venerdì 29 giugno 2018

Crimen - Mario Camerini (1960)

(Id.)

Visto in Dvx.

Sei coppie di italiani si ritrovano a Montecarlo. Un omicidio viene commesso e, per varie vicissitudini, i tre vengono tutti sospettati in una girandola di equivoci e segreti reciproci. La vicenda sarà ricostruita a distanza.

Commedia riuscitissima di Camerini che si sporca di giallo senza esserne mai sovrastata. Di fatto un mix di due generi dove, entrambi, hanno il loro spazio, per lo più disgiunto, ma con un occhio di apprezzamento maggiore alle risate.
Il film si pregia di una serie di interpretazioni eccellenti fatte dal cast stellare coprotagonista dove ognuno ha uno spazio equilibrato per muoversi e dare il meglio di sé, particolarmente apprezzabili Manfredi nei suoi panni migliori, un Sordi macchiettistico, ma adatto e una Mangano a cui viene dato lo spazio giusto per spiccare.
Il film invece non riesce mai a dosare in maniera corretta le varie componenti o le tre storie che, di fatto, prima del finale, sono degli episodi disgiunti; ma ha il vantaggio di architettare un plot a incastro totalmente imprevedibile costringendo lo spettatore a rimanere incollato al video fino alla fine per l'impossibilità di prevedere cosa verrà dopo. Non un capolavoro tout court, ma un capolavoro di imprevedibilità.




lunedì 25 giugno 2018

La tela del ragno - Vincente Minnelli (1955)

(The cobweb)

Visto in Dvx, in lingua originale

In una clinica psichiatrica il nuovo, giovane, direttore, deve lottare con una assistente innamorata dei tempi passati, un ex direttore alcolista, pazienti richiestivi, una educatrice sexy e una moglie (un pò vacua) che non ci sta più ad essere messa da parte. Il delicato equilibrio esploderà a causa dell'acquisto delle nuove tende e tutti i personaggi si ritroveranno a dover fare i conti con sé stessi.

Film di Minnelli con la solita fotografia ipercolorata anni '50 che vince per direttissima le scelte di casting con una gruppo di vecchie glorie splendide e "nuove leve" ancora luccicanti (quanto fa piacere vedere Widmark nella parte di un personaggio che non sia in qualche modo legato alla polizia?!).
Il film presenta una storia originalissima in una veste edulcorata e tranquillizzante dove la malattia mentale è pulita e pettinata, il personale medico sempre disponibile e interessato le istituzioni finanziatrici tutto sommato non così arcigne. Ma questa è solo la facciata; quello che ci sta dietro è una delle più delicate osservazioni sull'imperfezione dell'uomo di quegli anni. Questo film è l'equivalente drammatico delle commedie degli equivoci, qui a fare da base di tutto è un complicato intrico di rapporti umani che cambiano in base alle persone in gioco. In questo film tutti i coprotagonisti sono, in primo luogo, vittime di sé stessi, delle proprie debolezze, che li portano (ognuno per conto proprio, ognuno all'oscuro dagli altri) a sbagliare, a commettere azioni negative, a cadere. La cosa ancora più affascinante è che tutta la vicenda viene scatenata dal cambio delle tende...

Il film, nonostante le buone intenzioni, perde molto nella enfasi eccessiva, nel sentimentalismo dell'epoca che affossano ritmi e interessi.

venerdì 22 giugno 2018

La cena - Ettore Scola (1998)

(Id.)

Visto in Dvx.

In un ristorante romano una serie di personaggi si incontrano, alcuni si sfiorano appena, tutti vanno incontro a uno scioglimento di una situazione già iniziata entro la chiusura del locale.

Con la massima unità di spazio e di tempo e con un cast corale molto esteso Scola sembra voler muoversi dalle parti della commedia grottesca che lo rese famoso con una galleria di personaggi buffi in situazioni anomale ammantante di cinismo e, solo in minima parte, di sentimentalismo. L'intento è, forse, mostrare uno specchio della società che vede in un microcosmo; forse l'intento è solo quello di prendere qualche tic e farci sopra una commedia come ai bei vecchi tempi con una strizzatina d'occhio a ggiovani d'oggi (i giapponesi, il videogioco finale, il gruppo di ragazzi); forse vuole solo tirare fuori una commediola dove rimettere insieme i suoi feticci del passato.
Qualunque sia l'intento, fallisce.
La commedia grottesca non graffia mai e rimane sempre in superficie, sempre innocua.
La commedia anni '70 all'italiana non riesce mai ad azzeccare un momento genuinamente divertente e le strizzate d'occhio alla modernità sono imbarazzanti.
La solita commediola revival è sicuramente la più riuscita (con una Ardant che pare in parte, un Gassman simpatico, un Giannini che eccede, ma almeno si fa valere ecc...), ma rimane una cosetta piccola di per se, ma che se viene paragonata con quanto fatto in passato da ognuno dei nomi in campo fa venire più tenerezza che pietà.

lunedì 18 giugno 2018

Goodnight mommy - Severin Fiala, Veronika Franz (2014)

(Ich seh Ich seh)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Due gemelli con problemi di socialità (dai si vede fin da subito) ritrovano la madre appena tornata dall'ospedale con il volto fasciato (a causa di un incidente non meglio definito). Tutto potrebbe andare per il meglio se non si insinuasse il dubbio che quella donna non sia la loro vera madre; il volto coperto, il cambiamento del carattere, il suo rifiuto di parlare con uno dei due gemelli... c'è qualcosa che non va. E se in un film austriaco c'è qualcosa che non va si finisce in un algido torture porn.

Sembra che i film austriaci siano tutti una derivazione di Haneke e Seidl (di cui Franz è la fedele sceneggiatrice nonché moglie); tutti registi che del gelo fanno una regola e che della violenza emotiva (nonché un certo sadismo nei confronti dei lo personaggi) fanno arte.
La coppia di registi, alla loro opera prima, rimangono nel solco tracciato dai predecessori e, tecnicamente, lo fanno benissimo.
Una casa moderna che rende il grigiore e le forme geometriche spoglie un labirinto in cui incastrare i personaggi. Una regia che negli interni rimane fissa e ruvida come la casa, mentre negli esterni (pochi) si concede ampi movimenti per contrappasso. Uso desaturato dei colori con una fotografia sbiadita ricercatissima. Attori che recitano come in trance aumentando il perturbante in maniera enorme. La sceneggiatura poi lavora bene sullo sfondo non dichiarando mai esattamente cosa è successo, ma lasciando indizi, a volte contrastanti, per ricostruire l'intera vicenda.

Purtroppo però maneggiare film del genere è delicato, anche il miglior Haneke mi scade spesso nella noia, figuriamoci se non si hanno i suoi anni d'esperienza sull'argomento, ma soprattutto se non si ha una sceneggiatura a prova di bomba. Questo è un film che deraglia nella follia più estrema, ma punta tutto su un twist finale (come spesso fa Haneke), ma il twist finale è velocemente intuibile e sostenere la trama senza la curiosità di quello che succederà poi con i ritmi austriaci significa scadere nella noia. Anche le torture finali (magnificamente infantili) lasciano il tempo che trovano.
L'effetto complessivo è buono, ma la sensazione di aver perso un'occasione per qualcosa di più.

venerdì 15 giugno 2018

A proposito di Davis - Ethan Coen, Joel Coen (2013)

(Inside Llewyn Davis)

Visto in Dvx.

Un musicista folk in un inverno degli anni '60 a New York, tra la mancanza cronica di soldi, fantasmi del passato, tentativi di essere apprezzato alternato a una saltuaria voglia di sfondare...
ma tutto sommato la trama non conta molto in questa ennesima opera d'arte dei Coen. Ancora una volta quella che viene messa in scena è la vita, mossa dal caso, senza alcun disegno premeditato e una dose di ironia che diviene spesso grottesca nel suo piccolo (alla fine a divertire sono le sfighe di un perdente). Non c'è destino e non ci sono capacità che tengano, tutto quello che c'è è solo il caos che regna in un ciclo che continua a ripetersi all'infinito (con una struttura circolare del film che non si vedeva da molto e che aiuta a non risolvere nulla); una struttura che crea personaggi così disperati e passivi che fa impallidire il cinico disincanto dei noir classici (da cui tutto parte).

A fronte di una struttura che esalta il leit motiv dei Coen si ha la solita regia (e fotografia) eccezionale. Le inquadrature sono sempre composte in maniera impeccabile e, nelle lunghe scene cantate, pur sembrando canoniche i punti di vista riescono a rendere un'intero mood (basti la prima intensissima canzone). La fotografia è tra le più patinate di sempre (così come i vestiti impeccabili, capelli e barbe appena acconciate, trucchi senza sbavature ecc...) e da vita a un film che vuole mostrare la perfezione e la gloria della sfiga che racconta; una sorta di film per esaltare il mito del caos come Ford esaltava il mito della frontiera americana.

A questo si aggiunga una colonna sonora utilizzata in maniera empatica con i personaggi e si otterrà un film strepitoso.

lunedì 11 giugno 2018

L'uomo dai setti capestri - John Huston (1972)

(The Life and Times of Judge Roy Bean)

Visto in Dvx.

Un fuorilegge fugge al di là del confine degli USA nella terra di nessuno dove costruisce una città sotto la propria giurisprudenza. Giudice e tenutario del saloon, ma anche eminenza grigia dietro alle esistenze e ai gusti di tutti.
Film su un self made man estremo e folle scritto da John Milius (e nel plot si sente la sua presenza), ma virato verso la commedia dalla mano pesante di un Huston che si mette in secondo piano nella sua regia ottima, ma senza svolazzi. Il risultato finale disgustò Milius (lui voleva lacrime e sangue), ma non può che soddisfare lo spettatore.
L'effetto è quello di una farsa allucinata appena al di qua dal distruggere la sospensione dell'incredulità. Non è un western è un film su un uomo larger than life fuori posto in ogni società che si crea la propria società fuori posto anch'essa e che sopravviverà a tutto, ma non alla modernità che ingloberà tutto.
Il film permette a un Paul Newman perfetto per la parte di gigioneggiare come se non ci fosse un domani e, nonostante questo, di risultare perfetto per la parte.
La sceneggiatura, anche se enormemente cambiata presenta il suo punto di forza (oltre che nel personaggio principale) nei dialoghi, divertenti, rapidi e modernissimi.
Un film che è una sorpresa allucinata e non un western bello, ma canonico, come ci si aspetterebbe.
Finale al fulmicotone che è l'apocalisse di un mondo, più che l'ultimo fuoco dello stesso.

venerdì 8 giugno 2018

Porcile - Pier Paolo Pasolini (1969)

(Id.)

Visto in Dvx.

Due storie parallele.
In un luogo senza tempo un vagabondo diventa brigante per uccidere e passanti e mangiarli; verrà braccato e condannato.
Nell'epoca attuale un industriale tedesco fa accordi con un suo concorrente per mantenersi sulla cresta dell'onda accettando disinteressandosi del suo passato nazista; nello stesso momento il figlio dell'imprenditore è in crisi personale.
Due storie che si alternano senza mai incrociarsi neppure superficialmente. Più che un unicum nei contenuti si fanno da specchio l'una dell'altra per definire un mood, un ambiente, una sorta di prosa rafforzata da una poesia che ne dia il senso senza averne il contenuto o la metrica (anche se in questo caso è difficile dire quale sia la prosa).

Più che impossibile (anche se sicuramente difficile) mi sembra inutile cercare di dare un significato a ogni dettaglio. Il film gira comunque dalle stesse parti della poetica di Pasolini di quel decennio partendo (per location) proprio dove il precedente "Teorema" finiva, fino al gusto per la critica al sistema borghese (ma anche la presa in giro di un certo modo di protestare di quegli anni).
Il film comunque si muove su altri binari, condotto con attenzione dietro la macchina da presa; per lo più fissa con inquadrature geometriche e primi piani nelle sequenze in villa e dinamica con ampie panoramiche e campi lunghi per quella del cannibale. Come spesso succede in Pasolini le location sono determinanti a dare la cifra all'intera vicenda svolta e sono, semplicemente, bellissime.

Quello che però non mi ha convinto affatto è che Pasolini costruisce un film a tesi allegorico, ma totalmente frontale, che non nasconde il suo essere una lunga spiegazione sul cosa non va nel mondo, semplicemente lo fa in una lingua sconosciuta; l'effetto finale è dunque di un lungo sermone poco comprensibile, silenzioso in una delle sequenze, quasi sempre declamato e quasi mai recitato nella seconda.

PS: più affascinante ed inquietante la locandina realizzata dalla Cineteca di Bologna (qui sotto), ma in realtà piuttosto fuorviante.

lunedì 4 giugno 2018

Il prigioniero coreano - Kim Ki Duk (2018)

(Geomul)

Visto al cinema.

Un pescatore nordcoreano viene trascinato dalla corrente nelle acque sudcoreane. Verrà arrestato e tenuto in stato di prigionia come spia; davanti a sé solo due opzioni, ammettere di essere una spia ed essere condannato o firmare un documento in cui chiede asilo politico e ammette la propria diserzione volontaria dalla Corea del Nord; in entrambi i casi la sua famiglia (rimasta al nord) subirà gravi conseguenze. Grazie all'aiuto della sua guardia del corpo e di pubblicità dai media la situazione si sbloccherà e verrà rimandato a nord, ma anche la subirà le stesse vessazioni.

Io e Kim Ki Duk ci siamo voluti molto bene una 15ina di anni fa, poi è successo qualcosa nel nostro rapporto (per colpa sua) e ormai non ci frequentavamo da qualche ann, tornare a vedersi, per di più al cinema (cosa che non ci succedeva dai tempi de "La samaritana") è stato un passo importante, ma non si può negare che il tutto sia partito con molti pregiudizi.

Cosa ne è venuto fuori da questo nuovo incontro. Ne è venuto fuori un film diverso dal Kim Ki Duk che ricordavo, ma con molti difetti.
Diverso perché il film ha una trama quasi scontata rispetto alla dolorosa surrealtà a cui si era abituati; qui la trama è concreta, dall'incedere kafkiano, ma assolutamente credibiel; simbolica in maniera esplicita, ma meno prepotentemente allegorica dei precedenti, ma soprattutto, senza poesia (anzi senza la pretesa di poesia a tutti costi che era diventata la vera palla al piede del regista, più interessato a farsi dire bravo dagli amichetti del circolo letterario che non a realizzare film concreti).
Il problema è tutto nella sceneggiatura, il plot di base è buono e gestito con uan quantità di dialoghi che (probabilmente) superaro tutte le parole dette nei film precedenti, am gestite malissimo.
I personaggi sono costruiti con l'accetta e il cattivo è  cattivissimo fino alla follia, blandamente demonizzato dagli altri personaggi di contorno (su tutti il direttore, un automa equilibrato dai cambi d'idea repentini) e una gestione dei fatti assurda (in uno dei film più verosimili del regista), con dei picchi di pietas da far venire il diabete. I racconti di spie coreani hanno il vantaggio di parlare di persone da entrambe le parti (in Europa, le spie stanno a Berlino e sono gli alleti contro i nazisti o l'occidente contro i sovietici, in entrambi i casi sono i buoni contro figura disumanizzate, in Corea non potrebbe esistere Harry Lime), ma sprecare il tutto per aumentare la  melassa e non per dare  un significato più profondo alla vicenda è del tutto inutile.

venerdì 1 giugno 2018

Dogman - Matteo Garrone (2018)

(Id.)

Visto al cinema.

La storia d'invenzione basata sul delitto del canaro; un uomo semplice, vessato da un bullo fuori età (sono tutti adulti) e "costretto" a compiere rapine e tradimenti, perfettamente inserito in un contesto sociale periferico in cui ci si trova. Quando il mondo in cui vive lo rigetterà  per le azioni dell'altro si vendicherà.

Partito da un efferato fatto di cronaca che poteva essere uno slasher efferato o un lisergico viaggio nel lato oscuro; Garrone, invece, declina la vicenda (edulcorata) in uno dei suoi film con più sentimenti positivi.
La vicenda è un dramma nerissimo e senza speranza ambientato in una periferia geografico che lo è anche socialmente; ma i sentimenti del protagonista sono tutti, sempre positivi.
Il dogman del titolo è un uomo che ama a dismisura sua figlia a cui darebbe tutto ciò che ha, ama i suoi amici e colleghi con cui ha un rapporto di rispetto reciproco e su queste due colonne ha basato la sua vita, una vita da sconfitto che non si percepisce come tale proprio per la richezza emotiva. Addirittura, il protagonista, ha un affetto immotivato per il suo vessatore, anche lui è suo amico, anche lui fa parte del suo mondo e a lui è legato quanto agli altri e sarà proprio questo affetto il motivo della perdita dello status quo.
Un film di buoni sentimenti e delle estreme conseguenze di un uomo che vuole riacquistare l'affetto degli altri.

Ovviamente poi c'è il solito lavoro sull'ambiente e sugli attori. Ogni film di Garrone parte da questi due elementi che fanno da base anche più della trama (che molte volte risulta minimale).
Dopo la parentesi levigata de "Il racconto dei racconti" (che per il suo tono apertamente favolistico si è appoggiato ad attori di fama internazionale) si ritorna a costruire i personaggi su attori dal fisico particolare, riconoscibile e non canonico (incredibile la performance di Fonte, davvero ottimo, ma anche i comprimari, su tutti un irriconoscibile Pesce) che sembra nato e perfettamente sagomato per l'ambientazione.
La location, invece, non è mai sata messa in secondo piano (neppure ne "Il racconto dei racconti") e rappresenta (anche) qui parte integrante della vicenda, come specchio della società che vi abita, come ambiente western di vite di provincia e come mero scenario per scaricare le proprie emozioni.