mercoledì 27 febbraio 2013

Il mistero del conte Lobos - Sammo Hung (1984)

(Wheels on meals)

Registrato dalla tv.

Simpatico film del rat pack hongkongese di Jackie Chan e Sammo Hung che mischia, al solito scene di kung fu estetico e comicità facile. Se da una parte le sequenze d’azione sono, al solito, buone, devo ammettere che non c’è stato nulla di particolare che mi abbia colpito, neppure la tanto declamata sequenza fra Jackie Chan e Urquidez; ripeto tutto di ottimo livello (soprattutto la perfomance di Urquidez e l’incipit dell’intera sequenza), ma non sono le attività antigravitarie a cui Chan ci abituerà (anzi direi che in questo film le sequenze migliori le ha Yuen Biao).
La parte comica, particolarmente farsesca e alla buona, intrattiene senza noia, ma risulta particolare delirante.

Summo Hung alla regia è una bella scoperta, mostra bene le sequenze action senza confondere le immagini e scegliendo (quando possibile) punti di vista inusuale, per il resto si arrangia con montaggio e frequenti totali per godere delle performance.

Bella la cornice spagnola che da un significato aggiunto all'idea della movida (dubito che durante il franchismo avrebbero potuto girare questo film); belli anche i vestiti così impresentabilmente anni ’80; ed infine buffo il titolo privo di significato che avrebbe dovuto intitolarsi correttamente meals on wheels (dato il lavoro dei protagonisti), ma per la scaramanzia del produttore che riteneva la M all’inizio del titolo un porta sfortuna venne invertito.

lunedì 25 febbraio 2013

Piovono polpette - Phil Lord, Christopher Miller (2009)

(Cloudy with a chance of meatballs)

Visto in tv.

Mamma mia che film!
Un film fantastico, contro ogni pronostico (mio) una reale alternativa allo strapotere (giustificato) della Pixar. Un’animazione degna d’elogio crea una storia divertentissima, con ampi momenti di comicità surreale alla looney tunes (ma l’intera vicenda rasenta l’idiozia o il dadaismo, senza mai sfociare nel ridicolo… se non volontario). Un uso pervasivo del citazionismo dei disaster movie che però è realizzato ad un livello non fastidioso, molto al di sotto della soglia d’irritazione e che spesso viene utilizzato con il fine dichiarato di creare l’ambiente giusto in cui muovere i personaggi. Infine anche la storia, cretina finchè si vuole, dimostra uno sforzo degno di ogni causa; una serie di dettagli seminati dall'inizio del film che ricorrono in maniera instancabile durante tutta la durata. Infine la trama è evidentemente scritta in controtendenza con il cinema tradizionale (ma assolutamente in linea con la Pixar); il rapporto fra modernità e tradizione non è risolto con una sottomissione al vecchio, ma con una collaborazione fra i due ed un reale apprendimento da parte dell’ancien régime, mentre la tecnologia non è né buona né cattiva, ma semmai mal utilizzata e se può rappresentare un problema, ne rappresenta anche la soluzione. Infine qui si sta parlando di un film completo, con personaggi ben costruiti e una regia originale e dinamicissima che crea immagini, inquadrature e movimenti.
Se tutti i film di animazione fossero così la Pixar avrebbe la vita un poco più ardua. 

venerdì 22 febbraio 2013

Amphetamine - Scud (2010)

(An fei ta ming; in lingua originale gli ideogrammi significano che più o meno risulta essere "E' forse questo il suo destino?", ma il suono, ovviamente, è simile all'inglese anfetamina)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un ragazzo che lavora come istruttore di nuoto e con problemi di droga incontra un giovane yuppi pieno di soldi e un’acconciatura alla Milhouse, si innamorano, si amano, ma i problemi di sessulità (il tossicodipendente non è omosessuale) prima e di droga poi mineranno il loro rapporto fino al deprimente finale.

Il film sarebbe un esperimento interessante sia per i contenuti che per l’estetica.
I contenuti sono il rapporto omosessuale tra i due, in un film cinese credo che, nonostante sia passato più di un decennio da Happy together, sia ancora difficile parlarne, tanto più se ci sono scene spinte come in questo. L’idea è quindi importante, ma non originale e di per sé si esaurirebbe in un melò da quattro soldi; se non ci fosse il guizzo del ragazzo eterosessuale che si innamora di n gay con il quale vive un evidente conflitto; poi però a questo tema si aggiunge il tema della tossicodipendenza, il rapporto complicato con i famigliari e mille altri temi che sbrodolano la trama diluendola con mille agnizione esagerate, mille nuovi tentativi di rendere la vita dei protagonisti più dolorosa, ma senza che vi sia un senso o un’utilità. Inutile dire che l’eccesso fa fallire il film. Peccato perché se si fosse fermato alle prime idee sarebbe potuto venir fuori qualcosa di meglio.

L’estetica è di un vidoclipparo spinto. Spinto sia per gli amoreggiamenti fra i due protagonisti e per i continui nudi maschili integrali; sia per la fotografia che, accantonati i neon e le inquadrature sghembe di Wong Kar Wai, abbonda di colori saturatissimi, immagini oniriche e fantasiose fuori contesto, sovrapposizioni di scene (un montaggio parallelo di scene che sono in sequenza cronologica, ma vengono mostrate insieme, o di scene ambientate in location adiacenti o di scene che condividono lo stesso significato e per questo vengono affiancate), riuscendo in un bel mix originale e gratificante… poi però purtroppo il regista non sa accontentarsi e dall'onirismo passa spesso all'idiozia, come in tutte le scene di sogno (dove viene uno dei protagonisti viene buttato giù dalla finestra; dove un uomo dipinto di aggredisce il tossicodipendente, al sequenza sulle nuvole ecc…).

mercoledì 20 febbraio 2013

Bande à part - Jean-Luc Godard (1964)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Una coppia di amici circuiscono una ragazza per farsi aiutare a rubare nella casa di sua zia. Il film si dipana fra corsi di lingua, chiacchierate in macchina, bevute in un caffè e progetti rapinosi fino al colpo finale.
Se Godard affascina con la regia (un po’ tutti i cinefili), ma annoia a morte con il film in toto (questo vale solo per me), quest’opera è un’ottima via di mezzo.

La regia fascinosa si spacca; una rigida macchina da presa che un giorno sarà tarantiniana segue i ragazzi negli esterni; una macchina da presa mobile e folle come in Fino all'ultimo respiro (ma con più coscienza degli spazi) gestisce gli interni della casa. Al solito la regia gratifica sempre.

La trama di per se semplice e smorta è comunque una delle più ingenuamente carine di Godard, ma quello che vince è il tono. Il film è un’evidente presa in giro del noir che oggi diremmo classico, del noir americano (e molto meno del polar), con una voice off che vorrebbe essere profonda, ma si riduce ad essere superficiale; con un andamento della storia che continua  bloccarsi in tempi morti cretini, ma affascinanti (il ballo nel caffè è giustamente famoso quanto la corsa nel Louvre); ed il finale è il coronamento perfetto, seppure un poco eccessivo, di un film farsa.
Per carità i tempi morti “alla francese” ci sono comunque, soprattutto all’inizio, tuttavia è uno dei film di Godard che più ho apprezzato (e sopportato).

lunedì 18 febbraio 2013

Il vento che accarezza l'erba - Ken Loach (2006)

(The wind that shakes the barley)

Visto in DVD.

Irlanda 1920 circa si va a formare (in realtà già esisteva da qualche anno) la resistenza all'occupazione britannica, nota come IRA. Il film segue alcuni affiliati dal loro giuramento, fino all'istituzione di un’Irlanda ufficialmente libera, ma ancora soggetta all'influenza inglese, quindi il movimenta si spezza fra chi tenta di governare uno stato neonato e chi non accetta di avere una indipendenza a metà.

Ritratto storico su di un tema poco battuto con tutti i crismi del film del mito; i nemici che sono dei nazisti senza cuore; i buoni travolti dai dubbi morali, dal dolore, dalla paura e dalla sofferenza; i vestiti puliti e le facce sempre sbarbate (almeno quella di Murphy). Si insomma un film che parla della guerra d’indipendenza irlandese come gli americani parlavano della seconda guerra mondiale. Diciamocelo un poco col paraocchi, ma non sapendone molto potrebbe anche essere giusto.
In ogni caso il film si segue benissimo, non indugia mai nella noia e riesce a gestire con uguale interesse (e mantenendo sempre un ritmo piuttosto basso, quindi molto più difficile da gestire) sia i raid contro gli inglesi, sia le lunghe discussioni sul da farsi.

Un buon film manierista che ha il suo fattore progressista nel fatto che sia diretto da un inglese. Detto ciò ancora non capisco perché abbia vinto a Cannes.

venerdì 15 febbraio 2013

Il libro della giungla - Wolfgang Reitherman (1967)

(The jungle book)

Visto in tv.

Mowgli è un cucciolo d’uomo abbandonato nella foresta; ma anziché essere lasciato a morire da solo, viene adottato da una famiglia di lupi. Quando però la tigre Shere Khan giurerà di ucciderlo (in quanto nemica giurata dell’uomo) il branco si vede costretto ad abbandonarlo; per farlo si rivolgono alla Bagheera che nel vano tentativo di riportarli nel villaggio degli uomini verrà bloccata da Baloo che si affezionerà al ragazzo e da altre mille complicazioni.

Classico film Disney dal tratto low cost anni '60/'70, affascinante come sono affascinanti tutti gli oggetti di modernariato. Il clima del film invece è incredibilmente più vecchio, con un sentore molto fifties. Il risultato complessivo è un film decisamente apprezzabile che si lascia guardare volentieri sul tema dell’appartenenza, della crescita personale e del ritrovare sé stesso (molto made in USA).

Quello che però è il valore aggiunto di questo cartoon (come in tutte le opere Disney quando sono decisamente buone) sono i comprimari. Di questo film si ricorda soprattutto la follia naive di Baloo e jazz dadaista di Re Luigi, i due veri motori immobili del film (anzi il motore immobile è solo Baloo), senza i quali ci troveremmo a guardare un mieloso film di crescita senza fantasia. A loro si uniscono tutta una serie di idee carine che si applicano bene al racconto a tappe di questo film, dalla truppa di elefanti (classico intermezzo comico) ai condor (incredibilmente simili ai corvi di Dumbo).

Un pezzo di storia che ormai si guarda e si apprezza indipendentemente da tutto, come si guarda e si apprezza una statua romana in un museo.

mercoledì 13 febbraio 2013

Dream - Kim Ki Duk (2008)

(Bi-mong)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un uomo si sveglia dopo aver sognato di un incidente d'auto, mettendosi in macchina scopre che il sogno è realmente avvenuto, ma a guidare era una donna con una diagnosi di sonnambulismo. L'evento si ripete ed i due saranno costretti a provvedere insieme a questa unione che avviene in sogno.

Dream è ormai nella seconda carriera di Kim Ki Duk, un film estetizzante al massimo che si concede con favore verso l’esotismo da festival con slanci di indubbia poesia e ha perso la gran parte della sua cattiveria iniziale. La cosa può piacere o meno di per se (personalmente la apprezzo abbastanza), ma in questo caso è proprio usata male.

La storia punta sulla poesia del legame spirituale, ma lo fa in maniera goffa, semplicistica e francamente oltre l’accettabile (voto questo film come il salto dello squalo di Kim Ki Duk) con la condivisione del sogno che porta alla morte. E persa la credibilità della componente poetica (o peggio rendendo ridicola la poesia che doveva condurre tutto il film) è perso tutto. L’estetica è splendida, ma se non è utile a supportare qualcos'altro rimane une esercizio di stile vuoto.
Un film gradevole… gradevolmente inutile.

lunedì 11 febbraio 2013

Hae anseon - Kim Ki Duk (2002)

(Id. AKA The coast guard)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un gruppo di militari stanziati sulla costa lungo il confine con la Corea del Nord attendono l'arrivo di eventuali spie. Nell'attesa si fomentano vicendevolmente e vengono visti con disprezzo e derisione dalla gente del posto. Tutto precipita quando un ragazzo viene ucciso per sbaglio da un soldato. Il soldato verrà premiato (in fondo pensava fosse il nemico), ma congedato; mentre la ragazza dell'ucciso impazzirà. I due protagonisti involontari diverranno l'uno il carnefice psicologico del plotone (ma anche il capro espiatorio che consentirà alle pulsioni più primitive di venire fuori senza pudore), l'altra la vittima.

Kim Ki Duk si diverte a presentare la buzzantiana posizione dei militari coreani, in perenne attesa di un nemico invisibile che potrebbe arrivare in qualunque momento, ma che poi non arriva mai; addestrati a reagire d’istinto e premiato anche quando quest’istinto eccede e si colpiscono degli innocenti (idioti finché si vuole, ma pur sempre innocenti). Poi quando il nemico arriverà sarà un nemico interno e si muoverà in maniera più fantasmatica dell’immaginario nemico esterno.

Dopo una certa data (il 2003 di primavera estate ecc..) i film di Kim Ki Duk sono tutti esteticamente splendidi; questo The coast guard purtroppo non è fra questi (è stato realizzato subito prima nel 2002), le immagini sono ancora sporche e sgranate, non per necessità, per intenti, ma proprio per il mezzo a disposizione (si guardi la locandina invece per vedere come avrebbe potuto essere). Nelle trame dei suoi film Ki Duk ha sempre messo dentro un’idea di base potente e surreale che fa da motore immobile di tutta la vicenda; in questo caso invece le idee messe in scena sono diverse, almeno tre (l’attesa alla Buzzati, l’omicidio che trasforma la ragazza in una pazza e il soldato in un fantasma, lo sfruttamento della presenza del fantasma per compiere ciò che si vuole ed incolpare l’invisibile nemico) che si susseguono lasciando aperte miriadi di porte, senza chiuderne nessuna, soltanto dimenticando le più vecchie e proseguendo.

Forse il problema è che questo è un film di raccordo. Tutte le opere precedenti sono caratterizzate da una violenza visiva importante e da una volontà di sangue che è alla base della poetica dei film stessi (cose in parte rintracciabili anche qui), quelli successivi sono opere  più poetiche e più lievi, più inclini al buonismo e allo sfociare verso il cazzeggio mentale (ma quando riescono bene sono splendide). Questo è un film a metà, lo stupro della ragazza impazzita ed il suo aborto, nonché gli omicidi del finale fanno parte del primo Kim Ki Duk; l’attesa, l’essere al limite della società e lo stato di paranoia che colpisce dapprima i soldati della base e poi fuoriescono anche dal campo militare sembrano più del secondo periodo. Però non riescono a dialogare perfettamente e sembrano invece portarsi via tempo vicendevolmente senza mai concludere nulla. Tutto sommato un film non riuscito e uno dei pochi del regista che ho trovato piuttosto noioso.

sabato 9 febbraio 2013

Piume di struzzo - Mike Nichols (1996)

(The birdcage)

Visto in tv.

Una vecchia coppia gay che gestisce un locale di drag queen viene sconvolta dalla notizia che il figlio di uno dei due si voglia sposare, e si voglia sposare con la figlia di un governatore repubblicano  molto reazionario, e che voglia presentare i suoceri giusto quel weekend. I tentativi di trovare una madre sostitutiva vanno a vuoto e si risolvono a fingere d’essere una coppia eterosessuale (con Nathan Lane travestito da donna). Il trucco sembra funzionare molto bene finché non arrivano dei giornalisti.

Commedia sui generis che attacca con gusto l’ambiente reazionario (splendide le battute sul governatore morto o le opinioni esternate da Lane al consuocero) e si avvale di un cast all stars per farlo. Com'è noto si tratta di un remake di “Il vizietto”; film che vidi anni luce fa e che ora mi rendo conto di non ricordare per nulla, quindi ogni paragone va un po’ a quel paese.

Tuttavia quello che si può certamente dire è che nonostante lo spreco di buone idee e di situazioni divertenti (oltre che di una regia garbata di Nichols che sembra abbastanza interessato alle carrellate in avanti, ma per il resto poche stranezze) il film non decolla; impantanato nel mostrare una coppia troppo monotona nei ruoli (quante volte Williams deve consolare Lane, alla fine l’ironia viene persa del tutto), ma soprattutto sembra non voler andare al di là del divertimento, sfotte i repubblicani, ma si ferma li, non discute sui perché, sulle difficoltà, sui problemi o le possibilità in più, non sfrutta i personaggi sui generis per dire qualcosa o fare qualcosa di particolare, li sfrutta solo per realizzare una normale commedia degli equivoci. Certamente è una commedia degli equivoci divertente, ma tutto si chiude li.

Inoltre il cast fantastico (capitanato da un Robin Williams in uno dei suoi momenti migliori) ha come punto debole proprio ciò che non poteva essere sbagliato, il personaggio di Albert; Nathan Lane si limita a mimare in maniera pedissequa una macchietta buffa, ma assolutamente insipide, non va oltre ad una sorta di dumb blonde in versione gay e, a mio avviso, il film ne risente (quanto risulta migliore il film nel momento in cui Lane si finge la madre e comincia ad agire in maniera più contenuta?!). 

giovedì 7 febbraio 2013

Vite vendute - Henri-Georges Clouzot (1953)

(Le salaire de la peur)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

In una cittadina del Messico in cui governa la disoccupazione e una ditta petrolifera si muovono diverse forme di diseredati di diverse nazionalità. Quando la compagnia petrolifera offre l’occasione di una vita saranno in molti tentare la sorte e farsi assumere. L’occasione sarà rappresentata da una cifra immensa offerta a chi riuscirà a portare un carico enorme di nitroglicerina ad un pozzo petrolifero in fiamme passando su una lunga, e molto accidentata, strada sterrata. Nei quattro autisti selezionati si animeranno le paure e le voglie di rivalsa di tutta un’esistenza, in un lungo percorso che si rivelerà un gioco al massacro contro il destino.
Affascinante film del sempre bravo Clouzot; regista francese conosciuto per la sua capacità nel creare tensione e nello sviluppo di meccanismi che intrappolino i suoi personaggi. Questo film non esce dal seminato, però lo fa in una maniera diversa; si rilassa. Il film si prende il suo tempo; si muove con ritmo tranquillo, dipanando le vite dei personaggi prima ancora che la storia vera e propria, l’inizio del viaggio comincia dopo circa un’ora di film. Tutta questa calma crea il mood generale del film, e mostrando con lentezza una situazione rischiosa che si sviluppa riesce nell'enorme compito di rendere thrilling un lento viaggio su camion che devono andare pianissimo. Forse non tutto è riuscito a superare il peso degli anni con la stessa forza, ma ho trovato comunque encomiabili molte scene, dal superamento del dirupo (molto ben riuscito), all’eliminazione della frana, fino al finale nella pozza che vale da sola la visione del film.
Unico neo che ho trovato… beh per una volta mi è sembrato posticcio il finale negativo a tutti i costi.

martedì 5 febbraio 2013

Blades of glory: Due pattini per la vittoria - Josh Gordon, Will Speck (2007)

(Baldes of glory)

Visto in tv.

I due più grandi campioni di pattinaggio del mondo sono entrambi statunitensi, ma sono esattamente agli antipodi, uno calmo e molto tecnico, l’altro selvaggio creativo e dipendente da sesso. Verranno ostracizzato dalle gare di singolo maschile a causa della loro rivalità, ma non riuscendo a reinserirsi nel mondo riproveranno ad entrare nell'ambiente sportivo nella disciplina a coppie, gareggiando insieme.

Will Ferrel ha una comicità estremamente anni zero, che è un po’ quella di Ben Stiller o di Judd Apatow, quella di far ridere per il contesto e non per una battuta, una scena di un suo film, messa fuori contesto è assolutamente insignificante, messa nel posto giusto può essere vincente. Ma se Ben Stiller è il più raffinato in questa disciplina, Will Ferrel ne è la versione demenziale. La comicità è sempre quella, ma il contesto è estremizzato, i suoi personaggi sono macchiette viventi (sono dei ritardati al pari di quelli di Ben Stiller, ma estremamente più stupidi), le storie sono pura scusante (di fatto il filone sportivo di nicchia è un cliché già affrotnato in “Talladega nights”) e l’intero mondo attorno a loro è molto più demenziale, più estremizzato ed esteticamente più kitsch.

Questo film non esula dall'idea di base e di fatto rappresenta un esemplare classico di Will Ferrel; senza un’idea particolare, sempre con il solito concetto di fondo dell’amicizia virile (fino a un certo punto) che nasce nelle necessità si muove col pilota automatico azzeccando alcuni momenti e diventando un ottimo film medio (del filone demenziale eh, non va dimenticato). Niente di più.

domenica 3 febbraio 2013

Andrej Rublev - Andrei Tarkovsky (1966)

(Andrey Rublyov)

Visto in DVD.

Film biblico per molti versi, per il soggetto, la trama, il respiro, ma soprattutto per il ritmo. ci si consideri avvertiti.
La storia divisa in otto episodi è presto detta.
La presentazione di una figura cristologica nella Russia medievale è solo la superficie del film; il succo di tutto è, forse, un ampio ragionamento sul bene e sul male (hai detto niente). Di fatto le tesi messe in campo sono molte, ma non mutualmente esclusive. Vi è l’ovvia questione sul ciò che è bene e ciò che è male, sull'accettazione di entrambi come inevitabili figli della natura umana e la questione del perdono e dell’espiazione o dell’ipocrisia e dell’invidia. Vi è il male utilizzato per fare il bene (i terribili dipinti del giudizio universale utili per istruire il popolo sulla fede) e vi è il bene utilizzato per fare il male (la carne data ai cani dai Tartari).  Vi è poi il modo per tendere al bene, l’arte, l’arte come mezzo per creare bellezza e come già disse Dostoevskij, la bellezza salverà il mondo.

Se la trama già appare discretamente complessa, beh questo è niente. La grandezza di questo film (come spesso in Tarkovsky) è che il contenitore prende la forma del contenuto per sottolinearlo. Se per il protagonista il modo per giungere al bene era creare la bellezza tramite le icone; Tarkovsky sembra decidere di creare la bellezza tramite un film su un costruttore di icone. Molte le scelte estetizzanti che creano un susseguirsi di immagini realmente belle; il film è per lo più girato in un bianco e nero utile a sottolineare il candore del protagonista, il bianco è pervasivo per molte delle scene in cui è previsto Andrej Rublev. Ma ciò che più sembra avere un peso è il movimento. Se le icone sono rappresentazioni statiche, Tarkovsky sembra prodigarsi a creare una sorta di corrispettivo cinematografico delle icone (non a caso tutto il film è un lungo preambolo per le immagini finali); e cosa c’è di più cinematografico del movimento? È tutto un continuo movimento di macchina dal caos della scena iniziale (splendida! Dove la macchina da presa sembra legata ad una mongolfiera che si alza sulla folla) ad un continuo fluire di carrelli, panoramiche e movimenti secchi, talvolta utilizzati a scopo descrittivo di una scena o un’azione, talvolta utili solo a sottolineare solo il correre di un cavallo; tutto è un inno al movimento.

E in tutto questo Tarkovsky riesce anche ad aggiungere alcuni tocchi di indubbia poesia (come al nevicata dentro la chiesa) anche se non sono in diretta relazione con il film stesso. Anzi l’intero episodio finale del fonditore di campane è un film nel film, un’enorme parabola poetica (con alcuni dei movimenti di macchina più complessi) completamente disgiunta dal resto dell’opera; tuttavia è proprio durante queste lunghe sequenze che vengono tirate le somme di tutti gli episodi precedenti e questo stesso spezzone di film riesce ad acquisire un senso proprio (e decisamente maggiore) proprio perché posto in chiusura delle due ore precedenti.
Chapeau.