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mercoledì 3 ottobre 2018

Lo specchio della vita - Douglas Sirk (1959)

(Imitation of life)

Visto in Dvx.

Due donne, una bianca e una nera, amiche, si ritrovano ad affrontare i problemi dell'essere sole con figlie a carico. La figlia della donna di colore è incredibilmente bianca e cercherà in ogni modo di non far sapere a nessuno chi è sua madre; la figlia della ricca (o almeno, che diverrà ricca) bianca, invece, si troverà a dover convivere con una madre amorevole, ma assente.

A me il melodramma piace; ma qui siamo di fronte alla sublimazione del melò; questo è il più titanico esempio di film ricattatorio che strappa lacrime a viva forza dagli spettatori. Fintamente democratico è in realtà un film piuttosto consueto (i rapporti di forza fra le due amiche non saranno mai equi) utilizza ogni spietato elemento di sceneggiatura per tirare fuori il pianto da ogni accenno di bontà o di rivolta che sia.
In questo senso è un film impeccabile.
La trama, come si è detto, è falsamente progressista, ma nel suo continuare a dipingere gli estremi razziali in maniera scontata (ma ovviamente edulcorata, qui il dramma è casalingo, non sociale) comincia a veicolare un'idea di cinema in cui gli afroamericani possono avere un posto (come già "La parete di fango").
Sirk dal canto suo gestisce tutto come suo solito; con assenza di ritmo, ma con la gestione delle scene come in un musical, con colori accesi, macchina da presa immobile, ma che gioca molto di montaggio (il finale è, in questo senso, magnifico) e, nelle ultime scene, si lancia nella più struggente cavalcata di dolore supportato da una canzone cantata in scena.

mercoledì 8 marzo 2017

Ombre - John Cassavetes (1959)

(Shadows)

Visto in DVD.

Tre fratelli afroamericani, ma con la carnagione estremamente diversa, devono affrontare le difficoltà della isterica vita newyorkese, con in aggiunta il razzismo strisciante.

Diciamolo subito che io ho un'idiosincrasia per Cassavetes. Disprezzo con distacco tutti gli obblighi programmatici a realizzare una sorta di naturalismo cinematografico dopo il neorealismo italiano, perché nove volte su dieci, chi si impegna nel raccontare il contesto sociale con verosimiglianza, si dimentica del ritmo (o più spesso si dimentica che il cinema è una delle arti che più ha nel DNA l'intrattenimento); in definitiva disprezzo gli intellettualismi segaioli che si limitano ad ammazzare il linguaggio cinematografico in favore di una pretesa profondità. Detto ciò, Cassavetes lo conosco molto poco, ma quel poco lo incasello in quella nicchia.

Per fortuna però "Shadows" è stato una bella sorpresa. Questa è la seconda versione di un omonimo film precedente basato sull'improvvisazione totale; questo auto-remake è stato ripulito dai tempi morti e da quegli intellettualismi fini a sé stessi (attirando sul regista gli strali dei fanatici).
Non siamo davanti a un film impeccabile e certamente lo stile è acerbo, ma è evidente che questo è un film tout court.

La storia è piena di elucubrazione che rallentano l'andamento della storia (ma questo è figlio del suo tempo); ma questo non limita di apprezzare la regia. Cassavetes dimostra di avere un occhio magistrale  costruisce ottime inquadrature rendendo godibile una fotografia molto sgranata e primissimi piani continui, costruendo scene a incastro su più piani e muovendosi fra tagli di montaggio, il tutto in quella che può, comunque, essere considerata un'opera prima.

Come elemento storico è inoltre importante identificarlo come un film anti-hollywoodiano per storia produttiva e andamento; ma a mio avviso rimane più rilevante la trama stessa. Che io abbia in mente, questo è il primo film USA con protagonisti degli afroamericani (tutti i protagonisti) che soffrono delle stesse crisi e degli stessi problemi dei bianchi, indipendentemente dal lavoro, dal sesso e dall'origine sociale; solo in un secondo momento subentra il tema della discriminazione.

Questo è un film che mi riappacifica, in parte, con Cassavetes, ma che rimane ancora più interessane che godibile.

lunedì 19 dicembre 2016

Il mostro di sangue - William Castle (1959)

(The tingler)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un anatomopatologo studia gli esiti della paura negli esseri umani e nota che, in tutti coloro che ne muoiono, si possono riscontrare le vertebre cervicali fratturate. Ipotizza quindi che la paura, se non espressa urlando, si concretizzi in una creatura che causa la morte dell'individuo. Per un caso fortuito (...fino a un certo punto) si troverà per le mani il cadavere di una sordomuta morta di paura; ne estrarrà la creatura già battezzata tingler (non so la traduzione italiana), una specie di millepiedi dalla forza enorme, che fuggirà e creerà il panico in una sala cinematografica.

Diciamo subito le cose come stanno: non c'è nessun mostro di sangue in questo film.
Detto ciò siamo davanti a un horror con il presupposto più folle e naif che ricordi; ma fa specie che questo presupposto non sia neppure la cosa più assurda del film. Più assurdo è il rapporto patologico fra Vincent Price e la moglie (che sfrutta per un esperimento sulla paura fingendo di volerla uccidere... e il giorno dopo sembra non essere successo niente) o il modo in cui il padrone del cinema prende la notizia della morte della moglie. In ogni caso l'assurdità è tutta nella trama... Ma il nocciolo del film non è lì...
Castle, il regista fece approntare in molti cinema USA delle sedie con un impianto per dare una piccola scarica elettrica (chi ha detto "Matinee"?) da utilizzare nel finale, dove la creatura entra in un cinema a seminare il panico e in cui c'è l'apice del metacinema anni '50 (per quello che mi riguarda), con la pellicola che sembra distruggersi, l'ombra del tingler che passa sullo schermo (muovendosi al ritmo della musica del film muto proiettato nel cinema), una voce che invita tutti gli spettatori a gridare per non venire uccisi.... poi avverte che il tingler è stordito e possono ricominciare la proiezione (e il film riparte dal momento in cui la pellicola si era rotta). Pare evidente che l'intero film sia stato ideato per quest'unica scena, non mi è dato sapere se abbia avuto il successo sperato, ma lo sforzo produttivo per realizzare qualcosa del genere supera di gran lunga la cazzaraggine che ci è voluta per pensarla. Anche perché mi pare difficile riuscire a raggiungere un tale livello di sovrapposizione fra filme realtà, dove la stessa paura che provano gli spettatori finti dovrebbe essere quella degli spettatori veri... in definitiva un applauso.
C'è anche un altro (famoso) dettaglio che Castle utilizzò per colpire il pubblico. In un'unica sequenza un rubinetto butta sangue al poste dell'acqua e una vasca da bagno è pieno del liquido rosso. In un film in bianco e nero, quel sangue è l'unico dettaglio colorato, con un effetto decisamente efficace, soprattutto alla fine di una lunga (e ridicola) sequenza di "paura" totalmente senza suoni (effettivamente mal fatta, ma di una ingenuità molto divertente). L'effetto del colore dà una punta di surreale, che ritenevo lisergica, notevole in un film del genere.

Al di là degli aneddoti, quello che rimane è un film cazzaro anni '50 come ce n'erano molti, con un fattori di divertimento in più rispetto a tutti i suoi contemporanei e un finale bellissimo.
A questo si aggiunga un protagonista (Price) involontariamente molto ben riuscito (dovrebbe essere il buono, ma in realtà un capace e intelligente medico pacato e gentilissimo che diventa un potenziale assassino psicotico senza frenesie o cliché cinematografici classici e che rimane comunque il personaggio positivo che risolverà la situazione).

PS: qui sotto alcune delle pubblicità dell'epoca.




venerdì 9 settembre 2016

Un maledetto imbroglio - Pietro Germi (1959)

(Id.)

Visto in Dvx.

Un tentativo di furto attira l'attenzione della polizia in una palazzina del centro di Roma, la settimana successiva un assassinio nell'appartamento vicino porta la squadra mobile a contatto con quel piccolo mondo di personaggi squallidi e schivi, all'interno di un delitto intricato e dai mille rivoli.

Germi crea un mix perfetto di giallo e commedia all'italiana, mettendo un'ironia pervasiva e graffiante contro ognuno dei personaggi, ma mantenendo sempre il focus sull'indagine. Lo svolgersi della vicenda segue pedissequamente i movimenti dei poliziotti (di cui il personaggio interpretato da Germi stesso è il vero mattatore), mostrando l'inchiesta come oggi fanno molti telefilm, con in più un gusto particolare nel caratterizzare tutti i coprotagonisti (al di là del bellissimo personaggio interpretato da Urzì, ho trovato di un'arroganza bellissima le telefonate della compagna di Ingravallo che fanno supporre una vita e un personaggio ben più profondi di quelli mostrati sulla scena, ma che non divengono mai realmente utili per la vicenda).
La gestione dei due registri, così costante e ben riuscita pur spingendoli entrambi al massimo è forse il maggior pregio del film; tuttavia anche la qualità della regia (sempre fondamentale nel Germi del periodo) non è da lasciare da parte. Una bellezza delle immagini e una cura nella fotografia che sono sottolineatura e corollario alla magnifica scrittura della sceneggiatura.

Infine tutto questo sforzo tecnico è sostenuto da un cast perfettamente in parte che riesce a sostenere personaggi più marginali (il povero Fabrizi, bravo, ma gravato da uno sei personaggi meno sfaccettati) ai protagonisti (già nominati Urzì e Germi, i veri capolavori di scrittura, ma anche la Cardinale che sostiene una delle poche parti completamente drammatiche del film) fino alle comparse (dove, a esempio, ho amato gli ammiccamenti pacati di Rosolino Bua nei panni del prete).

PS: ho letto in giro che viene definito noir, o addirittura il miglior noir italiano. Noir non è in senso stretto anche se questo è uno dei generi con le maglie più larghe in assoluto, ma, in ogni caso, definirlo il miglior noir del cinema italiano è un'offesa a "Riso amaro" od "Ossessione".

venerdì 24 giugno 2016

Improvvisamente l'estate scorsa - Joseph Mankiewicz (1959)

(Suddenly, last summer)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato.

Una anziana e ricca donna contatta un noto neurochirurgo (e psichiatra) perché lobotomizzi la nipote impazzita dopo la morte del figlio della riccastra. Lo psichiatra nel colloquio con i familiare e dopo il primo incontro con la ragazza sospetta che più che follia ci sia molto di rimosso e ancora di più di non detto da parte di tutti.

Sfritto da Tennessee Williams credo non sia uno spoiler per nessuno che ci siano segreti innominabili, un sacco di sesso vissuto maluccio e un senso generale di morte. Un film che non dice mai apertamente lo scheletro nell'armadio più grosso, ma che viene riferito in maniera indiretta in maniera incredibilmente evidente per quegli anni.
Interessante anche che il lavoro di scoperta di quanto è tenuto sotto silenzio si muova con il passo dell'indagine classica (anche se con ben altri ritmi), con svolte narrative, nuovi punti di vista, voltafaccia e con lo scioglimento finale che avviene dopo aver riunito tutti i protagonisti della vicenda.

Il film dunque è un'opera teatrale scritto da un autore molto verboso e teatrale e diretta dal più teatrale dei registi dell'epoca. Non sorprendono quindi le (relativamente) poche location sfruttate per lunghe sequenze di dialogo e declamazioni. A chi un impianto di questo tipo può infastidire si astenga. Ma chi conosce Mankiewicz sa che come un bravo regista teatrale, lui sa sfruttare gli attori come pochi altri. Un'organizzazione pazzesca dove la Hepburn è magnifica pur facendo quasi solo da supporto agli altri (tranne nella prima mezzora dove è lei a governare la scena; ma rende molto di più nei primissimi piani finali) un Clift un po' in disparte per via di un personaggio che è il motore immobile della vicenda (ma appunto, risulta piuttosto immobile) e ovviamente una Taylor enorme nella parte della pazza sofferente, quasi mai eccessiva (probabilmente la sua interpretazione che preferisco).

venerdì 6 settembre 2013

Il vedovo - Dino Risi (1959)

(Id.)

Visto in tv.

Un omuncolo sciocco e pieno di  (Sordi) è in continuo fallimento, sposato ad una ricca e intelligente industriale milanese ne sfrutta il nome (Valeri), ma viene continuamente vessato da lei. Durante un viaggio della moglie il treno su cui lei dovrebbe essere deraglia. Sordi proverà per 24 ore la sensazione della sua ricca vedovanza e gli piacerà. Quando la moglie si farà viva (non era su quel treno) progetterà quindi di rimanere realmente vedovo.

Divertente commedia di un Risi in piena forma che alle battute classiche affianca un umorismo nero che in Italia si vede tuttora molto poco. La storia si dipana in un mondo grottesco dove tutti sono stronzi o stupidi o avidi o profittatori o più cose insieme, solo uno degli innumerevoli personaggi è tutto sommato un uomo buono, ed è il marchese, ma ovviamente sarà proprio a lui che occorrerà il gesto più empio del film.

Il film si compone di una galassia di macchiette (e non di personaggi veri e propri), ma ben costruite, che si incastrano a vicenda in maniera invidiabile e che tirano fuori il meglio da ogni attore. La Valeri si butta con classe nella sua signorina snob con il 70% di stronzaggine in più. Sordi dal canto suo interpreta il suo solito piccolo borghese stupido e cocciuto, pieno di se, ma misero e pavido (e pure piuttosto fascistello); niente di nuovo, ma qui la macchietta è perfettamente integrate nell'ambiente e Sordi ci sguazza con grazia non comune.

Infine non si può non sottolinea fortissimo come questo sia un film bellissimo. Esteticamente parlando. Una fotografia in un bianco e nero così pulita e perfetta, ma soprattutto un uso delle luci fantastico che arriva in un paio di momenti (il ritorno della Valeri dopo l’incidente e la notte in cui viene messo a punto il piano) ad avvicinarsi all'espressionismo. Bellissimo.

lunedì 3 settembre 2012

Ai confini della realtà - Rod Serling (1959)

(The twilight zone)

Vista in DVD.


Negli anni ’50, Rod Serling ebbe l’idea di creare un telefilm diverso da tutti gli altri della neonata tv, un tele film di fantascienza con puntate separate le une dalle altre tutte costituite da microstorie autoconclusive. Onestamente non so se all’epoca fosse di per se un’idea accettabile oppure fosse un epoca di grandi sperimentazioni, quello che è certo è che l’episodio pilota fu un successo e il telefilm venne prodotto. Serling di idee geniali ne aveva a iosa, ma si fece afiancare dall’ottimo Charles Beaumont e dal geniale Richard Matheson.

Di fatto questi tre autori diedero vita all’opera televisiva più originale di sempre.
Le puntate si compongono tutte del classico teaser in cui la normale giornata del protagonista viene improvvisamente sconvolta, dopo la sigla l’episodio prosegue con lo svolgimento fino al twisted plot finale (quasi sempre presente).

Fuori discussione che sulle 36 puntate alcune risultano piuttosto lente nello svolgimento, alcune oramai stupide o prevedibile e alcune addirittura noiose ("Una sosta a Willoughby" ad esempio). Tuttavia la potenza della serie è nell’aver creato mondi immaginari assolutamente originali senza mai schifare ambiti particolari (mondi alieni, l’aldilà, ecc..) attingendo a quel poco che c’era stato prima di loro ("Il sarcofago" ha il sapore di “Viale del tramonto”) e influenzando pesantemente tutto il modo di fare fantascienza successivo (echi della serie sono presenti ne “Il pianeta delle scimmie” fin dalla struttura del film).

Impossibile non citare “Tempo dileggere” tra le puntate più rappresentativi della serie essendo stato citato da tutti (i Simpson e Futurama ne hanno reso omaggio in più occasioni), ma molti sono gli episodi meritevoli d’essere visti, quasi tutti quelli compresi fra il numero 10 (“La notte del giudizio) al 20 (“Tre uomini nello spazio”), ma anche “Ore perdute” la cui trama verrà riproposta anche da Dylan Dog in “Incubo di una notte di mezza estate”; ma il mio preferito rimane “Mostri in Maple Street”, niente di particolare, ma geniale nella sua semplicità.
Un telefilm da vedere, perché godibilissimo ancora oggi. 

PS: alcuni interpreti di lusso partecipano ad alcune puntate, decisamente il pezzo da 90 è Ida Lupino ne "Il sarcofago". "La giostra" invece rappresenta l'esordio di un giovanissimo Ron Howard.

venerdì 6 aprile 2012

Orfeo negro - Marcel Camus (1959)

(Orfeu negro)

Visto in DVD. Quella di Orfeo è forse la storia classica più declinata nel cinema. Anche in questo caso non ci sono delle gran differenze; la trama è condotta come deve essere; posta però, stavolta, in un ambiente quanto mai distante, il Brasile, durante il carnevale.

Prima di tutto un encomio. La trasposizione è fantastica; la storia viene modificata
adeguatamente per adattarsi al nuovo contesto senza che ne venga snaturato il senso e senza pretese di metterci dentro tutto e tutti; unica nota naif è l’aver tenuto i nomi originali (c’è pure un cane che si chiama Cerbero). Che il merito sia di Camus (Marcel, non Albert; regista, ma anche co-autore della sceneggiatura) non è dato sapere. Il plot ha però un grandissimo probelma, i dialoghi. Sono idioti, ripetitivi e senza un grandissimo senso… che la colpa sia di Camus non è dato sapere.
Altra nota positiva sono alcune delle idee visive sono altresì gradevoli, come il costume della morte, essenziale e moderno.

Il vero problema però è questo estenunte tentativo di mettere il folklore locale nella trama. Sono d’accordo che avendolo ambientato in Brasile bisogna mostrare qualcosa di brasiliano, ma non è che attaccandoci le cose a forza la storia ne guadagni; non viene fatto un uso costruttivo dell’ambientazione (come diceva Hitchcock, non c’è un uso drammatico della location); in questo modo si riduce il tutto ad uno spot del posto fato con molta ingenuità ed un buon grado di quella superiorità arrogante che spinge un europeo a mostrare il buon selvaggio. Fra tutto la cosa decisamente più irritante è che tutti ballano; sempre, in ogni situazione; anche quando camminano per andare a comprare un vestito, ballano e c’è sempre un orchestra da qualche parte che suona; la cosa è talmente eccessiva che la sequenza sul tram mi ha ricordato fortemente “L’allenatore nel pallone”, il primo incontro con il personaggio di Giginho.

lunedì 12 marzo 2012

La grande guerra - Mario Monicelli (1959)

(Id.)

Visto in DVD.
Prima guerra mondiale. Un soldato milanese ed uno romano, divisi per odi precedenti si ritrovano nello stesso battaglione; li unisce il comune desiderio di non fare la guerra. Le proveranno tutte (riuscendoci quasi sempre) per evitare un loro coinvolgimento diretto; ma in ultimo sarà proprio la loro paura a farli catturare, permettendogli il loro unico atto di eroismo (che potrebbe rimanere misconosciuto).

Io odio i film di guerra, perché sono tutti maledettamente uguali, con gli stessi identici significati mostrato con una serie di sequenze spesso sovrapponibile, fatte da personaggi sempre identici e archetipici in maniera stupida e piatta. E odio in maniera anche superiore i film sulla prima guerra mondiale che, al contrario dei film sulla seconda (pomposi, patriottici ed enfatici), insistono su un antimilitarismo certamente condivisibile, ma sempre reso in maniera cerebrale e sfacciata, senza mezzi termini, sempre urlato in faccia. Dopo aver visto l’ennesimo film che mi mostra come la guerra cambi le persone “ecco quindi perché fare la guerra è sbagliato”; ci si rompe anche un po’.

Questo film però è tutta un’altra cosa. Se fosse stato girato durante negli anni ‘10 sarebbe stato una commedia all’italiana vera e propria. È infatti da questo genere (più che dai film di guerra) che mutua i suoi significati ed i suoi modi. Mostra due personaggi sospesi tra il grottesco ed il comico che si muovono in un ambiente affetto da problemi strutturali indipendenti dai personaggi che vi si muovono, ma le persone sono permeato di un sentimentalismo quasi mai scontato. Il film quindi riesce perfettamente a bilanciare scene drammatiche/sentimentali (l’addio alla Mangano, o l’incontro con la vedova di Bordin) a scene comiche davvero divertenti; anzi, spesso i due genere sono mostrati in contemporanea!

I due protagonisti poi sono una cosa eccezionale, due maschere da teatro perfettamente in parte che riescono ad essere divertenti e convincenti con una sola espressione (io che non amo Sordi a priori, credo che in questo film sia stato fondamentale).

venerdì 25 novembre 2011

L'ultima spiaggia - Stanley Kramer (1959)

(On the beach)

Visto in Dvx, in lingua originale con sottotitoli in inglese.
La terra è stata distrutta da una guerra atomica dalle origini sconosciuto, tutto quello che si sa è che l’ultima zona adatta alla vita (cioè con poche radiazioni) è l’Australia (perché è lontano da tutto), ma i movimenti delle masse d’aria potrebbero presto porre fine alla vita umana anche li. Un sottomarino in missione cercherà di capire se qualcuno si è salvato a San Francisco (c’è un insistente e regolare messaggio morse che proviene da la) e se rimane qualche speranza.

Uno dei primi film catastrofisti sul nucleare dell’epoca (prima dei vari Dottor Stranamore o Fail safe). Tra i primi, Kramer, si cimenta nel genere e lo fa con un cast all star (Perkins, Peck, Astaire e Gardner sono i quattro coprotagonisti).
Il film si distingue per la nota amarissima, per la totale assenza di speranza ed il senso di morte ineluttabile che aleggia su tutti sin dalle prime scene. In definitiva viene mostrata la razza umana posta di fronte all’apocalisse… e devo dire che gli australiani reagiscono in maniera fin troppo garbata.

Il film le prova tutte per spingere sul melodrammatico, l’amore interrotto fra la Gardner e Peck perché lui deve seguire i suoi uomini (tutti facenti parte della marina USA) che vogliono tornare a morire a casa; la famigliola appena formata e già distrutta di Perkins; la distribuzione pubblica di pillole per una dolce morte con lunghe file d’attesa; ecc… eppure non riesce mai a cogliere nel segno. Non bastano gli occhi da cane bastonato di Perkins per rendere più empatico un film distaccato e gelido, che cerca il coinvolgimento aumentando l’entità del dolore e basta.
In definitiva due ore di ghiaccio per vedere la versione dell’apocalisse vista dal Commonwealth.

giovedì 4 agosto 2011

Nazarin - Luis Buñuel (1959)

(Id.)

Visto in DVD.
Un giovane prete vive tra i poveri praticando il vangelo fino alle estreme conseguenza, ma ogni suo tentativo di generosità si rivoltano cotnro di lui e contro gli altri. La sua fama però fimane quella di un santo, portandolo ad avere degli apostoli (due donne), a essere ritenuto in grado di fare miracoli e a parafrasare la passione di Cristo.

Il fascino dei film di Bunuel non è per nulla nella loro godibilità, ma nel fatto che non si sa mai dove andrà a parare la storia, ammesso che vada a parare da qualche parte. A livello puramente narrativo la storia di Nazarin si muove pure troppo senza però avere una fine vera e propria e al contrario di molti altri film del regista, si fa seguire senza troppe difficoltà. Poi c’è tutto il sottotesto; e sapendo del fascino/idiosincrasia di Bunuel nei confronti della religione anche quando parla di tutt’altro, figuriamoci quando parla di un prete…

Il protagonista di Nazarin è una sorta di “santo” moderno, ma di una santità onesta, ma di facciata. È umile e generoso, ma di un’umiltà autoreferenziale, incapace di provare amore in maniera sincera (e pertanto incapace anche a rapportarsi con donne di ogni genere) e sostanzialmente inutile. La fede del prete poi è una sorta di scelta attiva e lucida che cerca di essere razionale contro la razionalità degli altri fedeli, nel rapporto fra superstizione, religione e scienza è costantemente dalla parte di quest’ultima (come nella sequenza in cui insiste nel curare la bambina con medicine). E nonostante questi suoi sforzi nell’essere una buona persona razionale gli verranno gettati addosso di volta in volta gli attributi che chi ha davanti desidera vedere, su tutti il fatto di fare miracoli da parte della famiglia della bambina.

Esteticamente magnifico, con una regia mobile, un pan focus visibile e ben fatto (anche se non proprio fondamentale); una serie di inquadrature ad effetto, location ben scelte ed una solida fotografia.

Il film non è esattamente una critica alla religione, ma più una variazione sul tema, un punto di vista di un ateo affascinato che non lesina stoccate a tutti, alla religione (su tutte la scena della preghiera attorno alla bambina malata; o il Gesù compagnone ante litteram), alla borghesia (banale, indifferente e cattiva di quella cattiveria distaccata), ma anche alla povera gente (brutale, stupida ed egoista).

sabato 1 gennaio 2011

Anatomia di un omicidio - Otto Preminger (1959)

(Anatomy of a murder)

Visto in DVD.

Un omicidio, causato dalla voglia di vendetta di un marito cui hanno violentato la moglie è il motivo per questo lungo legal movie. Qui però, come già in “Tempesta su Washington” l’istituzione non è vista dal punto di vista idilliaco ufficiale, ma è presentata come un sistema sostenuto da rigide formalità di facciata che devono essere aggirate e prese in giro per poter avere la meglio; il processo si sviluppa come un duello di lingue molto simile ad un battibecco infantile.

L’occhio clinico e spietato di Preminger anatomizza in primo luogo il sistema giudiziario ed in secondo luogo le personalità dei personaggi principali, il tutto senza mai un giudizio, l’intera vicenda rimane in un’assoluta ambiguità e sta allo spettatore decidere a chi credere (una scelta che dimostra una precisa filosofia di vita, ma anche un assoluto rispetto negli spettatori del film). Ancora una volta il regista sfida la censura trattando di un tema adulto (la violenza sessuale) senza giri di parole, in maniera diretta e reiterata, e pure con un poco di sarcasmo (la scena in cui vengono nominate per la prima volte le mutandine durante il processo ad esempio).

Qui le gesta della macchina da presa sono meno enfatizzata che ne “L’uomo dal braccio d’oro”, ma le capacità di regia di Preminger sono indubbie nella gestione di un film di avvocati di 2 ore e mezza senza neppure un momento di stanca.

Anche in questo caso bellissime le musiche, adatte al mood del film, firmate da Duke Ellington (che compare in una comparsata, suonando il piano assieme a James Stewart).

PS: Preminger deve avere un feticismo tutto particolare nel far bere alcoolici ai cani…

giovedì 7 ottobre 2010

Un secchio di sangue - Roger Corman (1959)

(A bucket of blood)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in francese.


Roger Corman in salsa beatnik si da alla pazza gioia con la follia. Un film serio oltre ogni aspettativa, che indaga, appunto, la follia come mezzo d’espressione, come il voler far parte di qualcosa porti a gesti estremi, ed ironicamente è proprio per far parte della libertaria Beat generation che porta il protagonista all’omicidio.

Uno sciocco cameriere di un locale Beat in cui vorrebbe essere accettato socialmente ammazza per sbaglio il gatto della vicina mentre cerca di scolpire dell’argilla… vuoi non unire le due cose e ricalcare un gatto sul cadavere? L’opera è osannata da tutti e lo sciocco artistucolo si trova a dover produrre altre opere.

Il film è trattato con la dovuta serietà e si sviluppa con grazia verso un susseguirsi di omicidi sempre più gratuiti e verso un proporzionale aumento di fama da parte del protagonista.

Siamo davanti ad una sorta di “Maschera di cera” in cui è la follia sociale, il desiderio di accettazione che porta all’omicidio e non solo un trauma o la ricerca della bellezza fine a se stessa. Va inoltre sottolineato lo spirito ironico della vicenda dove a essere sfottuti a più riprese (e lo strato sociale a cui si vuole appartenere e che, pertanto, spinge alla violenza) è l'ambiente beatnik dell'epoca, la parte più intelletuale e genuina dell'America di quegli anni.

Non originalissimo, ma decisamente ben condotto.

martedì 28 settembre 2010

Il mondo di Apu - Satyajit Ray (1959)

(Apur sansar)

Visto in VHS, in lingua originale sottotitolato... male

Apu è cresciuto, è diventao un uomo, si sposa (in uno dei matrimoni più assurdi della storia del cinema), ma presto perde la moglie a causa del parto, non vorrà vedere il figlio, identificandolo con la morte dell'amata.
Complessivamente più debole come storia, questo film però sancisce un netto miglioramento della regia di Ray, che si concentra in maniera maggiore sulla costruzione delle scene e si permette qualche virtuosismo tecnico in più come alcune piani sequenza che sembrano realizzati con dolly.
Nel complesso la trilogia si fa ricordare per due distinte sensazioni; in primo luogo la bellezza formale, mai esposta, mai evidfente, ma sempre presente, dall'altra parte però c'è pure tanta noia. Questi film sono solo per appassionati di cinema temo.
Interesante che tutti e tre i film della trilogia si concludano sulla strada...

martedì 17 agosto 2010

Piano 9 da un altro spazio - Edward Wood (1959)

(Plan 9 from outer space)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Degli alieni che vogliono limitare il potere distruttivo della terra provano a convincere i governanti del pianeta a smetterla con le armi, visto che non ci riescono, passano alle cattive e hanno la brillante idea di risvegliare i morti (il piano 9 del titolo)... uno a uno...
Imbarazzante film del più famoso pessimo regista della storia, Ed Wood, caratterizzato da una sceneggiatura assurda con dialoghi pretestuosi, attori improbabili, effetti speciali fatti in cortile e gli interni (carlinghe di aerei, astronavi, palazzi governativi) tutti costruiti con assi di legno e un paio di tendine, montaggio risibile che sbaglia ogni stacco e attacca anche scene di giorno con scene in notturno, attori improbabili e l'ultima comparsata di Bela Lugosi... tutto questo unito ad una quasi totale assenza di noia e una storia produttiva ai limiti della realtà lo rendono un cult doveroso per chiunque ami la serie B o chi è fanati di Burton (per la storia produttiva consiglio di guardarsi il suo "Ed Wood").
Da sottolineare la presenza di Vampira starlet gotica della tv dell'epoca omrai in fase discendente; ma soprattutto il fatto che Lugosi morì dopo aver girato pochissimi minuti del film, Wood quindi ingaggiò il chiropratico di sua moglie nonostante fosse diverso e più alto di Lugosi e lo fece "recitare" per tutto il tempo con il braccio alzato a coprirsi il volto col mantello, si vedono quindi delle gustosissime scene in cui lo stesso personaggio cammina normalmente mostrando il volto di Lugosi, poi stacco di montaggio, e il personaggi si tiene il mantello sulla faccia, stacco di nuovo, cammina normale. Applausi.

PS: curioso come il titolo italiano, nonostante tutto, riesca ad essere più ridicolo di quello originale.

mercoledì 28 luglio 2010

La donna vespa - Roger Corman (1959)

(The wasp woman)


Registrato dalla tv; in lingua originale sottotitolato.


Di Corman c’è di bello che ti puoi fidare, se nel titolo ti promette un mostro del pianeta perduto puoi star certo che ti farà vedere un mostro, magari di merda, e magari il pianete perduto sembra Bagnacavallo in estate, però te lo farà vedere. Quindi quando promette un donna vespa non si rischia di trovarsi davanti ad un metaforone antifemminista, se Corman dice “Donna vespa”, perdinci ti mostrerà una donna vespa.


La storia quasi non conta, è un po’ sempre la stessa, uno scienziato fa un esperimento oltre ogni limite e la cosa gli sfugge di mano… e una donna a capo di una ditta di cosmetici si trasformerà in una donna vespa che mangia i suoi nemici. Con tutto il rispetto che ho per Vincent Price, rispetto e affetto, devo ammettere che preferisco abbondantemente il Corman prima maniera, quello onesto dei mostri plateali, con poche velleità e tanta voglia di fare film nonostante la cronica mancanza di pecunia. Nello specifico a mio avviso fa un film dignitosissimo, assurdo certo, ma perfettamente in linea con le possibilità tecniche e l’estetica del periodo; si insomma, un Corman che ha pochissimo da recriminarsi e molto ancora da fare.

domenica 24 gennaio 2010

Hiroshima mon amour - Alain Resnais (1959)

(Id.)

Visto in DVD.

Un'attrice francese si trova per pochi giorni ad Hiroshima per girare alcune scene di un film, li incontrerà un architetto incaricato della ricostruzione della città che presto diventerà il suo amante; la relazione le farà tornare in mente il suo primo amore, un soldato tedesco durante l'invasione della Francia nella città di Nevers.
Film splendido, fatto di una trama terribile ma magnificamente ensata, tutta costruita di metafore, accostamenti e paragoni, spesso spiegati con le immagine più che con le parole. Una regia modernissima fatta di movimenti, inquadrature, angoli di ripresa, costruzione delle immagini sempre perfetti che non sfigurerebbero in un film di oggi, anzi difficilmente oggigiorno si può trovare una tale raffinatezza. Anche il tema in se, oltre per come è trattato non potrebbe essere più attuale.
Una sequenza d'inizio da brividi, con la primissima immagine che è un pozzo di poesia con due corpi acefali abbracciati coperti di sabbia, un incipit che per potenza è degno di un finale epico, che mostra le atrocità dell'atomica e che spiega le atrocità della memoria e dell'oblio; certe frasi non sono facili da dimenticare: "Come te anch'io ho cercato di lottare con tutte le mie forze contro la smemoratezza. E come te ho dimenticato. Come te ho desiderato avere un'inconsolabile memoria, una memoria fatta d'ombra e di pietra. Ho lottato da sola con violenza, ogni giorno, contro l'orrore di non poter più comprendere il perchè di questo ricordo. Come te, ho dimenticato".

L'unico difetto è la terribile verbosità che rende il film piuttosto noioso, ma lo rende anche un film unicamente da guardare (realmente una festa per gli occhi) più che da ascoltare, tanto l'essenza della trama riesce comunque a trasparire.

PS: in uncerto senso mi viene da paragonarlo ad "Di là dal fiume e tra gli alberi" di Hemingway; uno dei libri meglio scritti di sempre, ma anche uno dei più noiosi.

domenica 10 gennaio 2010

Il nostro agente all'Avana - Carol Reed (1959)

(Our man in Havana)

Visto in DVD.

Terza collaborazione fra Graham Green e Reed per un fil più divertente che intrigante.
Una sorta di farsa del genere spionistico decisamente riuscita senza mai momenti realmente comici, ma sempre tremendamente ironico.
Magnifico Guinness nella parte dell'uomo qualunque travolto da eventi di cui gliene frega poco ma che cerca di sfruttare; ed esemplare il personaggio dell'agente 5920, vero snodo farsesco della vicenda.
Da antologia i tentativi di Guinness di assoldare altre spie, e soprattutto la partita a dama con il capitano Segura, prima vera dama alcolica del pianeta.
Reed c'è, ma si fa notare solo a momenti (pochi) soprattutto nel finale, per il resto del tempo si limita ad incorniciare il film come merita, ma senza slanci.
Nella versione italiana molte scene sono state censurate, almeno 3 o 4; vedendole non riesco francamente a capirne il motivo.
Un buon film, canonico ma ancora godibilissimo.