lunedì 29 giugno 2015

Paura nella città dei morti viventi - Lucio Fulci (1980)

(Id.)

Visto in Dvx.

Un prete ha l'idea geniale di suicidarsi nel cimitero della cittadina di Dunwich, si esatto proprio la Dunwich costruita sulle macerie di Salem, proprio la Salem dove c'erano le porte dell'inferno. Una medium partirà alla ricerca di quella cittadina (non presente sulle carte geografiche) perché se le porte non verranno chiuse entro ognissanti non potranno più essere chiuse. ad affiancarla un gagliardo uomo di mezza età che vorrebbe chiaramente ottenere altro da lei.

Dopo una dignitosa carriera in film di genere varia, Lucio Fulci, nel '79 viene costretto a dirigere l'ideale seguito di "Zombi" di Romero; quello che viene fuori è "Zombi 2" (ma va?!), un film splatter molto personale. Piacque e si decise di dare a Fulci un sacco di soldi per fare un sacco di film e Fulci ringraziò realizzando quella che in Italia è conosciuta come la "Trilogia della morte" (mentre in USA è più correttamente chiamata "Gates of hell trilogy").
Questo ne rappresenta il primo capitolo.
Evidenti i debiti alla letteratura classica di genere (Lovecraft e Poe sono smaccatamente citati) per una storia che però non riesce ad avere un trama sensata, le cose accadono senza un nesso e le spiegazioni sono negate; poi il ritmo regge abbastanza bene, quindi volendo uno può ignorarlo, però nei momenti di stanca il WTF è dietro l'angolo.
Il lato veramente positivo è la capacità di Fulci di rendere il mood costantemente perturbante, cioè una via di mezzo fra inquietudine e assurdo; a questo si unisce il gusto splatter unito a effetti speciali artigianali forse non perfetti, ma spesso efficaci che regalano donne che si svuotano vomitando le loro interiora e ragazzi uccisi a trapanate nel cranio. Agli elogi si può aggiungere un certo gusto estetico (limitato però alla prima parte) che rende bellissime le sequenze della donna sotterrata viva e la ragazza che lacrima sangue (prego Tarantino, non c'è di che).
Tra i lati negativi però bisogna aggiungere l'inutilità degli zombi fulciani che non hanno appeal né innovazioni né bellezza e la presenza di uno dei villain più inutili di sempre.

Non un capolavoro del genere, ma un insieme di vecchio stile e nuove idee (all'epoca) che possono dare buoni frutti.

venerdì 26 giugno 2015

Hukkle - György Pálfi (2002)

(Id.)

Visto in Dvx.

Un anziano con il singhiozzo si siede fuori da casa sua. Da lì si dipana una giornata come tante nella campagna; una giornata solare e felice dove la natura si mostra in ogni pezzetto di terreno e dove ogni persona ha una parte importante. Ma ogni animale mostrato diviene il cibo di qualcun altro e gli esseri umani vengono visti solo mentre lavorano come non ci fosse nient'altro al di fuori di questo. Nel villaggio cominciano a morire delle persone... che sia colpa della vecchietta che maneggia le bottigliette?

Un film strutturato come un documentario sugli animali e sui lavori della campagna, si dipana calma senza alcun dialogo e senza alcuna musica, ma supportato dalla colonna sonora realizzata dai suoni presi dal vivo. Uno sguardo entomologico pazzesco nel prendere ogni dettaglio e renderlo affascinante, interessante, importante. In questo ambiente si inserisce la scia di omicidi e quindi un thriller legato ai dettagli che si sono visti fino a quel momento e che devono essere uniti fra loro per avere una possibile risposta su quanto sta accadendo. Ma soprattutto gli omicidi sottolineano una malignità mantenuta di bordone per tutto il film e solo allora ci si rende conto che ogni animale (o quasi) viene mangiato o ucciso da qualcuno e che gli umani sono macchine da lavoro senza altra funzione.
A livello estetico la fotografia è impagabile, ci sono molte inquadrature ravvicinate e voyeristiche e ci sono splendide connessioni fra scene disgiunte.
Visivamente bello, andamento autoriale, ma se si ha la pazienza di farsi trasportare da questo fiume di immagini si mostra anche molto interessante.

lunedì 22 giugno 2015

L'atto di uccidere - Christine Cynn, Joshua Oppenheimer (2012)


(The act of killing)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Tra il 65 e il 66 ci fu, in Indonesia, una pesante purga anti-comunista che portò a massacri efferati e gratuiti di civili. Il film è un documentario che segue una manciata di carnefici dell'epoca, ne mostra la vita e chiede loro di realizzare una rappresentazione dei loro crimini (sotto forma di film).
Un documentario certo, ma anche una rappresentazione finzionale di ciò che successe per opera dei diretti interessati, e nel finale, anche un twist inaspettato che trasforma il film in un mezzo per modificare la realtà; un pò "El sicario" un pò un certo cinema di Kiarostami (quello più meta-cinematografico, o meglio, meta-realistico).

In primo luogo questo film ha il vantaggio di parlare di un argomento sostanzialmente sconosciuto ai più (in Europa); inoltre ha il vantaggio di farlo con i diretti interessati con il punto di vista dei carnefici, che, essendo i vincitori, non sono considerati negativamente.
Mostra molto; impossibile non far vedere il lato umano di carnefici orribili (dei nazisti, dei gangster senza scrupoli dei film), non perché questo sia l'obiettivo, ma in quanto dovendoli seguire, la loro normalità salta spesso fuori.
Inoltre viene mostrato il modo in cui vengono a patti con loro stessi, come si possa considerare eventi enormi del passato in maniera distaccata; loro sono convinti di aver operato il male affinché il bene prevalesse; nessuno ha ripensamenti, ma almeno un paio affermano di avere problemi, il protagonista, a esempio, non riesce a dormire.
Viene mostrata la percezione che ha il grande pubblico nei loro confronti. Alcuni di loro sono ancora personaggi famosi nella loro zona, si vantano degli omicidi e del modo in cui furono condotti, vengono invitati a manifestazioni e a talk show.
Viene mostrato il modo in cui, messi di fronte a ciò che hanno fatto, devono ragionare su loro stessi; sul fatto che tutti dovevano sapere quello che facevano e dunque tutti erano conniventi; si chiedono come verrà percepita la loro immagine negli anni a venire, si rendono conto della crudeltà delle loro azioni.
Viene mostrata la tranquillità e la felicità nel mostrare come uccidevano o da dove prendevano ispirazione (uno guardava i film americani di gangster e poi riproduceva i loro omicidi), ma ancora più sconvolgente è quanto candidamente ammettano altri crimini, attuali o futuri (le attività illegali del gruppo paramilitare di cui fanno parte o il candidato al parlamento che pregusta il giorno in cui verrà eletto perché potrà cominciare a chiedere tangenti).
Tutto è mostrato in maniera talmente plateale e continuativa che tutto diventa banale, perde di efficacia, gira troppo intorno; se il senso che voleva dare era questo (cioè di una società che pur considerando distaccatamente il male fatto non riesce ad avere empatia per nessuno dei protagonisti delle vicende) allora ci è riuscito; anche se dubito fosse questo l'intento.

Ma il motivo principale per cui questo film è diventato famoso e, forse, meriterà sempre una visione è come l'osservatore modifichi l'osservato; è lo studio entomologico di come una macchina da presa non potrà mai mostrare la realtà, perché la gente cambia quando si trova davanti all'obbiettivo.
SPOILER ALERT; il fatto si trova tutto negli ultimi minuti di film, quando il protagonista, impersonando una delle sue vittime e mimandone la morte (e rivendendosi poi in video) si commuove rendendosi conto di quello che devono aver provato le sue vittime. STOP

PS: altro dettaglio impressionante è il numero di Anonimi nei credits (compreso un co-registi). Si rimanga a guardare i titoli di coda e si resterà impressionati per il numero di persone che hanno rifiutato di dichiararsi per paura di ritorsioni dato l'argomento ancora scottante nel paese.

venerdì 19 giugno 2015

Sadismo - Donald Cammell, Nicolas Roeg (1970)

(Performance)

Visto in Dvx.

Il tirapiedi di un gangster si trova nell'imbarazzante situazione di doversi nascondere sia dai suoi ex colleghi sia dalla polizia; in attesa di lasciare l'Inghilterra si nasconde nello scantinato di una casa dove si fa passare per un prestigiatore, peccato che in quella casa ci sia un threesome hippie e che a capo del gruppo ci sia Mick Jagger.

Opera prima dell'allora direttore della fotografia Roeg che si dimostra subito essere portato per la regia. Dato il periodo buono per le sperimentazioni eccessive e data la storia ci da dentro con primi piani, dettagli (anche inutili), inquadrature ricercate, uso di lenti deformanti e qualche viraggio di colore. Ma gioca in maniera efficace con il montaggio; un montaggio che si muove al ritmo dei dialoghi o che lavora di alternato (in maniera meno raffinata delle bellissime scene di "A Venezia...), ma in maniera altrettanto efficace) affiancando scene cronologicamente una di seguito all'altra o mostrando sequenze in parallelo o facendo vedere in contemporanea quello che succede dentro e fuori una stanza (unendo scene che non aumentano per forza il significato l'una dell'altra, ma ampliando sempre il mood); in alcuni momenti inoltre il montaggio parallelo o alternato spiega i dettagli inquadrati più dei dialoghi (si pensi alla scena della colluttazione dove il rosso sul muro è vernice). Tutta la prima parte è un florilegio di sequenze da applausi condotte in maniera sperimentale, ma con mano sicura, con una galleria di personaggi (forse banale, ma) ben realizzati; tutta questa parte, per argomento trattato e e per libertà espressiva mi ha ricordato alcuni film di Fukasaku.
La seconda parte, quella dell'incontro fra Fox e Jagger, quella dove esplode il tema del doppio e della trasformazione, quella dove si trova il cuore vero del film... beh quella è per me la aprte meno interessante. L'inventiva c'è comunque (si pensi alla fusione dei volti dei due protagonisti che sostituisce il più consono campo-contro campo), ma il ritmo rallenta bruscamente, la trama si fa più intellettuale e la regia deve adeguarsi, diminuendo d'interesse. C'è meno montaggio, più movimenti di macchina e sovrapposizioni.

Incredibile l'androginia di un Jagger che non avrei mai pensato di vedere così (il Jagger che conosco, quello post anni '90 è molto diverso).

PS: si non ho mai citato Cammell, l'altro regista; sinceramente non lo conosco, dopo questo film ha lavorato poco e senza altri picchi, inoltre molte delle idee messe in campo si trovano nelle opere successive di Roeg, quindi mi sento quasi autorizzato a marginalizzarlo.

lunedì 15 giugno 2015

Lo sguardo di Satana, Carrie - Kimberly Peirce (2013)

(Carrie)

Visto in Dvx.

Una ragazza, figlia di una maniaca religiosa e invisa alle amiche di classa, viene presa in simpatia (beh, c'è più compassione che altro) da una delle fighe della scuola che chiede al proprio ragazzo di invitare la loser alla festa di fine anno; ma le altre ragazze del gruppo stanno preparando una vendetta macabra; nessuno ha fatto i conti con i poteri psichici della protagonista.

Fare il remake di un cult è sempre complesso e delicato, specie se il cult è pure un film realizzato benissimo. Ciononostante non sono contrario a priori, l'uso del CGI può aggiungere qualcosa, uno script meno artigianale può dare spessore alla vicenda e scegliere attori migliori (a parte la Spacek che secondo me era perfetta) può rendere il tutto più digeribile.

In questo remake tutto è realizzato molto bene, le scene iniziali (il sanguinamento in doccia ad esempio) sono attualizzate, rese forse un poco più verosimili e si spinge molto di più sul lato da sfigata di classe della protagonista. Dall'altra parte c'è la Moore a fare la madre pazza... beh è scontato dire che è perfetta per il personaggio; e pure la Moretz è bravissima nella veste della protagonista.

Quello che manca è l'equilibrio; la madre pazza è troppo pazza; la ragazza stronza è troppo stronza, mentre quella buona è troppo buona. Il sangue, che era il vero filo conduttore del primo film, qui compare spesso, ma sembra più un mezzo per arredare gli interni in maniera splatter. Nel finale inoltre si preme l'acceleratore con mille buone idee, ma troppa paura nel portarle fino in fondo o mostrarle del tutto (le ragazze calpestate o quella bruciata viva); oppure, come nella scena dell'auto (dove si vede ogni cosa) manca completamente quel pathos, quella necessaria empatia per poter percepire qualcosa da quella vendetta totale e cieca.
La Moretz è, come già detto bravissima, ma le manca quello che aveva la Spacek, il physique du rôle; tu guardi la Moretz e non puoi pensare che quella non sia una cheerleader.

Un film bello, ben realizzato, molto, ma freddo.

giovedì 11 giugno 2015

Il vento e il leone - John Milius (1975)

(The wind and the lion)

Visto ad un cineforum.

Un capo berbero rapisce una donna coi suoi due figli; la donna è americana e il presidente Roosvelt in persona viene avvertito dell'accaduto; si mettono in moto le relazioni diplomatiche e il rapimento di una donna da parte di un ribelle diventa motivo di conflitto fra stati già in tensione fra loro.

Negli anni '70 avevano idee buffe; credevano di poter realizzare horror con qualunque soggetto e pensavano di poter affidare un film di avventure per ragazzi ad uno come Milius. Eppure se in certi casi (vedi l'horror) il fallimento era inevitabile; in altri il risultato è clamoroso.

Questo è un film per ragazzi, l'ambientazione esotica, il clima di avventura senza scene veramente d'azione i coprotagonisti bambini, il pudore ed il rispetto fra persone che non viene mai a cadere nonostante l'ambiente avrebbe potuto dar agio a scene d'ogni tipo; e gli ammazzamenti vari vengono messi ttuti fuori scena.

Eppure Milius c'è e si sente (anche alla sceneggiatura). Fa uccidere delle persone a dei bambini, butta qualche schizzo di sangue in camera, ma soprattutto crea due personaggi monumentali e miliusiani al 100%.
Raisuli (un Sean Connery gigionesco ed esotico che doveva essere la parte catchy per il pubblico adulto dell'epoca), un re berbero che combatte per l'onore, ama sporcarsi le amnie  quando ha un fucile in mano lo butta in favore di una spada prima di buttarsi nella mischia. Dall'altra un Roosvelt da antologia; identico al berbero, ma inquadrato in un mondo completamente diverso, di cui conosce (e per lo più rispetta) le regole, ma agisce e ragiona come un combattente. Di fatto il film è un duello a distanza fra i due (ci si muove sempre in una contrapposizione di scene dall'uno all'altro), cin Raisuli come parte dinamica e Roosvelt come compendio filosofico.
Stranamente la parte marocchina è la più debole nel senso del ritmo (si in effetti nelle lunghe parti nel deserto c'è qualche momento di stanca ed almeno una scena totalmente inutile), ma regala un finale che spiega tutto di nuovo con un gusto per la polvere e la guerra da fare invidia. La parte americana è invece perfetta, commovente, profondo, divertente, con un personaggio larger than life che snocciola massime, considerazioni morali, battute e smorfie bambinesche come fosse il vero protagonista del film (e che si può vantare di avere come spalla un grandissimo Huston).


lunedì 8 giugno 2015

Avventure di un uomo invisibile - John Carpenter (1992)

(Memoirs of an invisible man)

Visto in tv.

Vittima di un esperimento un uomo diventa invisibile (assieme ai vestiti che indossava al momento dell'esplosione). Sarà difficile l'adattamento con la realtà ed il contatto con le persone, ma le cose si complicheranno perché la CIA si metterà ad inseguirlo nella speranza di convincerlo a diventare un agente.

Periodicamente Carpenter si discosta dall'horror schietto e tenta altri generi; solitamente però non guarda molto alla commedia, ma si accontenta della fantascienza o dell'action. Per carità ad un regista solido come Carpenter si concede sempre il gusto di tentare strade nuove e si perdonano pure le cadute di stile o i flop. Quindi a Carpenter gli posso perdonare di aver fatto questo film.

Il film è una commedia sentimentale con una minima dose d'azione (grazie al cattivo Sam Neill... sempre bravo, ma non particolarmente ispirato) totalmente dimenticabile. Il ritmo regge sempre (almeno i fondamentali ci sono) e da guardare in tv in un pomeriggio annoiato può far passare un'oretta e mezza senza problemi.
Splendidi gli effetti speciali, quelli si encomiabili oltre ogni dire (splendida la scena i n cui l'agente della CIA insegue i pantaloni fantasma o quella in cui Daryl Hannah trucca il volto di Chase o quelle dove si mostrano gli organi interni del protagonista).
Pessimo il protagonista (Chase appunto), attore che non sopporto e che mi chiedo sempre come abbia potuto diventare così tanto famoso all'epoca; a me sembra sempre fuori posto.

Però ci tengo a sottolinearlo di nuovo; Carpenter che gira una commedia sentimentale... con un uomo invisibile, ma pur sempre commedia sentimentale rimane!


venerdì 5 giugno 2015

House of cards. Gli intrighi del potere - Beau Willimon (2013, 2014, 2015)

(House of cards)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Ormai è noto, da tre anni Underwood lavora nei retroscena della politica americana per perseguire i propri scopi, niente di prettamente materiale, quanto il potere per il potere (insomma, in questa serie si è costretti ad amare ciò che nella realtà tutti noi amiamo odiare). Attorno a lui si muovono un nugulo di politici tronfi e scarsamente idealisti, tra i pochi "buoni" sono più quelli che cedono alle lusinghe, alle minacce o alle proprie debolezze che quelli che rimangono integri. A fianco del protagonista la moglie; probabilmente il vero valore aggiunto, bella, elegante, gelida e sorridente, condivide con i consorte le ambizioni e i piani.

Una serie televisiva perfetta (almeno per le prime due serie) che ha il suo punto di forza nella scrittura impeccabile di un personaggio antico quanto Shakespeare, fatto di astio e hybris, che si muove in un mondo che vive di intrighi di palazzo, di scontro tra poteri e tra menti. Il debito shakespeariano non è detto tanto per dire, il protagonista che si rivolge direttamente al pubblico spiegando le situazioni o ciò che pensa piuttosto che le sue caratteristiche macbethiane sono evidenti (ma un MacBeth con le palle); valore aggiunto, come già si diceva, la compagna, una Lady MacBeth senza tentennamenti o sensi di colpa.
A questa scrittura memorabile si sommano le due scelte più azzeccati di sempre, gli attori protagonisti e il regista (almeno il primo). Credo sia noto a tutti che questa è la prima serie decisa dalla rete, che ha indicato il libro da cui trarla il cast principale e la regia; beh direi che la rete si è dimostrata il produttore più intelligenti di sempre. Un Kevin Spacey in grandissimo spolvero che sguazza sornione nei panni del magnifico stronzo (il personaggio sembra essere stato scritto per lui solo) e un Robin Wright (nelle ultime serie anche regista si alcune puntate) incredibilmente in parte, riesce a trasmettere un mondo di significati anche con l'impassibilità caratteristica del suo personaggio. Infine Fincher; da le linee guida su come condurre la storia; con una regia ortogonale, spigolosa, dove i protagonisti sono spesso manichini che si muovono in interni asettici, grigio o terrei e con luci piuttosto basse di notte e un uso parsimonioso dei suoni che però schiaccia l'acceleratore quando serve (giocando con i dialoghi fuori campo anticipatori di scene successive o che avvengono in contemporanea) una direzione che verrà costantemente tenuta (per fortuna).

Prima serie. Incipit perfetto dove Spacey da sfoggio delle proprie capacità e delle linee principali della serie; scena che mostra la sua determinazione mentre uccide un cane guardano direttamente in macchina da presa spiegando ciò che sta facendo, poi un'elenco dei principali personaggi con piglio sicuro e strafottente. In 5-10 minuti si sono già buttate la base da qui si può cominciare a raccontare la storia.
Le prime puntate (4 o 5) si portano dietro il difetto di dover dimostrare la capacità del protagonista e mostrano come, con mezzi non ortodossi, ottenga tutto ciò che desidera: la mancanza di una vera difficoltà è il limite all'interesse, ma il fomento è ancora molto. Poi la lunga chiusura di stagione con Spacey accerchiato da inchieste giornalistiche e sottoposti con remore morali mettono tutto in bilico, ultima stagione con il botto; succede quello che tutti si aspettano fin dall'inizio, ma nessuno ha mai osato pensare che sarebbe avvenuto davvero (ci si rende conto che si vuol bene a uno stronzo completo).

Seconda serie. Inizia dove si ferma l'altra e nella prima puntata di mettono le cose in chiaro; il solco tracciato è netto e in pochi minuti Spacey sistema tutti i problemi che erano sorti alla fine della serie precedente con gesti estremi e insperati. Questa è la serie migliore; le carte in tavole vengono radicalmente cambiate, Spacey usa chiunque per i suoi scopi e a lui viene contrapposto un personaggio di peso, Tusk, un miliardario americano speculare al protagonista e inizia una succulenta battaglia tra due menti.

Terza serie. La più debole. Fatti da parte molti dei personaggi delle serie precedenti e introdotti di nuovi la serie sembra aver perso grip. L'antagonista principale se ne è andato, Spacey ha raggiunto obiettivi personali enormi, per quanto gli venga contrapposto Lars Mikkelsen ormai si è tornati al problema iniziale, tutto avviene con troppa facilità, mancano sfide vere e proprie e l'effetto novità è svanito. Conlcusione con enorme twist fondamentale per tenere acceso l'interesse, anche se, secondo me, è stata messa ormai troppo tardi.

Una serie costruita in maniera impeccabile che merita di essere vista, ma rigorosamente in ordine cronologico per non conoscere in anticipo i molti sconvolgimenti della trama. Salvo una ripresa di ritmo nella prossima stagione, però, sembra avere già esaurito il proprio impatto.

PS: impropriamente classificata (da me) come serie tv per facilità tassonomica.


lunedì 1 giugno 2015

Mad Max: Fury road - George Miller (2015)

(Id.)

Visto al cinema.

A quasi 40 anni di distanza dal capostipite George Miller riprende in mano la sua creatura e ne fa un film. Onestamente non ci avrei scommesso troppo sul suo successo; invece devo ricredermi completamente.

Non provo neppure a scrivere mezza sinossi, è inutile, è un film action tout court, ci sono pugni, fughe, inseguimenti, un breve momento di calma e poi inseguimenti, fughe e pugni, più qualche esplosione.

Il film vince però per tutto quello che fa da contorno. L'estetica è il caposaldo del film, viene preso il post apocalisse dei seguiti, l'istinto steampunk che tanto ispirò "Ken Shiro" e viene esploso, con interventi in ogni ambito, dagli abiti agli accessori, dai veicoli alla mitopoiesi complessa che fa da sfondo alla vicenda (viene tratteggiata in maniera coerente un'intera società figlia di quella attuale, ma medievalizzata). Il tutto infilato in un ambiente desertico che ha rapporto ingoiandoli continuamente e che rappresenta la tela per il dipinto del film (oltre a una serie di manipolazioni estetiche sempre perfette come il fantastico effetto notte nel deserto con sprazzi di luce).
Il film vince perché riesce a lavorare il protagonista pur avendolo totalmente spersonalizzato, anzi messo d aaprte. C'è un incipit rapidissimo che cala nell'azione più pura lo spettatore, qui ci sono alcune (fastidiose) sequenze di ricordo (ritorno del) passato del protagonista con una bambina che non è riuscito a proteggere (pallido legame con l'originale, non particolarmente utile), poi il film vira e il protagonista lascia il posto alla protagonista; trasformando questo in un film action al femminile dove un gruppo di donne fugge dagli uomini (tutti, a parte un paio) e cerca di farli fuori perché vengono utilizzate come oggetti.
Il film vince perché, esattamente come il capostipite era l'essenza del decennio trascorso, questo ha assimilato tutto quello che c'è stato in mezzo; utilizza i corpi come i body horror gli hanno insegnato (malattie, malformazioni, obesità, tatuaggi, scarificazioni, trucchi che deformano i lineamenti, sporco che nasconde i volti, corpi di donne sexy, corpi di donne incinte, corpi di donne mutilate) con un protagonista azzeccato (qui non deve neppure sforzarsi, ma Hardy è uno degli attori più fisici degli ultimi anni, basti ricordare "Bronson") e una protagonista, tecnicamente figa, che però viene utilizzata in toto, ammazzandone la sensualità; Miller ci mette pure il classico film di inseguimenti che tanto conosce; sfrutta appieno il genere postapocalittico di cui ha dettato le regole decenni fa; e frulla tutto in un film d'azione adrenalinico modernissmo che non ha nulla in comune con tutte le sue opere precedenti. E ovviamente per fare questo se ne fotte dei vincoli di produzione, delle (auto)censure e dei vari PG.
Il film vince ppiù che altro per quest'ultimo punto. Vince perchè dopo qualche minuti dall'inizio comincia una fuga a rotta di collo che lascia senza fiato. Quando finisce è solo l'inizio di una fuga a ritroso ancora più folle, disperata e dispnoica (letteralmente lascia senza fiato) dove non si può non essere partecipi ed emotivamente coinvolti; dove la macchina da presa che vola continuamente sopra, sotto e ai lati dei veicoli qaunto i personaggi che cadono, inciampano, rimangono legati, beh quella macchina da presa lì, mossa da un settantenne, non ti fa mai staccare gli occhi dallo schermo e dopo solo due ore di film ne chiedi ancora, solo una mezzora...

PS: e comunque pure questo film ha creato immagini, personaggi e situazioni con cui il cinema action dovrà confrontarsi negli anni a venire.