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lunedì 4 marzo 2019

Godzilla, furia dei mostri - Yoshimitsu Banno (1971)

(Gojira tai Hedorah)

Visto qui, doppiato in inglese.

Per quasi tutti gli anni '60 ilo franchise Godzilla macinò almeno un film all'anno (nel 1964 addirittura due); la distanza di ben 2 anni fra la precedente opera della serie e questo significa molto più di quanto non appaia. Nel 1970 la Toho esplose, iniziando un rischio default tenuto per quasi tutto il decennio, i costi dovettero essere ridotti e il capitolo kaiju fu chiuso quasi interamente; rimase in piedi unicamente il progetto Godzilla che dovette però essere svecchiato. Per introdurre il mostro nel nuovo decennio si decise di affidare il progetto a Banno.
Banno era un filmmaker alle dipendenze della Tohod a una quindicina d'anni come assistente alla regia (fu alle dipendenze di Kurosawa) che solo l'anno precedente fece parlare di sé per un filmato (anche se probabilmente sarebbe più corretto definire installazione visuale) "Birth of the Japanese islands" in cui immergeva gli spettatori in una realistica e coinvolgente ricostruzione di eventi tellurici con l'utilizzo di un cortometraggio e giochi di specchi; l'evento fu proiettato all'Expo del 1970 e fu il padiglione con record di visite. Di fatto Godzilla fu la sua opera prima e, per quanto riguarda la fiction, anche l'ultima.

Banno fece piazza pulita del clima infantile dei film precedenti e tornò al mood horror e moralizzante del primo, non eliminando la continuity, ma ignorandola completamente (non si fa menzione dell'isola dei mostri o di Minilla, ma neppure ci sono riferimenti diretti al film del 1954 e a inizio film un bambino gioca con dei pupazzi che raffigurano Godzilla e Ghidorah).
Per la trama tornò alla filosofia iniziale, ma aggiornandola con la nuova paura collettiva che stava nascendo e che rappresentava il nuovo scempio dell'uomo sulla natura: l'inquinamento.
L'idea fu quindi di creare un mostro alieno che si nutre di inquinamento aumentando potenza e dimensioni; Godzilla d'altra parte, doveva rappresentare la natura che arriva a chiudere i conti, in un'accezione positiva (viene per distruggere l'altro mostro) eliminando (o più semplicemente dividendo su due personaggi) la dicotomia che era propria del primo film (Godzilla come effetto dell'uomo sulla natura e come risposta stessa della natura).
Per realizzare tutto questo scelse un'estetica alla Cthulhu per l'antagonista, una ambientazione più oscura (finalmente si torna ad aver qualche scontro in notturna circondato dalla nebbia) e una serie (lunga) di scontri che definire più realistici è un'esagerazione, ma in cui i mostroni se le danno di santa ragione.
Parallelamente al cambio di cifra e al tema ambientalista (smaccatamente didattico, com'era quello nucleare a inizio saga) si uniscono scelte di regia innovative con inserti musicali seventies (inutili), inserti animati non narrativi (buffi, ma interessanti) e una gestione più dinamica.

Il film fu un buon successo al botteghino, ma nel giro di pochi anni fu spernacchiato dalla critica e fu detestato dal produttore esecutivo che desiderava un'altra deriva per il personaggio di Godzilla. Nonostante l'efficace svecchiamento (anche a fronte delle solite ingenuità e qualche esagerazione idiota come il Godzilla volante) Banno fu estromesso dal franchise per sempre e ritornò a fare da assistente alla regia e come protagonista si occupò di documentari.

lunedì 18 febbraio 2019

Le mura di Sana'a - Pier Paolo pasolini (1971)

(Id.)

Visto qui.

Al termine delle riprese per il "Decameron", Pasolini si risolve a realizzare una serie di registrazioni del centro storico della capitale yemenita e della popolazione locale. Quelle riprese verranno montate in questo cortometraggio.
L'intento è, dichiaratamente, un appello all'UNESCO affinché si faccia carico della salvaguardia della città medievale di Sana'a.
Intriso di un poco di arroganza (l'appello a nome del popolo yemenita che ancora non l'ha fatto, ma certamente lo farebbe) e di un occhio estremamente lucido sui mutamenti reali (l'idea cinematograficamente più azzeccata è la serie di inquadrature dei piedi degli yemeniti per sottolineare l'invasione dei beni di consumo) il documentario è un'opera interessante, ma confusa.
Interessante per l'invettiva iniziale anti neo colonizzazione (per lo più cinese!), che però è decisamente fuori tema, e interessante per il parallelo con quanto avvenuto in Italia, è però confusa per gli stessi motivi. Aggiungere argomenti al di fuori del significato fanno perdere nerbo al documentario e la lunga sequenza in Italia è eccessiva per l'obiettivo finale (anzi, l'obiettivo di sollevare lo stesso problema sul territorio nazionale sarà rappresentato molto meglio dal documentario televisivo "Pasolini e... la forma della città" del 1974; torneranno gli stessi argomenti, ma meglio esposti e con più minutaggio).
Rimane comunque un esempio precoce e altissimo di impegno sociale di un intellettuale al di là del proprio giardinetto di casa, che dimostra, inoltre, una preveggenza lodevole e una sensibilità non comune.

venerdì 7 settembre 2018

La notte brava del soldato Johnatan - Don Siegel (1971)

(The beguiled)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Durante la guerra di secessione americana, un soldato nordista rimane ferito da qualche parte nel sud e trova rifugio in un collegio femminile. Per non essere denunciato fin da subito e tentare la fuga appena possibile seduce a una a una tutte le adulte (e non solo) creando odi, dissapori e violenze eseguite con una calma invidiabile.

Il titolo italiano è un'idiozia che, credo, sia stata pensata per solleticare pensieri pruriginosi che, nel film, non ci sono. Quello che c'è invece è un dramma psicologico gestito in maniera molto fisica.
Lo scontro è quello delle emozioni, dei desideri e delle insoddisfazioni trattenute in un gruppo isolato, mutualmente interdipendente e tarpato per scelte personali.
La messa in scena, però, è tutto fuorché psicologica, le scelte e le tensioni dei personaggi s mostrano con i loro corpi; con offerte sessuali e amplessi, con ferite e amputazioni, con armi da fuoco e cibo, con vestiti che si aprono e capelli che si sciolgono. La psicologia raffinatissima gestita da Don Siegel è fatta di pensieri e di carne.

Ottimo l'uso della location con la creazione di una prigione dorata i cui esterni sono anche più inquietanti, ampi e castranti degli interni (con la vegetazione tipica della Louisiana che fa bella mostra di sé come fossimo in un "Southern comfort" appena fuori dalla palude).

Cast magnifico per efficacia e credibilità dove la parte del leone la fa la Page (tutta rabbia esposta, ma non esplosa e macchinazioni), ma in cui anche Eastwood (fisico perfetto per la parte) recita in maniera impeccabile eliminando, con un unico film, anni di prese in giro sulla sua incapacità di cambiare espressione.

Infine la regia; devo ammettere di non conoscere ampiamente l'opera di Siegel, ma questo film è il suo più dinamico fra quelli visti; un uso dei movimenti di macchina da presa barocco, che crea movimenti ampi che riescono a dare ritmo a scene estremamente statiche, costruisce in maniera magnifica con la luce di una candela, inquadrature azzardate, volti lasciati soli a descrivere intere vicende; un'esperienza da provare.

lunedì 30 aprile 2018

La corta notte delle bambole di vetro - Aldo Lado (1971)

(Id.)

Visto in Dvx.

Un giornalista americano a Praga cerca di scoprire la verità circa la scomparsa della sua amante; le ricerche lo porteranno alla morgue, ma non sarà morto, lo sembrerà soltanto a causa di una droga.

Particolarissimo thriller all'italiana che, pur con i consueti stilemi diffusisi negli anni '70, cerca una sua personale visione del mondo. Al di là dell'indagine, francamente trattata all'acqua di rose e che in più di un momento rallenta fino all'esaurimento (dello spettatore), ed è questa la pecca maggiore, il film ha la sua forza nel mondo che descrive. Il sistema organizzato che sta dietro a tutta la vicenda, il clima di paranoia diffuso, di un potere più o meno occulto che tutto può riescono (o almeno dovrebbero riuscire) a fare breccia in chiunque, ricordando, in parte il miglior Polanski, in parte anticipando un pò dei complottismi internettiani.
Altra intuizione carina, ma non determinante, è il lungo flashback fatto da un morto; un'idea non definitiva sugli esiti della trama e che avrebbe anche potuto essere accantonata senza colpo ferire, ma che risulta come una gradevole variazione sul tema e che permette un finale inaspettato e teso.
Infine va sottolineato il buon uso della location e la fotografia, non perfetta, ma adeguata.

venerdì 3 febbraio 2017

La classe operaia va in paradiso - Elio Petri (1971)

(Id.)

Visto in DVD.

Un operaio stacanovista si avvicina al mondo contestatario (siamo negli anni '70) dei sindacati e degli studenti, nel farlo perderà la moglie, il lavoro e la ragione; e porprio nel momento del bisogno sarà abbandonato da quelli che lo volevano come vessillo dell'operaio illuminato e combattente per i propri diritti. Riuscirà a riottenere il lavoro, ma il prezzo sarà la morte dei sogni (mamma mia che enfasi...)

Film visivamente lussureggiante uscito solo l'anno dopo rispetto a "Indagine" da cui sembra aver preso l'incredibile dinamismo aumentandolo fino al parossismo. Inquadrature ravvicinate, primissimi piani insistiti, dettagli, dolly e carrelli continui; uniti a una cura per i colori molti 70's e una magnifica costruzione delle immagini.
A livello di contenuti, anche se da fuori potremmo aspettarci un filma tesi, Petri porta avanti un lavoro ragguardevole, lanciare fendenti a tutti e parlare di una società che nel suo complesso porta all'alienazione (il film infatti fu piuttosto vessato anche dalla sinistra dell'epoca visto che sfotte apertamente le contestazioni studentesche e mostra i sindacati come intellettuali disgiunti dalla realtà).
A livello di tono questo è uno di quei capolavori di equilibrio, una trama totalmente drammatica trattata con i toni della farsa; personaggi tragici che fanno cose buffe; i due toni distinti che si fondono perfettamente anche nella stessa scena spiazzando, creando situazioni paradossali. In questo il film vince completamente

Il cast di livello ci permette di godere di un Randone nelle vesti di un malato psichiatrico (un bello stacco, visto che sono abituato a vederlo come poliziotto o simili) e una Melato totalmente in parte, sempre impeccabile (a pensarci non mi viene in mente un film in cui lei non sia stata perfetta); infine c'è Volontè, un Volontè notevolissimo, sempre al centro della scena in una parte titanica... purtroppo soffre molto del difetto di ogni grande attore lasciato troppo a sé stesso, recita costantemente sopra le righe urlando moltissimo in un film già molto urlato, la sua parte funziona, ma ci si chiede che cosa avrebbe potuto produrre se fosse stato trattenuto un poco.

Il film è sincopato ed esagitato, eppure riesce anche ad annoiare; troppo interessato a mostrare l'alienazione si dimentica di asciugare gli eccessi (di cui sembra compiacersi parecchio); affascinante, ma poco bilanciato.

venerdì 14 ottobre 2016

Reazione a catena. Ecologia del delitto - Mario Bava (1971)

(Id.)

Visto in Dvx.

Una anziana contessa viene trovata morta e il marito scomparso, la figliastra della contessa con il partner torneranno a indagare su quanto avvenuto e per mettere le mani sull'eredità. Nel mentre molti altri delitti vengono commessi e molti interessi sull'eredità saltano fuori.

Trama esagerata ed esagitata che tende sempre a spostare il abricentro del film verso l'inverosimiglianza, tuttavia la trama persegue un'idea precisa e lineare e realizzata in maniera cinicamente efficace. L'idea è quella del singolo delitto che, con un effetto domino esponenziale, causa moltri altri delitti di persone sempre meno coinvolte nella vicenda iniziale. L'idea è splendidamente contenuta nel doppio titolo italiano di cui il sottotitolo è anche un ironico commento sull'ambiente in cui qualunque dei delitti successivi al primo nasce e si sviluppa.

Alla regia ci troviamo di fronte agli ormai usuali virtuosismi di Bava, la macchina da presa in continuo movimenti, la dedizione per la soggettiva, panoramiche e inquadrature angolate, ma soprattutto gli zoom (incredibilmente mai fastidiosi) anche estremi. Una serie di virtuosismi quasi continui che però in questo caso sanno essere tenuti a bada e non diventano mai manierismo.
Difficile non vedere in questo stile (anche se non in questo film cronologicamente tardo) le origini stilistiche di Argento (e dunque, almeno in parte, di una buona fetta del cinema di genere italiano e americano anni '70).

Al di là di queste valutazioni, questo viene spesso considerato uno dei primi slasher moderne ed è assodato che sia stato a dir poco seminale nel gettare le basi di stilemi che diventeranno la base dell'horror ormai classico (la connessione fra la promiscuità sessuale e la probabilità di essere uccisi) e le influenze saranno ancor più evidenti nel cinema di Carpenter e molti suoi colleghi successivi.

mercoledì 3 dicembre 2014

Wake in fright - Ted Kotcheff (1971)

(Id. AKA Outback)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.
 Un insegnante assegnato in una cittadina persa nel nulla dell'outback australiano vuole tornare dalla sexy fidanzata a Sydney per le vacanze di Natale. Per tornare dovrà prendere un treno fino all'anonima cittadina di Bundanyabba, dove perderà tutti i suoi soldi in un insulso gioco d'azzardo (una forma minimamente più elaborata di testa o croce); per fortuna a Yabba tutti i cittadini sono sì dei campagnoli, ma sono anche molto cordiali, disponibili ad aiutare e a condividere... però l'outback australiano non è Buckingham palace; gli uomini passano il tempo a bere alcolici, andare a caccia di canguri e fare altre cose da maschi, mentre le donne si concedono random.

Detta così la storia sembra noiosa e patetica, eppure il film è spesso (ma a torto) considerato un horror. Perché la cittadina di Yabba, fatta di abitanti compagnoni è un girone infernale da cui è impossibile fuggire nonostante nessuno ti trattenga; tema caro ad un certo cinema horror (si veda "Il seme della follia"), qui però, l'ubriacatura, la mancanza di soldi e l'essere in mezzo al deserto sanno essere più determinanti di qualunque demonio. L'inferno dantesco è condotto da un Virgilio sui generis, un medico alcolista che si fa mantenere dalla comunità facendone parte, giudicandoli e giudicandosi, ma rimanendo comodamente nella propria nicchia da parassita e condividendo la ferocia insita nel sistema. Si perché la moralità del giovane insegnante sarà continuamente messa alla prova, dalla disponibilità sessuale, dalla mancanza di freni inibitori, dalla selvaggia carica omicida che viene dimostrata nella cruenta caccia ai canguri.
Il film è veramente eccezionale a trasmettere il senso di malattia morale che pervade quella che, a prima vista, sembra essere solo una comunità di persone semplici; riesce perfettamente a rendere il paradosso dell'impossibilità della fuga in una città con una stazione dei treni (senza bisogno di utilizzare mezzi sovrannaturali); lo spaesamento e la lenta discesa nella follia del protagonista sono seguiti passo a passo (il gesto estremo nel finale sarà assolutamente comprensibile) ed infine il personaggio del dottore interpretato da un luciferino Pleasence che sembra non aver mai fatto altro in vita sua che bere ed inquietare.
Film particolarissimo impossibile da incasellare (o lo si butta nel cestino della definizione Dramma o bisognerebbe coniare una definizione tipo "Persona a modo diventa matto in una cittadina normale che tutti potremmo incontrare a causa delle buone intenzioni dei suoi abitanti che vivono in una società più violenta del previsto, ah già, dalla cittadina non riesce a fuggire"). Merita, almeno, una visione.

PS: che poi questa è solo la storia, ma anche la regia è interessantissima, fotografata in colori caldissimi, splendida nel rendere questo un film polveroso e sudato, riesce anche a dare un continuo senso di  movimento con una macchina da presa che continua a fare brevi carrellate quando non si impegna a girare in tondo ai personaggi; le scene di caccia infine sono autentiche (anche se le più cruente non sono state messe nel film), ma hanno il dinamismo di una realizzazione di fiction (se la caccia al canguro sembra troppo violenta, si veda come reagisce Chatwin quando segue un gruppo di aborigeni).

PPS: più bella la locandina in testa, ma la rielaborazione qui sotto contiene tutto il film.

mercoledì 5 febbraio 2014

4 mosche di velluto grigio - Dario Argento (1971)

(Id.)

Visto in Dvx.

Un musicista si trova per caso coinvolto in un omicidio; un pazzo con una maschera lo fotografa e comincia ad ossessionarlo. Il musicista cercherà di scoprire chi è e per quale motivo viene perseguitato.

Un film ricco di invenzioni visive e di trama, forse più dei precedenti; tuttavia non mi ha convinto.
Se i dettagli (il coltello durante l'omicidio della cugina/amante) e la soggettiva (dei personaggi, ma anche l'inquadratura dall'interno della chitarra dell'incipit) sono cose note, soprattutto per Argento; la rapida scomparsa dei bambini nel parco con un montaggio parallelo, così come i rallenty della pallottola (condotto con un ottimo gioco di montaggio) così come dell'incidente finale, sono due novità assolute. Nella trama poi compare l'indizio fondamentale (che da il titolo al film) con un'idea totalmente fantastica, inoltre c'è l'idea di un sogno rivelatore; si insomma viene introdotto il paranormale ed il fantascientifico in un film giallo, idea che (migliorata tantissimo) tornerà in Profondo rosso.

Per quanto mi riguarda però una certa lentezza nella trama e l'utilizzo di alcuni accorgimenti (come il già citato montaggio parallelo per far sparire le persone nel parco; o la notte improvvisa sempre nella stessa scena) rendono il film più indigesto, meno credibile (e considerando l'introduzione del surreale che già potrebbe sollevare critiche direi che non è stata un'idea geniale). Un finale che, per quanto sia lavorato bene, risulta frettoloso non aiuta molto. Inoltre Argento inserisce massicce dosi di ironia, talvolta divertente, ma più spesso straniante, se non proprio fuori luogo.
Da molti (tutti?) è considerato il miglior film di Argento prima di Profondo rosso e contestualizzato è effettivamente qualcosa di importante... personalmente, e visto alla luce di quanto fatto dopo, lo salvo più per la presenza di un inaspettato Bud Spencer che per altro.

PS: musiche incredibili di un incredibile Morricone.

martedì 21 agosto 2012

Agente 007, una cascata di diamanti - Guy Hamilton (1971)

(Diamonds are forever)

Visto in tv.


Dopo la disfatta al botteghino del film precedente, i produttori si sentono in dovere di richiamare i veterani. Il che, tradotto, vuol dire soltanto richiamare Sean Connery. Il povero attore scozzese è un poco imbolsito dagli anni, ma la presenza scenica ancora ce l’ha, il problema semmai è che lui da solo non fa un buon film.

Alla regia c’è Guy Hamilton, che pur essendo parte del gruppo originale di creatori della serie, evidentemente è il figlio venuto male, e non risulta in grado che creare qualcosa di decente. Il film manca di tutto, il ritmo è assente, gli inseguimenti ridicoli (soprattutto se in confronto con quelli del film precedente), la storia poco interessante e soprattutto si aggancia a quella precedente con un originale James Bond in cerca di vendetta per la moglie uccisa… però purtroppo l’idea si perde subito dopo i titoli di testa e torna ad essere lo scugnizzo di sempre.

Poi semplicemente le idee buttate nel film superano troppe volte il limite del ridicolo o del verosimile, gli esempi sono moltissimi: la fuga con il modulo lunare, la macchina che viaggia su due ruote, la lotta con le pin up bambi e tamburino, il doppio scambio di nastro o tutta la pessima aggressione finale.
Se si aggiunge che non c’è un vero e proprio nemico con appeal, ne i due sicari e neppure Blofeld è più quello di una volta. Spiace dirlo, ma è la prima vera e propria delusione.

mercoledì 2 novembre 2011

L'inizio del cammino - Nicolas Roeg (1971)

(Walkabout)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Una ragazza ed il suo fratellino si ritrovano perduti n mezzo al deserto australiano a causa della follia del padre. Dopo una stentata sopravvivenza di qualche giorno incontreranno un giovane aborigeno, senza avere modo di comunicare verbalmente i 3 si metteranno in cammino insieme condividendo tutto.

Un film più sulla comunicazione ed i rapporti tra persone al netto delle sovrastrutture sociali (rappresentate dall’onnipresente rumore di fondo delle trasmissioni radiofoniche) realizzato con un gusto dell’immagine molto anni ’70 ma ancora efficace, con montaggio serrato, dettagli, fermo immagini (inutili), grandangoli e montaggio intellettuale, oltre ad un vero impegno nel descrivere lo scenario australiano ed un maniacale intento programmatico nel mostrare la fauna locale.
Il film non è esattamente un capolavoro, voglio dire, non intrattiene con spensieratezza, ma neppure risulta eccessivamente noioso. Senza che succeda molto si fa seguire senza troppi intoppi… direi che ridefinisce il concetto di noia…

Roeg dal canto suo si impegna a rendere immagini gratificanti in ogni scena, ma non è che in questo riesca molto; il suo vero successo non è quello di riuscire a comunicare con le inquadrature (il film ha pochissimi dialoghi, per lo più inutili), con le single immagini, ma parla attraverso l’accumulo di immagini. Il susseguirsi di paesaggi e animali, di dettagli dei corpi e inquadrature del sole acquisiscono un significato per il reiterarsi in rapporto con il trio di protagonisti.

martedì 5 aprile 2011

Attenzione alla puttana santa - Rainer Werner Fassbinder (1971)

(Warnung vor einer heiligen nutte )

Visto in DVD. Film meta cinematografico su una troupe che deve girare un film. Il cast è fatto da registi e attori amici di Fassbinder, tra cui la von Trotta e il grande maestro della serie B più puerile, il mitico Ulli Lommel (che fa, giustamente lo sfigato).

La prima cosa che ho notato è il tono con cui viene trattato l’argomento. Per Fassbinder il cinema è un problema, una fonte d’ansia, un insieme di personalità che si scontrano, si uniscono, si lasciano freddamente e che cercano (nella migliore delle ipotesi) di fare il loro lavoro nonostante tutto e tutti remino contro. Si insomma, Fassbinder guarda al fare cinema con sguardo dissacratorio e spesso ironico, ma anche sofferente; ben lontano dalla visione Truffautiana di “Effetto notte” in cui il cinema è visto in maniera idilliaca, o ancora alla visione americana in cui l’arte cinematografica è un mondo ironico e piccolo piccolo, ma assolutamente non sofferto come alla maniera del regista tedesco.

Detto ciò il film è molto più contenuto a livello di regia, meno idee diverse, ma molti carrelli continui che identificano perfettamente gli spazi interni e la posizione dei vari personaggi fra di loro. Il problema è sempre lo stesso, la sceneggiatura intellettuale e pretenziosa (anche se all’inizio si gingilla tanto nell’ironia/autoironia delle sceneggiature intellettuali e pretenziose) che sfocia, a mio avviso, in maniera eccessiva nel cazzeggio mentale. Inconcludente, piuttosto noioso e con scene completamente disgiunte le une dalle altre.

lunedì 4 aprile 2011

L'ultimo spettacolo - Peter Bogdanovich (1971)

(The last picture show)

Visto in DVD. La storia di un gruppo di ragazzotti di un paesino del Texas pesantemente del sud, dalla spensierata giovinezza all’età della responsabilità, ma il tutto nel giro di un solo anno.

Agli americani piace la perdita dell’innocenza e dell’ingenuità; in questo caso il tutto va di pari passo con la scoperta della sessualità. Si insomma, una sorta di “American graffiti”, ma condito col sesso.

La regia è quella dinamica e cinefila di Bogdanovich, che qui però si limita il più possibile ed evita gli sproloqui dei carrelli (e mi piacevano pure) che c’erano nel suo primo film, il che rende questa seconda opera più asciutta, meno pasticciata e più in linea con la storia di periferia. Bellissima la fotografia in bianco e nero con alcune luci da brivido. Infine un elogia a praticamente tutto il cast, su tutti però spicca il giovanissimo Jeff Bridges, non bravo, ma fondamentale a creare la psicologia di un personaggio con la sola camminata.

Ora il lato negativo; la sceneggiatura. Per quanto potesse risultare a tratti idiota, “American graffiti” aveva un andamento della trama inappuntabile. Qui invece gli eventi sembrano susseguirsi senza troppa attenzione, senza una regolazione da parte dello sceneggiatore e la storia è descritta in maniera lenta e quietamente noiosa… oddio alla noia vera e propria non si arriva mai, ma il ritmo è troppo dilatato perché rimanga legato alla storia nel suo insieme piuttosto che alla scena che sto guardando. Il che riduce il film ad un ottimo esercizio di stile, ma senza particolare interesse.

giovedì 23 dicembre 2010

Grissom gang, niente orchidee per miss Blandish - Robert Aldrich (1971)

(The Grissom gang)

Visto in DVD.

Una rapina fatta da 3 parvenue del crimine organizzato finisce male, ammazzano qualcuno e rapiscono la figlia di un ricco magnate… peccato che l’omonima gang del titolo (una banda rigidamente matriarcale, diretta con un certo acume da una poco posata signora oltre la mezza età) capisca quello che hanno fatto, li ammazzi a sua volta e rapisca la giovane per poter chiedere un riscatto e poi disfarsene. Tutto andrebbe benissimo se solo il figlio vagamente ritardato della capo banda se ne innamori… come nella migliore tradizione dei film di gangster ci saranno parecchie pallottole e visto che siamo nei 70’s anche parecchio sangue.

Impietoso gangster movie di Aldrich, che dirige sicuro un film violento (psiclogicamente prima, e fisicamente poi) e duro, che affondando le radici nel fortunato filone degli anni ’30 (anche se il rapporto con la madre e il rapporto della madre con la banda non può non ricordare “La furia umana”), se ne esce però con una considerazione non banale (all’epoca) del rapporto fra i rapitori e la rapita. Essendo un esperto della macchina da presa Aldrich riesce anche a imbastire i rapporti personali all’interno della banda, quelli delle persone al di fuori d’essa ma legate alla faccenda e pure ci mette le indagini della polizia.

Se non fosse stato per qualche periodo di stanca il film sarebbe perfetto, ma la sceneggiatura purtroppo non è del tutto azzeccata.

PS: torna ancora una volta Wesley Addy, il feticcio di Aldrich, che fa sempre tanta simpatia vedere sullo schermo.

mercoledì 3 novembre 2010

Il gatto a nove code - Dario Argento (1971)

(Id.)

Visto in DVD.

Al suo secondo film Argento non migliora nella regia, anzi; gli unici avanzamenti sono i giochi sempre più raffinati per nascondere l’identità dell’assassino e maggiori virtuosismi in soggettiva. Argento però ha imparato un poco la lezione nella stesura della storia e evita con stile le parti inutili, non allunga la minestra, o meglio la allunga con stile, rendendo tutte le scene interessanti, magari vicoli ciechi, ma dei gran bei vicoli ciechi. Solo il finale è un po troppo frettoloso e rapido.

Poi ha dalla sua il grande Malden in una parte non titanica ma dignitosa (certamente più che in Le strade di san francisco) e Catherine Spaak fa proprio di tutto per non mostrare le tette, quant’è stoica.

Un ottimo film, decisamente migliore dell’uccello, ma ancora Profondo rosso è lontano.

sabato 8 maggio 2010

L'udienza - Marco Ferreri (1971)

(Id.)

Visto in VHS.

Un ragazzo, piuttosto ingenuo, vorrebbe porre una domanda al papa; a questo scopo si trova in fila per un'udienza pubblica a cui è già stato ammesso... purtroppo ha la poco brillante idea di palesare il suo desiderio ad un porporato che gli è accanto; sarà l'inizio di un'avventura kafkiana (come lo stesso protagonista dirà più volte). Kafkiana in tutto, un sistema di potere a cui tutti sono assoggettati e di cui tutti fanno parte, che serve più ad evitare la comprensione dei meccanismi interni piuttosto che facilitare i rapporti fra l'istituzione ed il pubblico. Kafkiano pure il finale.
Il film parte da dio, ricalcando proprio le cadenze dei romanzi dello scrittore ceco e creando personaggi perfetti, sia l'attonito protagonista interpretato da Jannacci, sia il capo della sicurezza fatto da uno splendido Tognazzi. Il senso di labirintica complessità, di impossibilità d'ottenere il necessario e di mancanza di motivazioni a tutto ciò che accade è realizzato perfettamente... ben presto però, esce troppo dal seminato, concentrandosi sul rapporto con la prostituta e giocando di sentimenti elimina quanto fatto in precedenza, introduce personaggi meno credibili ed avvincenti (quello del principe interpretato da Gassman ad esempio). Il film diventa quindi ripetitivo, qui e la noioso, ma soprattutto inutile. Un peccato, ma anche un buon tentativo.

mercoledì 30 dicembre 2009

Il braccio violento della legge - William Friedkin (1971)

(The french connection)

Visto in VHS registrata dalla tv.

Un film realizzato con stampo realista, con una qualità della pellicola scadente (tipicamente anni settanta) e una fotografia dimenticabile, quasi inesistente.
La regia, ricca di panoramiche, non spicca per originalità ma si mette a completa disposizione della scenegiatura e dei personaggi.
Quello che ne viene fuori è un film non del tutto originale, ma tiratissimo, che si fa guardare senza periodi di stanca (tranne all'inizio, quando la storia deve ancora entrare nel vivo) nonostante la ripetitività della storia.
Spettacolare la scena dell'inseguimento del treno che si fa ricordare con prepotenza.
Buono il personaggio interpretato da Gene Hackman, vera nota positiva del film, che rappesenta il prototipo del poliziotto che prima spara e poi chiede chi va la; magnificamente ossessivo è pronto a scavalcare qualunque dubbio morale e qìchiunque pur di giungere ai suoi obbiettivi (na figura non del tutto originale, ma mutuata dai film noir). Ovviamente da qui nasceranno tutti i poliziotti duri e granitici degli anni settanta.
Il finale pessimistico e crepuscolare corona un film che, altrimenti, sarebbe stato uno dei tanti.
Assolutamente ingiustificata la pioggia di Oscar ricevuta.