iniziale vorrei sottolineare anche la ricerca del rabbino fra gli internati che stanno andando verso la fossa comune; questa è l'altra scena perfetta per intenti e mood che rimarrà nella memoria.

Di fatto non solo un film sull'olocausto, ma un film sull'inferno come mai si era visto al cinema, dove tutti i personaggi sono dei folli che mentono e cercano di perseguire i propri scopi in un ambiente dove la morte è l'unica condizione  presente e costante.

lunedì 7 marzo 2016

Stop the pounding heart - Roberto Minervini (2013)

(Id.)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato.

Un documentario sulla vita di una famiglia ultrareligiosa cristiana (i genitori devono insegnare ai figli, le donne sono state create di sostegno agli uomini e basta) solo parzialmente confrontata con un gruppo di cowboy locali (di periferia) che vivono di sfide a cavalcare tori e gare di pistole.
Terzo capitolo di un'ideale trilogia sul Texas (dove si è trasferito l'italiano Minervini) se non avessi saputo fin da subito che è un documentario l'avrei scambiato per un film Dogma o un simil-Dardenne.

Di fatto molti film di fiction stanno cercando di diventare sempre più alla verosimiglianza della presa diretta, oltre al Dogma infatti il temibile found footage è appena passato di moda (lo dico a bassa voce che magari qualcuno non mi senta e non ci faccia un altro film) e un pò tutto il sistema autoriale europeo ha cercato l'iperrealtà nel decennio appena concluso (forse negli USA è un fenomeno meno diffuso, ma credo che comunque il Sundance abbia avvicinato il pubblico e l'abbia reso più mainstream); mentre all'opposto i documentari cercano di presentare delle storie più che fatti o personaggi (per non parlare dei mockumentary!).
Ecco, in un momento del genere, i film di Minervini si propongono come la migliore versione del documentario che sembra un film. Persone reali, con le loro vere motivazioni e aspettative, si muovono e fanno alcune cose (non tutte ovvio) su richiesta del regista; non c'è ancora una storia vera e propria, ma lo spaccato di vita riesce ad avere un ritmo (ok, il ritmo è la vera piaga del film) e una coerenza che lo mette (come minimo) al livello dei film autoriali europei. In poche parole, qui il mix è perfetto.

Ma questo è un documentario, dunque al di là della messa in scena c'è anche un contenuto che ha un peso importante. Senza disquisire sui fatti specifici quello che salta all'occhio è la visione senza preconcetti del regista (il vero valore aggiunto). Viene mostrato un mondo fatto di ferventi religiosi che sfociano spesso nel fanatismo, di fatto personaggi negativi al nostro mondo, eppure lo fa con una grazia e un affetto che li rende personaggi a tutto tondo non permettendoci di fermarci alla superficie. se la giovane protagonista ha tutta la nostra simpatia e comprensione, visto l’ambiente dove vive e che (si vede) fa fatica ad accettare, il vero personaggio rivelatore è la madre. Bigotta, sottomessa e perpetratrice di queste idee retrograde, eppure è la persona più dolce e positiva del film, che si rapporta con le figlie in  maniera totalmente limpida e trasparente, colpevole soltanto di credere davvero in ciò che dice.

venerdì 4 marzo 2016

Il ministro, l'esercizio dello stato - Pierre Schoeller (2011)

(L'exercice de l'État)

Visto in Dvx.

Alcuni giorni nella vita del ministro dei trasporti francese mentre deve occuparsi di gestire l'opinione pubblica circa un incidente dove hanno perso la vita alcuni adolescenti, i sindacati e le proteste per la privatizzazione delle stazioni dei treni (che lui non vorrebbe fare, ma il resto del governo si, oltre ai rimaneggiamenti del governo e di partito.

Ho letto da molte parti delle similitudini con Sorrentino e "Il divo"... onestamente no, non c'è molta attinenza; fatto salvo per un incipit onirico e piuttosto dinamico dal punto di vista della regia (che effettivamente ha qualche assonanza con il film su Andreotti), il resto (e cioè tutto quello che c'è dopo i primi 5-10 minuti) è tutto su un altro registro e con un altro scopo.
Ecco, quello che più mi sfugge è lo scopo. Nei primi minuti sembra poterne avere innumerevoli; un film sorrentiniano. appunto, con una figura solitaria che si dimena in un mondo che esteticamente rappresenta ciò che lui ha dentro; potrebbe essere l'evoluzione di un uomo schiacciato dal potere e dalla responsabilità; potrebbe essere un political drama all'americana in salsa europea. Invece non è nessuna di queste cose; sembra essere solo una descrizione (né troppo cattiva, né troppo indulgente) degli intrighi di palazzo ai tempi della democrazia.
Di fatto la storia a lungo andare può lasciare insoddisfatti quasi tutti.

Dal punto di vista estetico è ben costruito, ma quasi senza guizzi. In realtà i guizzi ci sono, ma possono essere riassunti in due scene topiche. il già citato incipit onirico e la notizia dell'incidente dell'autobus con i ragazzi; e l'altra scena è quella dell'incidente del ministro sull'autostrada vuota. Questo secondo incidente è realizzato benissimo un colpo improvviso senza spiegazioni, efficace, rapidi cambi di prospettiva dall'interno dell'auto che rotola con le inquadrature di ciò che avviene dell’altra parte dl telefono con una rotazione attorno al personaggio che sta parlando.

Ultimo encomio agli attori, davvero tutti molto bravi.

mercoledì 2 marzo 2016

Gardenia blu - Fritz Lang (1953)

(The blue gardenia)

Visto in Dvx, in lingua originale e sottotitoli in inglese.

Una donna, abbandonata dal fidanzato partito per la Corea (le crocerossine fanno strage di cuori) decide di uscire per una serata al buio; un uomo che cerca la coinquilina la invita fuori pensando sia l'altra donna. Si divertono, si ubriacano, vanno a casa di lui e ci prova, lei quindi lo uccide.
Il film mostra per lo più i tentativi della donna di cavarsela dalla situazione in cui si incastrata, le indagini della polizia e l'ingerenza di un giornalista che vuole risolvere il caso prima dell'ispettore e che poi si innamora della ragazza.

Di questo film ho letto di tutto; dal fatto che è un noir stanco e senza nerbo, al fatto che è uno dei noir più innovativi di quegli anni. Di fatto entrambi i punti di vista sono corretti.
L'inovazione sta nel personaggio principale femminile (una sorta di versione femminile di un remissivo Robinson), sedotto e violato (non c'è un'equivalente della femme fatale) determina la costruzione di un noir di stampo classico, ma con l'innovazione dell'inversione dei generi in maniera quasi totale.
Purtroppo però fatico a considerarlo un noir vero e proprio, ma una commedia sentimentale in veste noir. L'innamoramento dei due protagonisti (cosa impossibile in un noir ordinario) così come il tocco leggero dovuto ai momenti più schiettamente comici (soprattutto le scene fra coinquiline). Tutto questo affossa il mood drammatico che si cerca comunque di tenere in piedi. Se a questo si aggiunge un twist plot finale che sembra essere stato deciso solo per applicare un happy ending ingenuo e venato di rosa si può capire il disappunto di molti (un finale tanto insperabile quanto inadatto).

La regia di Lang si fa vedere in alcuni momenti. Il film comincia abbastanza lentamente (e con una certa noia), dispone i personaggi e i fatti principali dando il là alla scena dell’omicidio; qui si comincia a fare sul serio e Lang esce allo scoperto iniziando la classica storia di un uomo qualunque (qui una donna) che compie un omicidio (perché l’omicida si annida dentro ognuno di noi) e per sottolineare il momento il regista mette in scena le sue ottime luci espressioniste (anche se piuttosto contenute, ma comunque torneranno nelle scene in notturna sia negli esterni che negli uffici del Chronicle), gioca di montaggio con i dettagli (il fiore che cade a terra nella colluttazione, lo specchio che si rompe) per non dover mostrare l’omicidio, ma rendendolo comunque esplicito. Altre piccole idee costellano il film (come la donna che telefona dicendo di essere la gardenia blu e poi si scopre essere la poliziotta), ma sono spesso declinate sul versante della commedia rendendo il genere più confuso.

In definitiva un film con tutte le caratteristiche estetiche di un buon noir, purtroppo la storia è quella di un thriller sentimentale e dai toni leggeri.