venerdì 28 novembre 2014

Al di là della vita - Martin Scorsese (1999)

(Bringing out the dead)

Visto in tv.

Tre giorni nella vita di un paramedico distrutto da sei mesi di lavoro senza successo; immancabilmente chi soccorre muore, per sfiga o per destino. Questo periodo nero (che si riflette sulla sua salute mentale e sulla sua capacità di dormire) nasce dalla morte di una ragazza, causata dalla sua incapacità nell'intubarla correttamente (per tre volte). Ora lo spirito di questa ragazza lo perseguita (niente di gotico eh, il discorso va inteso in senso morale). L'unico che riesce a salvare è l'anziano padre di una ragazza che sarebbe stato meglio lasciar morire. Alla fine di questi tre giorni arriverà la tanto agognata pace.

Film incredibile; il mio preferito nella filmografia di Scorsese... e considerando che Scorsese è uno dei più grandi registi di sempre direi che è uno dei miei film preferiti in assoluto. Incredibile anche la sua disponibilità quasi nulla; non più distribuito in DVD, addirittura difficile da rintracciare su internet, ultimo passaggio televisivo in Italia circa un decennio fa... ritrovarmelo in prima serata su RaiTre è stato un regalo inaspettato.

Detto ciò il film si pregia di riunire di nuovo la coppia Scorsese Schrader e si vede. Ambientato nella New York d'inizio anni '90 (una New York più dura di oggi, ancora simbolo di malavita generalizzata prima dell'intervento di Giuliani) i due mettono in scena una classica storia di colpa e di redenzione; di senso di colpa che perseguita e distrugge. Una trama condotta a ritmo di tre, tre nottate di lavoro (con relativi, brevi, giorni), tre colleghi di lavoro diversi (che si rapportano con un lavoro al limite in maniera molto diversa, con la volontà di fare carriera, con la fede in Dio e facendosi contagiare dalla follia generalizzata), tre possibilità di riabilitazione salvando delle vite.
Incredibile poi che con una trama del genere ci sia posto per un umorismo (nero) bestiale (tutte le scene introduttive al Pronto soccorso non fantastiche).

E poi c'è Scorsese...
Scorsese mette in campo tutto sé stesso; i movimenti di macchina (mai così agitata), la musica rock (mai così stordente) e la cura per la fotografia (colori acidi, luci ed ombre crude per le scene in notturna, luci incredibili e filtri che ammorbidiscono le immagini per la scena finale che incornicia una versione della Pietà di senso opposto a quella michelangiolesca) sono quelle che già si conoscono; qui però ci aggiunge un gusto più stoniano nella messa in scena (non a caso alla fotografia c'è Richardson), con accelerazioni, alcune sequenze con un montaggio delle attrazioni, una sequenza onirica centrale piuttosto in acido ed un personaggio distrutto e perso oltre ogni dire (molto più fuori, più strano, del povero matto-perdente di "Taxi Driver"). La cura per le immagini e la voice off di un personaggio allucinato in certi momenti mi ha ricordato le parti più serie di "Paura e delirio a Las Vegas"... ma qui probabilmente esagero io a trovare punti di contatto fra film che amo.

E oltre a tutto questo c'è ancora molto altro; a livello di contenuti il film butta sul fuoco decine di idee e concetti di perdizione e tentativi di uscirne (o di farne parte del tutto). A livello del cast ci si trova davanti ad uno dei Nicolas Cage più credibili di sempre e tra i comprimari non intendo citare nessuno perché sono tutti grandiosi e non sarebbe corretto farne una classifica.

...per le scelte di regia ci sarebbero ancora decine di idee enormi, a volte geniali (il flashback sulla morte della ragazza reso straniante con movimenti meccanici dei personaggi e la neve che sale in cielo facendo recitare gli attori a ritroso e poi avendolo messo nel film in reverse... va visto per capire cosa intendo), a volte poetiche (Cage che tira i fantasmi fuori dalla strada), a volte neppure utili (le tre inquadrature del primo piano della Arquette prese in tre punti ortogonali in sequenza rapida mentre parla in Pronto soccorso), ma splendidi colpi di pennello la cui assenza non sarebbe stata notata, ma la cui presenza dà un impatto enorme.

Di fatto un film larger than life terribilmente sottovalutato che chiude quello che è stato il decennio (volendo il decennio lungo) più interessante di Scorsese. Merita almeno due visioni per poterlo comprendere meglio; è un film che può piacere fin da subito o può crescere a distanza di tempo.
Poi c'è l'ovvia possibilità che annoi e basta... che devo dire, mi spiace davvero per quelle persone che non riusciranno ad apprezzarlo.

mercoledì 26 novembre 2014

The raven - Lew Landers (1935)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un chirurgo ormai ritiratosi in favore della ricerca viene richiamato per intervenire sulla giovane figlia di un giudice resa moribonda da un incidente d'auto. Il chirurgo accetta e, dopo aver salvato vta e bellezza della donna, comincia a frequentare la famiglia, il giudice, la figlia ed il fidanzato di lei. Ovviamente lui ne è innamorato e scopertosi dal giudice viene minacciato di interrompere ogni rapporto con loro. Ottenebrato dalla follia decide di vendicarsi, costringendo un fuggitivo (a cui promette di sistemargli il viso deturpato da un itnervento fatto da lui stesso) ad affiancarlo nella sua idea omicida... solo che è pure un appassionato di Edgar Allan Poe e per vendicarsi vuole uccidere i protagonisti della vicenda con macchine di tortura pensate dallo scrittore.

Confusa e folle opera horror senza orrore (nè paura) che punta tutto sulla solita coppia Lugosi/Karloff per ottenere l'effetto e l'affetto del pubblico. Ma la storia è assurda e mal diretta, non si capisce perché rendere tutto così inutilmente complicato con il pendolo di Poe e tutte le altre macchine inutili; pure il personaggio di Karloff è li solo per dare all'attore la possibilità di recitare la parte di un Frankenstein sotto mentite spoglie.
Il film riesce invece ad essere irritante molto velocemente.

Da ricordare solo alcune sequenze dove il regista insegue gli attori con camera a mano (è evidente che non sono carrelli) come un Aronofsky ante litteram (sequenze molto brevi, per carità, ma considerando l'anno, le attrezzature dell'epoca erano mastodonti ben diversi da quelli di oggi).
Bravo Karloff nelle poche scene dove può recitare, indecente invence Lugosi che recita in maniera sguaiata peggio che se si trovasse in un film muto.

lunedì 24 novembre 2014

Lamerica - Gianni Amelio (1994)

(Id.)

Visto in Dvx.

Caduta del regime albanese, due italiani vogliono creare una finta fabbrica di scarpe per drenare soldi pubblici italiani, la vogliono costituire con sede in Albania per approfittare del caos e per sperare che l'Italia non faccia controlli. Per firmare il contratto con il ministro albanese viene scelto un prestanome locale, un anziano trovato in un ospizio fatiscente che, all'apparenza, sembra catatonico. Il vecchio fugge e uno dei due dovrà andare sulle sue tracce attraversando uno stato allo sbando. Una volta trovato il ritorno sarà più complicato dell'andata ed il passaporto italiano non sarà di molto aiuto.

Il film, realizzato a due anni dal periodo raccontato, non ancora con il distacco dovuto, fotografa benissimo un ambiente, reale, ma anche sociale; e con fotografa lo intendo in maniera letterale, la fotografia polverosa e terrea, gli ambiente bui o gli spazi aperti desolati, i vestiti usurati tutto descrive una situazione che (forse anche reale) diventa comunque simbolo del caos e del degrado morale di una nazione allo sbando così come dei singoli protagonisti di questa storia.
La trama funzionale nella prima parte si incarta nella seconda in un eterno viaggio che si compiace di mostrare situazioni al limite senza nessun costrutto; si incarta anche sul personaggio del vecchio che si rivela essere un italiano finito in Albania durante il fascismo ed ora, vittima della demenza, pensa di esser ancora nella seconda guerra mondiale tratteggiando un parallelo fra guerra albanesi e italiani (fra fuga dall'Italia e fuga dall'Albania) molto ideologico, ma che al film fa bene in misura limitata, a lungo andare il personaggio irrita più che creare empatia e diventa un peso enorme a fronte di una trama che potrebbe rimanere in piedi da sola. Molte delle scene finale sono realizzate con l'idea di mostrare che "una faccia, una razza" (l'italiano che deve tornare in Italia con uan nave della speranza, gli albanesi che cantano "L'italiano" di Cutugno, ecc..), messaggio lodevole che, probabilmente, all'epoca poteva dare un importante contributo sociale, ma sulla distanza rendono il film un'opera troppo impegnata ad essere politicamente corretta  per essere anche interessante.
Bello invece (e ben recitato) il personaggio del traduttore albanese all'inizio del film, così come altri personaggi minori costruiti molto meglio e con molto meno rispetto ai piatti protagonisti.

venerdì 21 novembre 2014

Anija (la nave) - Roland Sejko (2012)

(Id.)

Visto in tv.

La storia delle due ondate migratorie dall'Albania di inizio e di fine anni '90 con interviste ai diretti interessati e la descrizione del crollo dello stato e degli assalti ai porti e alle navi, con immagini di repertorio che, credo, non si vedevano da 20anni.

Documentario interessante per il taglio dato, ovvero lo sguardo albanese sulla questione. Al di là della descrizione dello stato comunista e del suo crollo, il film si concentra più sull'emigrazione interna verso Durazzo e sull'assalto alle navi (cosa che non sapevo) più che sul loro approdo in Italia; anche l'"alloggio" allo stadio della vittoria, fatto rilevante, viene trattato brevemente per poi essere messo da parte; non è l'arrivo in Italia ad interessare, ma i motivi, le intenzioni, i metodi, di fuga dall'Albania.

Nella prima parte, quando si concentra sull'esodo del 1991-92 il ritmo ed il pathos reggono bene, danno il senso del dramma e della commedia nello stesso tempo (per molti la fuga dall'Albania era spinta da un sentimento positivo) mostrano bene le dimensioni bibliche del fenomeno e chiariscono le aspettative e le impressioni una volta giunti al di là del mare.
Affascinaante e(in parte) commovente l'assalto alla Legend, d'impatto emotivo il racconto della Vlora (ma credo potesse essere decisamente migliore), incredibile l'arrivo del MIG.

Nella seconda metà il discorso si sposta sull'ondata migratoria del 1997-98 e poi un breve accenno sull'Albania attuale (talmente breve da essere obiettivamente risibile). Questa seconda parte è molto più rapida e più superficiale, ci si limita a raccontare velocemente cos'è successo e a fare un paio di domande ad un paio di testimoni e niente di più. Un peccato perché aggiunge poco a quanto detto, devia l'attenzione, fa calare il ritmo e svacca un finale che riuscirebbe molto commovente se strettamente legato ai fatti raccontati all'inizio (gli intervistati presentati con nome e cognome e la nave con cui sono giunti in Italia ed in ultimo il regista presentato allo stesso modo).

PS: dello stesso periodo (dato il ventennale) è stato realizzato anche il documentario di Daniele Vicari "La nave dolce" sullo stesso argomento.

mercoledì 19 novembre 2014

Clown - Jon Watts (2014)

(Id.)

Visto al cinema.

Un uomo, per la festa di compleanno del figlio, indossa un vestito da clown maledetto e lentamente si trasforma in un demone scandinavo affamato di bambini.

Se il clown nel cinema horror è diventato un instant classic con "IT" (nonostante poi ne sia stato tratto un film tv mediocre), c'è anche da dire che, nonostante diverse riproposizioni con alcune variazioni sul tema (qui una lista, incompleta, ma molto carina sull'argomento), l'argomento si era già esaurito con il film capostipite (anche se i fratelli Chiodi hanno dimostrato d'essere dei grandi dribblando il problema e buttandola sulla comicità). Risulta quindi incredibile che nel 2014 si possa discutere ancora di un film di clown, per di più in modo positivo!

Il presupposto è stupido, ma d'altra parte deriva da un finto trailer di cui è innamorato Eli Roth e ha deciso di produrlo... Eli Roth è quel personaggio del cinema contemporaneo che funziona molto meglio come produttore che come regista, quindi, contro ogni pronostico, anche stavolta ci azzecca.
Al di là dell'idiozia dell'idea di base il film si muove per la prima mezzora come il più classico del film horror anni '80-'90, un oggetto demoniaco, una maledizione risvegliata per sbaglio, un vecchio che sa tutto e che diventa rapidamente l'Achab del film (come ci ha insegnato "Behind the mask"), una scream queen (che dato il modificarsi della società, in questo caso è una scream milf); nella seconda mezzora però il film si modifica, l'horror classico si sposta verso il body horror con la trasformazione fisica e psicologica del mostro, il suo ubbidire sempre di più agli appetiti demoniaci e il suo cercare di fermare tutto quello che sta succedendo; nella parte finale del film (qui si in realtà entra in azione la scream milf) il film diventa altro ancora, sempre dalle parti del body horror, ma più verso "La mosca" con la moglie che cerca di aiutare il marito e, proprio per questo, con una serie di scene e uno  showdown particolarmente efficaci.
La cosa bellissima del film è come vengano di volta in volta utilizzati tutti gli stilemi classici dell'horror e vengano riproposti in maniera serissima, senza voler rompere nessuna regola, ma volendo realizzare un credibile film di genere. Il semi esordiente Watts poi sa gestire benissimo la tensione che viene mantenuta quasi costantemente sfruttando lo spaesamento che ogni location può offrire uniformando tutto con una fotografia dai colori neutri. Il film potrebbe e dovrebbe essere ricordato per la scena dentro ai tubi colorati, una sequenza da film horror classico con dei colori in più e dei bambini come protagonisti anziché degli adulti.
Se tutto va bene stiamo entrando in una fase in cui le idee cazzare alla Tarantino/Rodriguez si metteranno sempre in scena con l'iperrealismo alla Nolan... Per l'horror non si può chiedere di più.

PS: il film è uscito in Italia prima che in qualunque altro paese, se rimanesse nei cinema per più di mezzora sarebbe motivo sufficiente per pagare un biglietto.

lunedì 17 novembre 2014

Godzilla - Ishirô Honda (1954)

(Gojira)

Visto in DVx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Test nucleari nel pacifico sembrano aver risvegliato una creatura preistorica, modificandola e rendendola resistente e mortale. Questa creature si avventa su Tokyo mettendola, letteralmente, a ferro e fuoco. Per poterla sconfiggere bisognerà utilizzare una nuova arma, potenzialmente peggiore delle armi atomiche con conseguenze non prevedibili.

Ad inizio anni '50 negli USA venne riproposto al cinema "King Kong", il successo di pubblico indusse le case cinematografiche a riproporre dei film sul tema "mostro gigante distrugge città" e venne realizzato "Il risveglio del dinosauro". Questo film venne esportato con successo all'estero, dove, soprattutto oltre oceano (Pacifico) ottenne un consenso di pubblico enorme, tanto da indurre i giapponesi a fare il loro risveglio del dinosauro. Il risultato fu il primo capitolo di una saga sessantennale (finora).

Il risultato è un film estremamente serio, un horror apocalittico scifi decisamente buono per l'epoca. I mezzi a disposizione sono adeguati con una manovalanza di livello. Ishirô Honda, qui al suo primo film, fu collaboratore di  Kurosawa e nel cast corale hanno parti predominanti attori di film drammatici come Takashi Shimura (il vero attore feticcio del solito Kurosawa, prima e più di Mifune).
Gli effetti speciali sono certamente buffi, considerando l'epoca della realizzazione questo era all'altezza di un blockbuster moderno, niente passo uno male realizzato (la stop motion fatta da un incompetente è la morte della credibilità), ma un pupazzone ben costruito, evidente, ma non troppo (il bianco e nero e le lunghe scene in notturna aiutano) e modellini di palazzi e mezzi di trasporto.
La regia buona, con qualche intuizione carina, si lascia però sfuggire delle occasioni ghiottissime (la silhouette del mostro contro lo skyline di Tokyo in fiamme).
La storia horror è commistionata col dramma (il pietismo delle vittime della tragedia, ma anche il tradimento e la lotta morale dello scienziato che utilizzando l'arma contro il mostro la rende nota al mondo). Ma la storia è anche e primariamente figlia dei suoi tempi, a meno di dieci anni da Hiroshima e Nagasaki e nello stesso anno dell'incidente alla Lucky dragon. Il film è una presa di posizione anti-nucleare, un ammonimento e getta le basi dell'ambientalismo dei film successivi; la chiosa finale di Shimura, più che un cliffhanger per un seguito, sembra davvero la morale della fiaba.

La versione amerigana prevedeva di ridurre le parti con giapponesi in favore di Perry Mason come protagonista; personalmente non l'ho vista e non intendo; nel mio cuore rimmarrà sempre il sacrificio di quello sfregiato del Dr. Serizawa.

domenica 16 novembre 2014

L'esclavage moderne de Fatou - Pepiang Toufdy (2013)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso), in lingua originale sottotitolato.
Una ragazza del Ciad va ad abitare con alcuni conoscenti indiretti della sua famiglia a Parigi per ptoer studiare; ma una volta arrivata le verranno tolti i documenti e sarà costretta a lavorare per la moglie del ricco proprietario.

Film di denuncia di questa schiavitù moderna, come spesso nei film di denuncia, specie se opere prime, specie se senza molti mezzi, la qualità è bassissima. Il vero problema è la sceneggiatura, ovvia, piatta, senza psicologie, ma soprattutto con frasi ripetitive, concetti urlati, scene troppo lunghe; in mano a qualcuno di più competente il film sarebbe potuto essere un cortometraggio di denuncia.

Data la disfatta totale, al regista si può imputare l'incompetenza nel gestire i tempi e il ritmo, ma niente di più.
Certo, è un'opera prima di un paese che non ha un'industria cinematografica e la cosa deve far piacere, ma come tale deve essere giudicato.


Il film è stato anticipato da un corto "Jonah" di Kibwe Tavares. In una Zanzibar con turisti, ma mai abbastanza, due giovani riescono a fotografare un pesce gigantesco, attireranno un turismo selvaggio e una volta invecchiati uno dei due tornerà a cercare la creatura. Film che non ho capito fino in fondo (la lunga sequenza finale in rewind?), ma che è eccezionalmente bello; come in molti casi quest'anno, una fotografia molto curata, un buon uso delle inquadrature, ma soprattutto (cosa che non succede sempre) un uso esteticamente impeccabile degli effetti speciali.

sabato 15 novembre 2014

La marche - Nabil Ben Yadir (2013)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso), in lingua originale sottotitolato.
Tratto dalla vera storia di un gruppo di ragazzi, nati da genitori algerini, che si misero in marcia dalla periferia di Marsiglia fino a Parigi dove furono ricevuto da Mitterand e ottennero seguito ad alcune delle richieste fatte.

Il film è uscito l'anno scorso in Francia per il trentennale della marcia; e pare abbia suscitato più critiche che elogi dato che sono stati inseriti personaggi inesistenti nella realtà e sono stati aggiunti eventi mai accaduti. Beh questo sinceramente non è il difetto peggiore.
In questa furia drammatizzante viene fatto tutto quello che si può per essere giovanilistico ed enfatico. Una serie di personaggi carini, il protagonista che è già moralmente come Gandhi fin dalla prima scena, amore fra noi ggiovani, un prete che combatte di fianco a noi senza mai parlare di religione, una serie di background dove chi è stato in prigione c'è stato per motivi condivisibilissimi, una ragazza a cui incidono una svastica sulla schiena e una che è lesbica; ah già c'è pure Debbouze che fa il simpatico e  tenero picchiatello e un anziano razzista che darà una mano più di tutti gli altri.
A questo ci si può aggiungere che la psicologia dei personaggi si limita alla copertina, il pallido tentativo di evoluzione si limita alla superficie dei due personaggi più in vista; i problemi incontrati che si superano tutti senza mai mostrare come.... e non intendo citare la fotografia hipster desaturata.

Yadir però non ha dimenticato come si fa a dirigere un film (dopo aver fatto quel piccolo film impeccabile e molto tecnico di "Le barons"), rimane più invisibile del solito, ma mettendoci comunque in mezzo una serie di idee molto personali e autoriali, semplicemente ben diluite (la carrellata alterale rasoterra in palestra, la carrellata a circondare il personaggio che parla alla folla, ecc...); l'unica cosa che gli si può obiettare è che al massimo è uno spreco di tecnica, non avendo, in molte occasioni, un utilità pratica.

Quello che ne vien fuori è un film commercialissimo e giovanilistico, che scalda il cuore senza mai mettere in pericolo la tranquillità o le certezze dello spettatore, dove per ogni lacrima c'è sempre un sorriso (o due); tutto questo però intrattenendo benissimo, con un ritmo ben bilanciato e facendo passare due ore nette con una facilità impressionante.
Un film poco interessante, ma molto godibile; Yadir ne esce bene nonostante dimostri fosse un'operazione alimentare (o forse lui ci credeva a tal punto da accettare ogni condizionamento?... massì dai, vogliamo crederci).


Il film è stato anticipato dal corto "Afronauts" di Frances Bodomo, tratto dalla vera storia di Nkoloso, direttore dello Zambia space academy e dei suoi tentativi di battere URSS e USA nella conquista della luna... praticamente tutto quello che c'è nel film è vero, tranne il finale.
Questo corto è bellissimo. Fotografato con un impeccabile bianco e nero e giocato molto su questi due colori (la pelle nera degli attori e quella bianca della protagonista albina; il nero del cielo e il bianco della sabbia) mostra semplicemente una serie di inquadrature bellissime. Praticamente ogni fotogramma è costruito in maniera tale da essere almeno bello, quando non arriva a essere magnifico.
Bellissimo.

venerdì 14 novembre 2014

Teza - Haile Gerima (2008)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (fuori concorso).

1991, un etiope torna a trovare i parenti sul Lago Tana dopo anni di emigrazione in Germania. Tornato dovrà affrontare l'astio del fratello rimasto, lo stato di tensione generalizzata in cui è caduta l'Etiopia per la guerra e la dittatura, i rapporti con una donna ripudiata, ma soprattutto i ricordi del passato (il periodo tedesco, il suo ritorno in Etiopia senza avvertire la famiglia, la fuga di nuovo in Germania).
La trama è un pò tutta qua, ma è anche molto di più, il film è complesso mischiando insieme seuqenze disgiunte, momenti onirici e flashback ai fatti principali. Per tutta la prima parte non racconta quasi nulla, ma mostra il ritorno di quest'uomo e una sequenza di scene di quello che succede, senza soluzione di continuità; non c'è una trama, ma un accumulo di immagini, una serie di fatti che danno una sensazione più che raccontare qualcosa, e questa parte gli riesce benissimo. Nella seconda parte quando i flashback prendono il sopravvento la storia acquista struttura e perde i poesia.

Le immagini non sono patinate, ma la fotografia è evidentemente ragionata date le differenze di stile fra le sequenze ambientate in ambienti e periodi diversi; c'è una cura dell'immagine soprattutto nelle ampie scene in esterni in Etiopia; c'è anche un pò di gestione espressionistica delle luci con il viraggio in rosso in alcuni momenti (per lo più di profondo stress, ma non solo).
A questo si somma una regia decisamente buona, con inquadrature molto variegate per le stesse sequenze e un uso del montaggio che è il vero fiore all'occhiello del film: ci sono montaggi secchi e scarni per dare velocità; c'è del montaggio rapido per dare ritmo (le domande che incalzano il protagonista durante la festa per il suo ritorno); c'è il montaggio delle attrazioni (l'omicidio dell'amico montato con l'abbattimento di una mucca); c'è la sostituzione/sovrapposizione, tramite stacchi rapidissimi (sostituzione/sovrapposizione di un ragazzo in fuga con il protagonista bambino o dell'amico morto con suo figlio).

In più c'è una serie di intenti e di significati piuttosto variegato. Forse l'argomento principale è sul concetto di identità; il protagonista torna per cercare una propria identità che gli viene continuamente negata dal fratello, quando torna nell'Etiopia degli anni '80 gli viene contestata la sua identità di comunista, quando torna in Germania subisce un'aggressione a causa della sua identità di nero; il discorso di identità e appartenenza è quello che segna la moglie tedesca ed il figlio dell'amico, ecc...
Ma c'è molto di più.
Inoltre nei lunghi flashback si riesce a mostrare un pezzo della storia recente dell'Etiopia senza scadere troppo nel classico film storiografico.

Il minutaggio è importante (circa due ore e venti) e il ritmo è altalenante, ma se ci si lascia prendere la noia non arriva mai.

Da sottolineare l'incipit che, come sempre nei film di Gerima, mostra un pezzo d'arte (in questo caso dei dipinti) con una voce fuori campo che declama.
Questo è un film che ha vinto a Venezia (ma ha vinto pure al FESPACO), quindi si può trovare pure in DVD. Un peccato che siano difficilissimi da recuperare gli altri film di questo autore.

PS: il titolo significa rugiada o rugiada del mattino, perché la rugiada è qualcosa di estremamente labile, ma anche pervicace e per quanto scompaia velocemente il giorno dopo torna sempre.

giovedì 13 novembre 2014

Deweneti - Dyana Gaye (2006)

(Id., AKA Osumane)

Visto qui.

Poi mi sono pure recuperato un cortometraggio della filmografia (non proprio vasta) della Gaye di cui ho appena visto il primo lungometraggio.
La storia di un ragazzino senegalese che gira per la città a chiedere l'elemosina in cambio promette preghiere per i più grandi desideri delle persone che gli donano soldi.
Quando avrà guadagnato abbastanza investirà i soldi per far scrivere una lettere a Babbo Natale per chiedere di esaudire i desideri delle persone che gli hanno fatto l'elemosina.

Fiaba sull'infanzia leggera, veloce, talvolta anche divertente, girata con semplicità senza particolare cura sulla fotografia (che invece ci sarà dall'opera successiva).
Vedendola senza conoscere la regista si direbbe che è un buon cortometraggio senza infamia e con qualche lode; sapendo cosa verrà fuori dopo si può giocare a trovare i punti di contatto con la filmografia successiva (un pò come si fa con "The big shave" adesso... anche se siamo su un altro livello).

L'unica cosa che si può obiettivamente aggiungere è che siamo davanti ad un corto che mostra l'Africa della miseria senza nascondere nulla, ma con un tono leggero.

Ascmat, Nomi: Lampedusa 3 ottobre 2013 - Dagmawi Yimer (2014)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (fuori concorso), in lingua originale.

Sulla carta era stato chiesto un documentario sulla strage dei migranti del 3 ottobre 2013 di Lampedusa, lasciando carta bianca al regista.
La scelta è caduta su una sorta di ricostruzione dell'accaduto in via indiretta, dapprima con inquadrature a fior d'acqua con macchina da presa storta che riprende le onde e una nave, passa poi a mostrare alcuni acquerelli ispirati a quegli avvenimenti a descrivere quanto accaduto, mentre una voce fuori campo lancia strali (frasi molto belle). Poi passa a mostrare il flashmob organizzato quest'anno per l'anniversario con 368 persone immerse nel mare di Lampedusa con un lenzuolo bianco a coprirli (la macchina da presa sta soprattutto sott'acqua anche in questo caso); intanto la stessa voce di prima elenca i nomi di tutti i morti dando la traduzione di quelli meno usuali (quasi tutti quelli in amarico).
Quello che vien fuori, più che un documentario (della strage come del flashmob), è un'opera d'arte visiva che ha gli stessi pregi e gli stessi difetti di questo tipo di opere; riesce nella prima parte a rendere piuttosto bene un mood, non quello della strage, ma quello di chi si imbarca; verso la fine, con l'elenco dei nomi e il flashmob in retroscena, si ottiene solo molta noia. Certo i nomi ripetuti riescono anche a rendere i numeri della strage, ma la ripetitività può facilmente disinteressare.

PS: l'immagine è una foto del regista, al momento non esistono foto decenti del corto.

Lazare - Zelalem Woldemariam (2009)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (fuori concorso), in lingua originale sottotitolato.

In un villaggio dell'Etiopia tutti gli uomini utili al lavoro vengono precettati per piantare degli alberelli che negli anni aiuteranno a evitare, o almeno a rallentare, la desertificazione. tra loro si aggiunge un bimbo povero, che viene convinto a partecipare in cambio dei soldi necessari per comprare del pane. Grande successo per il villaggio, ma il bimbo tornato davanti alla bancarella del pane si accorge di aver perso i soldi... SPOILER sradicherà tutti gli alberi per cercare la moneta perduta.

Cortometraggio esteticamente bellissimo, con una fotografica dai colori molto carichi e dalla macchina da presa molto dinamica che si muove molto; fa soggettive, inquadrature dall'alto, si muove alla ricerca dei soldi assieme al bambino; vengono costruite inquadrature buone e colorate. Data la massa di idee spiace che non ci sia stato più coraggio, si immagini la scena finale spinta di più sull'estetica e di un campo lungo...

Anche il contenuto vince; con un ritmo buono e un tono leggero e ironico veicola uno (o anche un paio) concetto elementare piuttosto amaro: non si può fare ecologia con la pancia vuota. Il titolo infatti, se non sbaglio, significa "per oggi", non c'è progettualità dove le esigenze sono altre e più importanti.

Da sottolineare che il Woldemariam ha avuto la fantasia (o la grande sfortuna) di far uscire il suo unico lungometraggio lo stesso anno e con lo stesso titolo di un documentario prodotto e doppiato da Leonardo Di Caprio...

mercoledì 12 novembre 2014

Des étoiles - Dyana Gaye (2013)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso), in lingua originale sottotitolato.

Una donna senegalese lascia, per la prima volta in vita sua, il paese per andare dal marito a Torino; il marito però ha lasciato l'Italia per cercare fortuna a New York, città che vede per la prima volta, dove conta di farsi aiutare per l'alloggio dalla zia della moglie; la zia però è partita per il Dakar per il funerale del marito che aveva lasciato e si porta dietro il figlio 19enne che va in Senegal per la prima volta in vita sua.

Dopo aver visto il bellissimo corto di Dyana Gaye, "Un transport en commun", qualche anno fa ci si chiedeva quando e come avrebbe realizzato il suo primo lungometraggio; ed ora eccoci, con un'opera stilisticamente agli antipodi dal cortometraggio (anche se alcuni contenuti sono in comune).
Fotografia desaturata, ambienti sui toni del grigio e dell'azzurro per Torino e New York, colori più terrei per Dakar; una macchina da presa tranquilla, che segue i suoi personaggi senza insistenza (d'altra parte è un film corale e seguirne uno alla Aronofsky sarebbe impossibile).
Si impegna di più sul montaggio lavorando di rimandi continui fra le tre storie separate, unendole (al di là con il legame emotivo fra i personaggi) con stacchi sul marito a New York quando questo viene nominato a Torino o con montaggio concettuale o per azioni contrapposte, su tutte sottolineo (perché è forse l'esempio il più scontato, ma anche il più evidente) il ragazzo statunitense che guarda l'oceano attraverso la porta del non ritorno mentre dall'altra parte l'uomo senegalese guarda lo stesso oceano in direzione opposta.

Nel film gli argomenti trattati sono diversi, è di fatto un film sull'immigrazione e il ritorno e mostri modi diversi di affrontarlo e nel farlo non scade mai nel cliché usurato del migrante come uomo che fugge dall'inedia e trova l'inferno dove pensava di trovare il paradiso; mostra invece diverse versioni e diverse possibilità mosse da motivi e necessità diverse. Costruisce il film con un linguaggio misto che si scambia continuamente, dal francese, all'italiano, dall'inglese al wolof (se non sbaglio). Si muove con un ritmo costante, ma costantemente rilassato, si prende i suoi tempi senza rallentare mai troppo, con scene forse non necessarie, ma che non affossano mai il film.
La cosa veramente affascinante però è come questo film parli di tute queste cose (l'immigrazione, il ritorno a casa, i contatti fra persone distanti, i legami personali, il rapporto con un paese sconosciuto, ecc..), ma lo fa con una trama inesistente, descrive di fatto un pezzo delle vite di tre personaggi principali, e una decina di secondari, caratterizzandoli tutti in maniera ottimale, ma senza far succedere niente di enorme; descrive semplicemente delle vite. Due di queste finiranno bene, una finirà in maniera amara, ma il tono generale riesce ad avere una leggerezza e una positività invidiabile.
Unico vero momento patetico è quando viene motivato il titolo nel dialogo fra i due italiani, dove compare, in un cameo, un Dente particolarmente supponente e radical chic; del cantate sono state usate un paio di canzoni durante il film.

Il cast è decisamente buono, ma sembra che gli attori protagonisti abbiano avuto l'ordine di mantenere una certa impassibilità (o tristezza forzata) ammazzandone un poco la recitazione; difatti riescono a spiccare molto di più alcuni dei comprimari.

Un film tanto bello quanto interessante che fa sperare ancora di più per le opere future della Gaye.


Il film è stato anticipato dal corto "Soko sonko" (AKA The market king) della regista kenyota Ekwa Msangi.
C'è la partita di calcio in tv, ma un uomo già organizzato ad andare dagli amici si ritrova fra la mani la figlia; la madre è malata e dovrà essere lui ad accompagnarla al mercato delle parrucchiere per sistemare i capelli; il giorno dopo sarà l'inizio delle scuole e tutti i ragazzi sono a quel mercato. Dovrà fronteggiare parrucchiere agguerrite, poliziotti, commercianti che lo rincorreranno come un ladro e pessime acconciature, ma riuscirà a portare a termine la missione.
Commedia leggera e ben ritmata nella prima parte, meno impegnata nel sostenere il tono nella seconda (anche se avrebbe diverse opportunità); ben recitata da tutti e dai colori vividi molto belli con una fotografia curata.
Niente di geniale, ma un'ottimo corto per idea e fattura.



martedì 11 novembre 2014

O espinho da Rosa - Filipe Henriques (2013)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso), in lingua originale sottotitolato.

Un avvocato viene avvicinato da una donna misteriosa, se ne innamora la porta a casa, a metà della notte però la donna vuole essere riportata a casa propria. Il giorno dopo le cosa viste la sera prima cambieranno prospettiva e l'avvocato si ritroverà incastrato in una caccia all'uomo soprannaturale dove dovrà, contemporaneamente, fare luce su un crimine del passato.

Basterebbe la faccia da schiaffi del protagonista (non in senso simpatico, ma proprio che prenderei a pugni) per spiegare perché odio questo film. Invece c'è molto di più.
Inizia come una storiella non particolarmente impegnata di questo leguleio tombeur de femmes; ma fin da subito le venature del perturbante si fanno sentire. O è il perturbante o è l'estetica da "presa diretta" da soap opera italiana (forse dovuta all'utilizzo della red camera).
Poi il film vira, si butta sulle tette; viene mostrato a lungo il rapporto sessuale tra i due protagonisti; e questo è uno die pochi momenti non noiosi del film. Poi si ricomincia con un thriller soprannaturale pieno di simbologie esasperate (la coppia di sposi che non si incontra mai!); un gusto notevole nel voler toccare ogni tema scabroso possibile (la pedofilia, l'incesto, l'aborto indotto, il sesso sotto le immagini sacre, Radio Maria in portoghese); un'intelligenza particolare nel far succedere le cose senza che ci sia un buon motivo (il poliziotto che va a casa dell'avvocato, perché? gli racconta tutto per 30 minuti, perché? il poliziotto che viene ucciso, ma poi no non è vero, va la che stavolta facendo le stesse cose lo uccido davvero; e tante altre); un ingarbugliamento di piani narrativi e per finire una lentezza esasperante.
A questo si può aggiungere che il regista decide che un finale non è abbastanza e ne attacca dieci in fila.
Inoltre il cast sembra oculatamente scelto per essere fastidioso nella pochezza della recitazione e la sceneggiatura enfatica ed esagerata.
...e dire che qualche momento lo azzecca, 5 secondi di inquietudine ad un certo punto e... ho già parlato della scena di sesso?
Terribile... e ha vinto pure un premio allo ZIFF... tra l'altro un premio cristiano...


Il film è stato anticipato da un corto, Twaaga di Cédric Ido.
Il corto mostra un bambino del Burkina Faso (durante il governo di Sankara) immedesimarsi sempre di più nei panni di un supereroe (preso da pezzi di fumetti americani, tradizioni locali, i discorsi del fumettaro e il presidente stesso); questa sua immedesimazione lo porterà ad aiutare il fratello maggiore senza considerare le conseguenze.
Per l'andamento della storia questo corto sarebbe un dramma, ma il tono è quello della commedia. Ritmo giusto, ironia (soprattuto all'inizio), qualche ripetizione di troppo, ma un'ottima fotografia, qualche buon uso della macchina da presa e l'inserto di diverse sequenze animate (quelle più fumettose sono molto efficaci, quelle fatta al rotoscopio hanno il difetto del mezzo espressivo utilizzato, cioè una maggiore sensazione di finzione). A questo poi va aggiunto anche un incipit serio e curato nei dettagli
Non un corto perfetto, ma un ottima realizzazione per una bella storia.

lunedì 10 novembre 2014

Mandela: Long walk to freedom - Justin Chadwick (2013)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (fuori concorso), in lingua originale sottotitolato.

La vita da Mandela dagli inizi come avvocato all'associazionismo per i diritti dei neri, la sferzata verso il terrorismo, la prigione, i contatti con de Klerk, la scarcerazione, la lotta contro la violenza e l'elezione.

Quando si fa un biopic il rischio è sempre essere didascalici; quando poi bisogna farlo di un personaggio larger than life il rischio diventa una garanzia (se non ci si chiama Sorrentino).
Il film è assolutamente ben costruito e scorrevole, impreziosito da una fotografia curatissima (tutto l'incipit nell'infanzia di Mandela rimane in mente a lungo); ma è decisamente didascalico.
A favore ha il fatto di non fare sconti al personaggio che incensa, mostra i suoi tradimenti ai danni della prima moglie e il rapporto burrascoso con la seconda, mostra gli attentati fatti da lui (a danni di strutture, mai di persone... almeno così appare dal film), l'estremizzarsi della violenza dell'ANC, la guerra civile ecc...
A fronte di questo l'aura del mito traspare fin da subito e il film non lesina in scene enfatiche e in momenti di grande sentimento o saggezza da parte del personaggio principale.
Ma quello che mi ha dato più fastidio è stato che nelle quasi 3 ore di film, la solita ansia di condensare tutto, ha fatto in modo che molte parti risultino frettolose, accelerate, se non addirittura che si muovano a salti con personaggi che reagiscono in maniera eccessiva o eccessivamente precipitosa.

Elencati tutti questi difetti il film rimane piacevolissimo, ben fotografato e può dare qualche delucidazione importante su una porzione della storia sudafricana.

PS: il protagonista è uno di quei rari attori che mi fanno dire, questa faccia non l'ho mai vista eppure dovrei conoscerla.

venerdì 7 novembre 2014

La spiaggia - Alberto Lattuada (1954)

(Id.)

Visto in DVD.

Un prostituta di Milano porta la figlia (parcheggiata in un collegio di suore) al mare in Liguria. Li sarà costretta ad alloggiare in un hotel costoso e gli altri villeggianti la considereranno una ricca vedova. La sua situazione economica però peggiora mentre la relazione con il sindaco del paese (cominciata fin dal viaggio d'arrivo) si farà sempre più stretta. In ultimo però la verità sul suo lavoro verrà alla luce.

Melodramma balneare all'italiana con una mamma che si strugge per la figlia e che si scontra, pura nonostante la professione, contro il perbenismo borghese. Con delle premesse come queste ci si mette pochissimo a fuggire la visione... però Lattuada decide che si può fare una commedia balneare schiacciando il pedale dell'esposto e del cinismo.
Qui tutto è alla luce del sole fin da subito, non solo il problema economico (che fa tanto persona buona), ma la prostituzione come unica fonte di reddito (che negli anni '50 non era cosa detta ad alta voce ovunque).
Ma a vincere davvero è il cinismo. Il personaggio del milionario è quello che si fa ricordare, la scena della premiazione dei castelli di sabbia è un capolavoro di amarezze senza speranza, ma soprattutto nel finale si spiega l'intera filosofia alle spalle, nella scelta fra i sentimenti e la pragmaticità (e si rende sopportabile lo spiegone finale proprio perché serve a girare il coltello nella piaga).
Non un film memorabile, ma un'opera con delle sorprese che non ci si aspetterebbe.

Il cast non mi ha entusiasmato. Se Vallone fa la sua parte con dignità, la Carol mi è sembrata troppo impostata, Bianco adatto a fare decisamente un'altro lavoro, si salvano solo i comprimari su cui troneggia un Carotenuto bravissimo e, per una volta, fuori dalle parti che dovrà recitare per il resto della sua carriera.

mercoledì 5 novembre 2014

La spia, A most wanted man - Anton Corbijn (2014)

(A most wanted man)

Visto al cinema.

L'agenzia di intellingence tedesca sta seguendo un individuo sospetto legato all'estremismo islamico/ceceno; verrà presto a sapere quali sono i suoi interesse e decideranno di sfruttarli; non è lui che vogliono, ma qualcuno di più grosso. Questo qualcuno lo stanno seguendo da molto più tempo, ma non è lui che vogliono, è qualcuno di più grosso.

"La talpa" ci aveva insegnato che la vera vita di una spia non è quella di James Bond, una spia è un dipendente pubblico molto simile a tutti gli altri (almeno di quelli che lavorano per la pubblica sicurezza), sono burocrati, devono discutere con il capo, devono affrontare gli scazzi privati senza che interferiscano con il lavoro. Qui siamo da quelle parti.
Le spie sono persone normali, che si fanno il mazzo, hanno reazioni emotive, sono rudi cavernicoli (gli europei almeno, mentre gli statunitensi sono stilosi e perfetti), sono frustrati e devono continuamente combattere per ottenere vantaggi e per battere le altre agenzie investigative con cui collaborano per obbligo non per volontà. In mezzo ai film di spionaggio quindi ci sono anche i soliti intrighi di palazzo che qui, pur essendo determinanti, rimangono spesso sullo sfondo.
In primo piano la vicenda principale; un lungo pedinamento di una persona sospetta senza avere nulla in mano che non porta a nulla se non il fatto di avere uno strumento in più per battere qualcun altro in un eterno gioco di scatole cinesi.

Dal punto di vista estetico... beh si ritorno ancora una volta a "La talpa" (se verrà prodotto un'altro film sullo stesso modello credo sia legale dire che ha inventato un nuovo stile se non un filone); la città di Amburgo è ripresa dai bassifondi o dalle strutture spigolose moderne o moderniste, gli interni sono spigolosi e geometrici (molto anni '70), i colori sono terrei con molte ventate di grigio; tutto torna a mostrare la realtà dal punto di vista più basso possibile. Qui le spie non shakerano Martini, ma battono la strada.
Quello che però si distanzia molto dal film di Alfredson è che qui a dirigere non c'è un rigido svedese molto formale, ma uno sporco americano disilluso e figlio anche lui della strada (si lo so, Corbijn è olandese, ma direi che lo possiamo considerare mezzo americano figlio della strada, almeno culturalmente), niente macchina da presa ortogonale e inquadrature precise e ragionate, qui si va di camera a mano, di inquadrature dall'auto, di riprese fatte dalle videocamere di sorveglianza, di inquadrature velate da teli di plastica.

C'è bisogno di parlare del cast? Ultimo film di Hoffman che è bravissimo (come è ovvio) ed è bellissimo vederlo recitare di fianco ad un Dafoe in parte e a una Wright che ormai si è cristallizzata nella parte della chiccosa doppiogiochista.

Se si riesce a tollerare un film scarno e diretto, realistico e con alcuni silenzi in più di quanto ci si aspetti (e se si riesce a sopportarlo per 2 ore), questo film non potrà non piacere.

lunedì 3 novembre 2014

L'ultima casa a sinistra - Wes Craven (1972)

(The last house on the left)

Visto in Dvx.

Due ragazze vengono rapite da un gruppo di balordi, quindi violentate e uccise; i rapitori cercano rifugio nella casa dei genitori di una delle due. Quando il cadavere verrà scoperto si scatenerà una folle vendetta.

Remake ufficioso de "La fontana della vergine" con un Wes Craven alle prime armi che decide di prendere di petto il problema dello splatter. Il problema è che a lui piace, ma evidentemente all'epoca era piuttosto contestato; quindi decide di prendere in giro la questione nella trama del film mentre nello svolgimento cerca di inserire tutte le sequenze che gli scarsi mezzi economici gli concedono. Di fatto la storia di Bergman diventa solo un pretesto per metterci qualche scena di abuso fisico e psicologico.
Il problema è che Craven vuole solo colpire, non ha un piano, né un obiettivo, né le capacità per fare altro. Passa più di metà film a mostrare il rapimento e lascia alla vendetta solo il breve finale; ma anche il lungo sequestro non offre idee entusiasmanti, si poteva mostrare gli abissi di crudeltà dei personaggi o le lotte interne al gruppo, invece entrambe le cose sono accennate, ma rimangono sullo sfondo. La vendetta finale è poi mal costruita, mal motivata e mal recitata.

Un progetto che poteva essere interessante, ma Craven vuole solo divertirsi a farne un manifesto dello splatter (tra l'altro piuttosto datato ormai) e non ci mette dentro nulla... ma questa in fondo è solo un'opera prima.