lunedì 27 giugno 2016

L'enfant, Una storia d'amore - Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne (2005)

(L'enfant)

Visto in Dvx.

Una ragazza appena uscita dall'ospedale dove ha partorito torna ad abitare con il giocane compagno. Lei lavora, lui se la cava con espedienti illegali; uno di questi lo porta ad aver bisogno di soldi. Essendo sostanzialmente uno stupido decide di vendere il bambino. La reazione della compagna e la denuncia che ne consegue lo spingeranno a recuperarlo, ma ora dovrà trovare molti più soldi per pagare anche il debito con i trafficanti di minori.

Arrivato al loro terzo film (è il quarto lungometraggio realizzato, ma il terzo che vedo dei due registi), lo stile dei fratelli Dardenne è chiaro e chiaramente immodificato, macchina da presa a mano, mossa all'inseguimento del personaggio principale che riempie quasi ogni scena; vite ai margini che vengono esaltate dall'occhio del regista anche nelle cose più minute, molti dialoghi, ancora maggiori i silenzi. Quello che rimane inoltre è la capacità di fare film emotivi ed empatici senza mai essere stucchevoli e azzeccando ogni dettaglio.
Quello che cambia in questo film è la prospettiva. Per la prima volta il protagonista è anche il personaggio negativo della vicenda. Come sempre la parte negativa dei film dei Dardenne è più la società o la vita, i personaggi che si comportano male stanno solo cercando di sopravvivere, ma qui c'è il male perpetrato dal personaggio principale e riesce comunque a permanere l'empatia nei suoi confronti.
Ovviamente la storia è una parabola di colpa e redenzione e, andando oltre, anche un romanzo di formazione dove i due protagonisti sono una coppia adolescenziale dove l'uomo è mentalmente un bambino (il titolo originale infatti sembra indicare sia il neonato, sia il padre) che compie sciocchezze per stupidità e che dovrà divenire adulto alla svelta e prendersi le proprie responsabilità.

Nonostante sia inferiore ai due precedenti, rimane la scia positiva della coppia di registi.

venerdì 24 giugno 2016

Improvvisamente l'estate scorsa - Joseph Mankiewicz (1959)

(Suddenly, last summer)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato.

Una anziana e ricca donna contatta un noto neurochirurgo (e psichiatra) perché lobotomizzi la nipote impazzita dopo la morte del figlio della riccastra. Lo psichiatra nel colloquio con i familiare e dopo il primo incontro con la ragazza sospetta che più che follia ci sia molto di rimosso e ancora di più di non detto da parte di tutti.

Sfritto da Tennessee Williams credo non sia uno spoiler per nessuno che ci siano segreti innominabili, un sacco di sesso vissuto maluccio e un senso generale di morte. Un film che non dice mai apertamente lo scheletro nell'armadio più grosso, ma che viene riferito in maniera indiretta in maniera incredibilmente evidente per quegli anni.
Interessante anche che il lavoro di scoperta di quanto è tenuto sotto silenzio si muova con il passo dell'indagine classica (anche se con ben altri ritmi), con svolte narrative, nuovi punti di vista, voltafaccia e con lo scioglimento finale che avviene dopo aver riunito tutti i protagonisti della vicenda.

Il film dunque è un'opera teatrale scritto da un autore molto verboso e teatrale e diretta dal più teatrale dei registi dell'epoca. Non sorprendono quindi le (relativamente) poche location sfruttate per lunghe sequenze di dialogo e declamazioni. A chi un impianto di questo tipo può infastidire si astenga. Ma chi conosce Mankiewicz sa che come un bravo regista teatrale, lui sa sfruttare gli attori come pochi altri. Un'organizzazione pazzesca dove la Hepburn è magnifica pur facendo quasi solo da supporto agli altri (tranne nella prima mezzora dove è lei a governare la scena; ma rende molto di più nei primissimi piani finali) un Clift un po' in disparte per via di un personaggio che è il motore immobile della vicenda (ma appunto, risulta piuttosto immobile) e ovviamente una Taylor enorme nella parte della pazza sofferente, quasi mai eccessiva (probabilmente la sua interpretazione che preferisco).

lunedì 20 giugno 2016

Dieci piccoli indiani - René Clair (1945)

(And then there were none)

Visto in Dvx.

La storia di "Dieci piccoli indiani" della Christie credo sia nota, qui per un ripasso, ma meno se ne sa e meglio è.

Questa versione del romanzo della Christie si basa però sull'adattamento teatrale (fatta dall'autrice stessa) che è decisamente meno inquietante e più consolatorio.
Inoltre dietro la macchina da presa c'è René Clair che non riesce a non aggiungere molti tocchi leggeri. L'effetto finale quindi, pur riuscendo benissimo, sarà meno perturbante del libro originale.

Detto ciò il film è bellissimo. Una gallerie di facce prima ancora che di personaggi (per me spiccano la sempre gelida Anderson, il sempre buffo Auer e il sempre british Fitzgerald).

Clair poi è garanzia di intelligenza; crea costantemente inquadrature gustose (si pensi al ritrovamento del cadavere del maggiordomo o il gomitolo di lana che conduce a un altro cadavere) e gestisce il numero spropositato di personaggi (almeno all'inizio) con la dovuta ironia e grazia (bella l'idea dell'incipit di presentare i rapporti fra i personaggi sfruttando il vento; i personaggi poi si presenteranno letteralmente guardando direttamente in camera per maggior chiarezza). Tutto questo viene fatto senza dimenticare di essere in un giallo e se l'inquietudine si ottiene solo nel finale, è innegabile che la costruzione di un ambiente paranoico dove tutti sospettano di tutti è perfettamente riuscita quasi fin da subito. Viene anche mantenuto l'aroma di perversione di un deus ex machina che vuole portare la giustizia a ogni costo.

Il finale alternativo, come dicevo, è meno soddisfacente di quello originale, ma, per chi come me già conosceva il libro, ha l'indubbio vantaggio di lasciare il dubbio su come verrà conlcusa la complicata vicenda.
Il film ricevette il plauso della Chritstie stessa.


venerdì 17 giugno 2016

Un bacio appassionato - Ken Loach (2004)

(Ae fond kiss...)

Visto in DVD.

L'insegnante di musica di una scuola cattolica si innamora (ricambiata) del fratello di una delle sue allieve... una famiglia originaria del Pakistan. Esplode la passione, ma non senza conseguenze. La loro convivenza diventa un punto di rottura con il lavoro di lei, ma soprattutto è l'elemento della dissoluzione dell'armonia familiare di lui (non solo lei non è mussulmana, ma lui era già promesso sposo di una cugina!) con conseguenze imprevedibili.

Non è un brutto film. Un po' banale e un po' troppo lungo per quello che offre, ma non è un brutto film. Loach dirige bene una storia d'amore travagliato...
Il problema di Ken Loach quando fa un film a tesi è che si incarta, pur mantenendo la fluidità del racconto perde lucidità e si lascia trasportare dalle emozioni.

perché fa specie vedere un Ken Loach votato alla più pura storia d'amore; ma fa ancora più effetto vedere che Loach si lascia portare dal più classico plot hollywoodiano pur di arrivare al suo obiettivo. E l'obiettivo ovviamente non è tale da giustificare il prezzo. Si arriva a mostrare l'ipocrisia di ambo le civiltà, il peso dei credi religiosi, lo scontro inevitabile anche in chi non ha pregiudizi. Si arriva a mostrare tutto questo, ovviamente, ma passando per i più ovvi dei cliché e le più banali svolte narrative. Si toccano tutti i punti che interessavano al regista, ma quello che si ottiene nel finale è la morale che l'amore vince tutto, anche i pregiudizi. Un po' poco e un po' troppo scontato.
A questo si può aggiungere qualche scena madre di troppo  eil quadro è completo.

Quello che si può dire in sua difesa è che tratta l'argomento con una serietà che se fosse un film con Julia Roberts nessuno gli avrebbe riconosciuto. In questo, se si vuole, si può trovare un'idea innovativa.

lunedì 13 giugno 2016

Hellraiser: reveletions - Víctor García (2011)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Due amici vanno in vacanza in Messico; li scopriranno l'esistenza del sesso nei bagni più sporchi del mondo e l'esistenza della configurazione del lamento. Solo uno dei due tornerà a casa, proprio la sera in cui i genitori di entrambi si sono incontrati a cena. Sconvolti per l'improvviso ritorno non sanno che il peggio deve ancora accadere.

Ultimo (finora) capitolo della saga realizzato in due settimane (due, 2, settimane!) per non perdere i diritti e contro ogni pronostico, la realizzazione è pure accettabile.
Gli attori non sono perfetti, non recitano benissimo, ma direi che stanno nella media alta dei film balordi americani.
Dato il principio alla base (fare un film in fretta e furia sul mondo di Hellraiser) viene costruita una sceneggiatura rapida, ma originale, che ha l'enorme vantaggio di far tornare al centro della vicenda la scatola di Lemarchand e ridà ai cenobiti (per la prima volta dal lontano capostipite) il loro lato più sadomasochistico (in certi momenti riesce anche discretamente bene l'unione fra sensualità e violenza potenziale).
Ovvio però che tra i lati negativi principali ci sia la totale mancanza di idee. Il film ruba tutto quello che può per mettere insieme 75 minuti totali: la componente messicana è ormai figlia di Rodriguez (che sta vendendo tutto quello che c'è fuori dal confine USA come terre desolate popolate da mostri), il rapporto fra i due amici è copia-incollato dai protagonisti del primo Hellraiser, il found footage dell'inizio (per fortuna finisce alla svelta) è figlio dei nostri tempi dissoluti, la motivazione che muove tutto il progetto vorrebbe essere la classica morale anti american way of life in salsa adolescente violento (con, forse, una punta minimale di Haneke). Insomma utilizza 1000 cliché vecchi e usurati (e molti anacronistici) per mettere insieme delle sequenze scombinate che, anche singolarmente, non riescono mai a fare paura. (a un certo punto paventa anche un home invasion che però non avviene mai).

PS: Doug Bradley ovviamente non ha accettato il progetto (poco il preavviso, pochissimi i soldi... immagino). Il nuovo Pinhead però è terribile. Se il nostro Doug ha una faccia da bamncario, ma con i chiodi in faccia fa paura, questo Stephan Smith Collins, che normalmente sarebbe adatto in un film horror, quando si mette gli spilli in testa è ridicolo.

sabato 11 giugno 2016

Il divo: la spettacolare vita di Giulio Andreotti - Paolo Sorrentino (2008)

(Id.)

Visto in tv.

La vita di Andreotti dalla crisi di governo d'inizi anni 90, alle elezioni a presidente della repubblica di Cossiga.

Di fatto questo è l'ennesimo film di Sorrentino che non ha una trama vera e propria, ma è solo un girare attorno ad un personaggio per descriverne l'incomunicabilità, mostrarne il contesto, metterlo brevemente nei guai, vedere come si dibatte. Tutto questo con un gran personaggio.
Anche su questo punto c'è da dire che Sorrentino fa il suo solito lavoro; prende il solito freak asociale che ama dipingere, lo mette nella solita posizione di comando instabile e vede come si muove. Non stupisce quindi che sia avvincente un film che parla di politica italiana, DC e presidenze della repubblica.
Il primo colpo di genio è aver scelto quel freak grandioso che fu Andreotti; mette in bocca a tutti citazioni autentiche trasformando i dialoghi in one line evocative di un modo di pensare, descrive personaggi reali con macchiette o brevi flash per chiarire la situazione, poi mette tutto sulle spalle del protagonista (rendendolo in questo modo ancora più grande).

Infine Sorrentino fa il suo solito lavoro di regia; fantastici piani sequenza (quello della festa dove Andreotti riceve la fila di persone), macchina da presa mobilissima (si guardi la breve intervista del finale in cui la macchina da presa continua ad oscillare), rapidi carrelli in avanti, uso fantastico delle musiche, ma anche dei suoni (basta un fischio, e un paio di facce ben scelte, per presentare i personaggi della corrente andreottiana della DC), dialoghi diretti in camera (il breve monologo del finale sotto luce diretta), immagini evocative (basta solo quella iniziale con un Andreotti cenobita o l'uso insistito dello skateboard per rappresentare la strage di Capaci). Tutto questo è un pò il Sorrentino standard, ma qui ogni scena è talmente pervasa da scelte enormi di regia che ogni fotogramma ha un peso specifico enorme.
A questo si deve aggiungere il grande lavoro di arredamento e la solita fotografia impeccabilmente nel mood giusto del solito genio di Bigazzi.

Ecco; tutti questi motivi rendono questo film, a mio avviso, il migliore di Sorrentino realizzato finora (compreso quel capolavoro di "La grande bellezza").

lunedì 6 giugno 2016

Paura in palcoscenico - Alfred Hitchcock (1950)

(Stage fright)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un'attrice di teatro uccide il marito e fugge dall'amante per farsi aiutare. L'amante si preoccupa di cancellare le tracce lasciate, ma viene visto mentre fugge dalla casa e viene ritenuto colpevole dell'omicidio; a sua volta cerca rifugio da un'amica, la quale indaga per contro proprio (beh, assieme al padre) per cercare di scagionarlo.

Subito un commento a caldo; il doppiaggio italiano dell'epoca è da arresto; per nessuna ragone vale la pena di guardare questo film con quelle condizioni.

Detto ciò, questo è il più godibile esempio hitchcockiano di contaminazione fra i generi. Il classico thriller a cui siamo abituati viene abbondantemente irrorato con ironia (il personaggio del padre della protagonista è un britannico indimenticabile) che riesce a tenere il piede in entrambe le scarpe nonostante il finale che impenna la parte più noiresca. A una visione superficiale può sembrare banale, ma in realtà è un certosino lavoro di lima, perfettamente riuscito.

Hitchcock è sempre ottimo alla regia (anche nei momenti peggiori), qui però è particolarmente dinamico; utilizza abbondanti movimenti di macchina, ma soprattutto gioca con la messa a fuoco, soprattutto sui cambi di messa a fuoco diretti o realizzati facendo muovere i personaggi sulla scena (si pensi alla sequenza iniziale con la Dietrich che entra in scena o tutto l’inseguimento all'interno della scuola di recitazione), inoltre realizza una scena con il fuoco sia in primissmo piano che sullo sfondo (unendo due scene separate), un sotterfugio per ovviare alla mancanza del panfocus (idea che De Palma ruberà in diverse occasioni). Ovviamente non rinuncia nemmeno a utilizzare le scene per spiegare più di quanto non dicano le parole (anche se in questo film sono proprio le immagini a mentire più delle parole).

Forse il più scorrevole e godibile tra i film di Hitchcock; una commedia degli errori incastrata in un thriller, con una memorabile sequenza finale e un flashback finale (tanto vituperato ai suoi tempi) geniale.

PS: il lungo finale è l'esempio ideale per l'uso drammatico di una location per come lo intendenva Hitchcock.

venerdì 3 giugno 2016

La morte del signor Lazarescu - Cristi Puiu (2005)

(Moartea domnului Lazarescu)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un anziano abitante di Bucarest accusa un mal di testa e un malessere generalizzato; reticente a contattare un medico attende la sera quando, convinto da un vicino, chiama un'ambulanza. Purtroppo per lui quella sera un enorme incidente riempie i pronto soccorsi e i letti degli ospedali e lui, apparentemente meno grave, viene rimpallato da una struttura a un'altra.... spoier alert, il signor Lazarescu alla fine non muore.

Tipico cinema verità che tanto piaceva agli autori romeni (ma un po' a tutti i filmmaker europei con delle pretese) di metà anni zero. Dunque una macchina da presa senza idee decisive, spesso immobile; una impressione di presa diretta per qualità delle immagini e utilizzo delle luci; unica concessione un uso volontario di colori smorzati che fanno il paio con il clima generale del film. Come spesso succede in questo genere di operazioni gli attori sono l'unica nota positiva.

Complessivamente un film senza guizzi, con solo un'idea di fondo, ma realizzata con un andamento lungo, noioso e senza nerbo. Vorrebbe essere un 'accusa a un sistema dove la solitudine e l'egoismo governa ogni persona, ma quello che ottiene è di essere estenuante. Della trama salverei solo la riuscita rappresentazione di una varietà di reazioni alla medesima situazione; nel peregrinare nei vari ospedali, il ripetitivo incontro con il personale sanitario viene mostrato in maniera sempre diversa in base alle variegate personalità messe in gioco; è comunque poca cosa per le pretese del film.

PS: quella che ho messo è la locandina originale del film e non riesco a capacitarmi di come l'abbiano realizzata. Il film è un dramma lento e silenzioso con riprese dal vero, l'effetto di quel poster invece (che forse voleva essere grottesco, mettendo il personale sanitario scanzonato che nasconde il corpo del protagonista) è di dare l'idea di essere davanti a una versione romena di Scrubs.