lunedì 31 dicembre 2018

Elegia di Osaka - Kenji Mizoguchi (1936)

(Naniwa erejî)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Per aiutare la famiglia (il padre pieno di debiti e le tasse universitarie del fratello), una telefonista diviene amante e mantenuta del capo; quando la relazione verrà interrotta dovrà trovare un altro uomo a cui attaccarsi, ma questo la denuncerà. Verrà rilasciata, ma la famiglia la obbligherà ad andarsene per il disonore causato.

Amarissimo film di Mizoguchi che mette subito in chiaro il pessimismo cosmico che lo caratterizza. Il mondo non è brutale, ma opportunista e il destino ama accanirsi; tuttavia Mizoguchi non è Ozu e la famiglia non è un porto sicuro, ma fa parte del mondo come ogni altra struttura sociale.

Questo film è piuttosto interessante per la regia perché anticipa fortemente quello che si vedrà con "La storia dell'ultimo crisantemo", considerato il capolavoro anni '30 del regista. Il film è pieno di piccoli piani sequenza, lunghe carrellate (soprattutto laterali), ampia gestione delle location e c'è pure un inserto teatrale(qui bunraku); ma c'è anche qualcosa in più rispetto al film successivo; moltiplicazione degli angoli d'inquadratura, abbassamento della macchina da presa, punti di fuga esterni alla scena e "filtri" tra l'obiettivo e i personaggi inquadrati (porte, finestre, scaffali, ecc...) oltre a un mostruoso gusto nella realizzazione delle inquadrature.
A livello estetico, dunque, è uno dei suoi film più belli del periodo, purtroppo soffre un poco di una trama piuttosto inconsistente; fortunatamente il minutaggio contenuto e una melodrammaticità non troppo enfatizzata riescono comunque a rendere gradevole la visione.

venerdì 28 dicembre 2018

Il cittadino illustre - Gastón Duprat, Mariano Cohn (2016)

(El ciudadano ilustre)

Visto in aereo, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Il fresco vincitore del premio nobel per la letteratura si trova in un momento di crisi; riconosciuto il suo valore da parte dell'establishement si sente un autore "comodo" e finito. Comincia a rifiutare ogni impegno finché non gli arriva l'invito da parte del sindaco della sua cittadina natale; un paesino sperduto dell'Argentina. Tornerà e rivedrà le persone conosciute un tempo che si riveleranno sempre più cariche di intenzioni e sentimenti negativi.

Un film tecnicamente ben fatto, ma dalla messa in scena semplice che punta tutto sul tono per dare un significato maggiore a una storia di discesa nell'inferno (dove l'inferno sono gli altri).
Il ritorno nel paese natale è una cavalcata grottesca che inizia con un'auto in panne e uno dei libri del neo-nobel usato come carta igienica; da lì iniza una cavalcata che di comico ha veramente poco, ma di ironia graffiante nei confronti delle persone più (apparentemente) innocenti che sfocia continuamente nel grottesco (già detto, ma va ribadito). Il tono nefasto prosegue verso il dramma quasi inverosimile (il pre-finale mi ha ricordato "The wicker man" per significato) senza che lo strappo fra l'ironia e la tragedia si senta mai, il film scorre perfetto fino alla fine.
Il finale vero e proprio poi getta un'ombra di dubbio su ttuto quello che si è appena visto. Trovata intelligente per chiudere un film difficile da concludere, ma che, sinceramente, non ne aumenta il valore.
Bravo e fondamentale per la riuscita, Oscar Martínez, teso fra una effettiva superiorità e una supponenza fastidiosa, ottimo nel mostrare spaesamento rimanendo, quasi, impassibile.

mercoledì 26 dicembre 2018

Il ferroviere - Pietro Germi (1956)

(Id.)

Visto in Dvx.

La storia di un ferroviere, tendenzialmente buono, ma dedico all'alcol che gli permette di affrontare nel peggior modo possibile, la gravidanza indesiderata della figlia, un incidente di lavoro con gravi conseguenze e la vita famigliare in generale, fatta più di assenze che di presenze.

Melodrammone neorealista di un Germi incredibilmente reazionario. Un film classicissimo nel portare verso una agnizione estrema in un finale drammatico e dolce insieme che sembra uscire da un romanzo ottocentesco. La cifra stilistica però è quella simil-neorealista che ambientazioni popolari e una galleria di personaggi semplici che della piccola borghesia sentono solo un lontano aroma.

Accusato, giustamente di essere troppo alla De Amicis, populista, retrogrado, con una morale già vecchia per l'epoca, ad una visione attuale porta dentro di sé tutti questi difetti con una tracotanza quasi fastidiosa. Curiosa anche la scelta di porre il punto di vista del figlio piccolo, interessante e ricca di opportunità, ma utilizzata solo per sfruttare qualche momenti drammatico e poi accantonata.

Nonostante i molti limiti il film riesce comunque a portare a casa il risultato con l'intimismo insistito (che, a me, colpisce sempre), ma soprattutto la psicologia del protagonista. Il padre-padrone della vicenda non si limita a essere una macchiatta buonista e neppure l'acolista imbruttito da film (fantastico poi trovare una così evidente accusa della dipendenza da vino in un film d'epoca), ma riesce invece ad avere ogni sfumatura nel mezzo e ad aggiungere quella dell'uomo amante del proprio lavoro, dell'uomo bistrattato dal destino, dell'uomo quasi anaffettivo, ecc...
Non un capolavoro, ma un film interessante che può valer la pena recuperare, soprattutto, per chi ama il melodramma.

PS: come al solito magnifica la spalla Saro Urzì.

lunedì 24 dicembre 2018

Paisà - Roberto Rossellini (1946)

(Id.)

Visto in Dvx.

Sei episodi ambientati durante la guerra di liberazione in Italia. A partire dalla Sicilia e sei episodi si spostano verso nord per terminare a Venezia.
Più che mostrare la guerra o i suoi effetti, sembrano voler mostrare i rapporti fra italiani ed esercito alleato; rapporti fatti di diffidenza, accettazione, incomprensioni. Il tema è assolutamente innovativo e interessante; ovvio che i nazisti siano i cattivi (...anche se poi tanto ovvio non è dato il fascismo) e i tanti film sul tema della convivenza con i tedeschi durante la guerra sanno di stantio, ma la convivenza con i liberatori (un esercito di persone culturalmente molto distanti, che parlano una lingua diversa, con intenti che non sono sempre gli stessi degli italiani e che devono rapportarsi con un popolo che fino al giorno prima era il nemico) dà spunti molto più interessanti e continua a rimanere un tema poco trattato.
Seppure gli episodi siano del tutto indipendenti il tema comune lega bene tutto e sembra una sorta di sviluppo della stessa trama, mostrando l'incremento di intimità fra i due personaggi collettivi, mostrando l'evoluzione dei loro rapporti.

Come sempre nei film a episodi la qualità è altalenante. Molto bello il terzo episodio, semplice, veloce, ma emotivamente denso; il quarto risulta uno dei migliori (una cora attraverso una guerra che non appartiene al protagonista e della quale importa solo indirettamente), ma anca una conclusione efficace; non di livello il quinto che si perde dietro il rapportarsi fra religioni diverse; gli altri buoni, con qualche ingenuità o qualche semplificazione eccessiva, ma ognuno raggiunge il suo obiettivo.
Pessima la voice off da Istituto Luce che introduce i vari episodi.

Tutto sommato direi che questo è un film più importante (anche come documento storico) che non ben realizzato, più intelligente che indimenticabile.

venerdì 21 dicembre 2018

The nice guys - Shane Black (2016)

(Id.)

Visto in aereo.

Un investigatore privato viene assunto per ritrovare una ragazza, ma un altro tipo di libero professionista (un tizio che viene assunto per pestare le persone per conto terzi) lo spinge a smettere le indagini; ma le cose cambiano in fretta e il secondo si unisce al primo all'inseguimento della ragazza perché, a quanto pare, c'è un mistero più grande che aleggia.

Classico buddy movie scritto da Shane Black con personaggi autodistruttive, dalle situazioni famigliari dolorose, macchine che entrano in casa e scene in vasca da bagno. Si insomma, Shane Black riscrive, per l'ennesima volta lo stesso film, continuando con quella passione per l'hard boiled infarcito di ironia che è ormai una cifra stilistica. Che sia da condannare per mancanza di idee e continua ripetizione di sé stesso... sarei abbastanza d'accordo se stesso creando film con lo stampino di un genere più diffuso, il noir grottesco non ha molto seguito e non ha epigoni così competenti; condannare Black perché ripete lo stesso archetipo è come insultare Tom Waits perché fa sempre lo stesso tipo di musica; se lui smettesse chi rimarrebbe a colmarne il vuoto?

Se dunque siamo dalle parti del di poco precedente "Kiss Kiss Bang Bang", un buddy movie sgangherato e ipercolorato totalmente californiano, ma al contrario del precedente, qui la storia (sempre intricatissima e chandleriana) è più concreta, meglio condotta e meglio scritta, senza salti o strozzature, con un'ironia continua e ben dosata. Ovviamente poi ci sa fare con le caratterizzazione dei personaggi, riuscendo in maniera efficace a dare un minimo di spessore anche ai vari caratteristi che si muovono in secondo piano, ma che danno credibilità a corposità al film.
La regia è sempre la stessa; tutta giocata su una fotografia colorata (in questo caso piuttosto agée), ben ritmata con il montaggio e un'attenzione maggiore per i dettagli di scena (vestiti, oggetti e location) che per la macchina da presa in sé.
Un film ovviamente ottimo per idee e ottimamente realizzato.

PS: galleria di attori tutti in parte e ben selezionati, unica pecca Kim Basinger, messa lì più per l'idea di averla in quella parte che per reale merito.

mercoledì 19 dicembre 2018

Labirinto di passioni - Pedro Almodóvar (1982)

(Laberinto de pasiones)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.


Il figlio del re di una nazione esotica si trova a Madrid in libera uscita e si innamora della figlia ninfomane di un ginecologo. Attorno a queste due figure si inseriscono una moltitudine di personaggi e personaggetti, spesso non utili alla trama, che descrivono un mondo fieramente queer, incredibilmente vasto e interconnesso (nella parte iniziale si impiega non poco a capire chi è il protagonista) e ovviamente vitale e scanzonato.

Al suo secondo film Almodovar prosegue sulla linea del primo, ma dando una spolverata di concretezza in più con una trama, anche se molto debole.
L'effetto finale, però, al contrario di quanto mi sarei aspettato è peggiore.
La regia continua a latitare del tutto... e come me ne sono fatto una ragione con "Pepi, Luci ecc..", avrei potutto soprassedere anche qui; ma la trama imposta a questa opera è di un pallore inaccettabile, soprattutto considerando che ammazza in maniera inguaribile la vitalità che era la spina dorsale del primo film. Qui, per avere maggiore concretezza, si sceglie di uccidere lo spirito iconoclasta di "Pepi" e non basta inserire una lunga sequenza cantata con una canzone funky cantata dallo stesso regista o mettere gag su diarrea e sesso, è proprio l'animo che è completamente diverso.

Inefficace, ma comunque interessante (per dietrologi), in quanto per la prima volta si vede il grande amore del regista per il melò; il rapporto fra i due protagonisti sembra essere preso di peso da un feuilleton d'altri tempi.

lunedì 17 dicembre 2018

Hunger Games: il canto della rivolta, Parte I - F. Lawerence (2014)

(The Hunger Games: Mockinjay - Part I)

Visto in Dvx.


La rivolta è iniziata, a Katniss non è richiesto di essere parte attiva agli scontri, ma deve esserne il simbolo, deve creare consenso tramite video promozionali e visite "pubblicitarie". Dall'altra parte, però, Peeta, rimasto a Capitol, verrà sfruttato allo stesso modo.

Al terzo capitolo Huger Games decide di pigiare con ancora più forza sulla mitopoiesi e lo fa con un'intelligenza e un'ambiguità ancora superiori a quelle dei primi due film.
Katniss rimane dubbiosa su tutto, titubante nell'accettare gli oneri della fama e a diventare l'emblema della rivolta da lei scatenata. Di fatto la prima protagonista di un franchise milionario ad essere artefice involontaria di tutto e ad essere restia a prendersi le proprie responsabilità.
Inoltre la mitopoiesi passa attraverso ambiguità e patti interni tutta'altro che limpidi, mentre le scelte fatte in nome di un bene superiore vengono chiaramente messe in discussione dalla propaganda di Capitol tutt'altro che infondata.
Allo stesso tempo, questo lungo capitolo fatto di advertising mostra il lato oscuro del marketing, la creazione del nulla in uno studio di posa, lo sfruttamento di simboli semplici e immediatamente riconoscibili, le visite a ospedali o zone di massacri per avere maggior realismo ecc... Un discorso ampio che, anche guardato in maniera molto limitata, quantomeno parla del modo di creare immagini e di fatto del cinema stesso.

A livello estetico si fa un passo avanti verso quell'impronta sovietica nel popolo massa che, curiosamente, viene applicata sui buoni (cosa non scontata per un film USA).

A tutto questo si prosegue con una delle storie d'amore adolescenziale tra le più originali di sempre, mentre al già nutrito cast anti-mainstream si unisce una Julianne Moore non proprio fondamentale, ma che fa davvero piacere vedere in scena. Ovviamente la parte del leone la fa sempre la Lawrence, anche se, in questo episodio, mi è sembrata meno capace che nei due precedenti, ma sempre lavorando a una media superiore a molti suoi colleghi.

venerdì 14 dicembre 2018

Cry Freetown - Sorious Samura (2000)

(Id.)

Visto qui.

Il regista di questo documentario di circa 30 minuti era un montatore di video per UNICEF, si ritrovò addosso la battaglia di Freetown (evento finale... più o meno, della lunga e terribile guerra civile sierraleonese); decise di scendere in strada e riprendere quello che successe. Montando il tutto il documentario che ne risultò venne reso pubblico dalla CNN e da lì i premi furono ad un passo.

Data la storia particolare non stupisce di trovarsi di fronte a un documentario che è più un documento, mostra eventi particolari e minimali (con troppa enfasi, blame insistiti e un portagonismo del regista che sa di tracotanza più che scelta di stile) che rimangono fini a sé stessi, non spiega gli eventi, la situazione più ampia o l'intera guerra, non spiega neppure la battaglia nella capitale; si limita mostrare immagini truculente che rimangono importanti quanto il filmato di Zapruder, ma con la stessa qualità che rimane costantemente a zero.

Niente più che un documento, solo immagini, nessun valore aggiunto, nessun chiarimento.

mercoledì 12 dicembre 2018

Il fantasma della libertà - Luis Buñuel (1974)

(Le fantôme de la liberté)

Visto in Dvx.

Film senza una trama, ma con una serie di episodi collegati dai vari protagonisti che si incrociano per poi lasciare spazio ai personaggi dell'episodio successivo.
Una serie di sketch disgiunti uniti dal ritmo della messa in scena, più che dal fluire di una storia; un lavoro simile a "La via lattea" per struttura e, in parte, per intenti (là era la critica alla religione, qui una critica alla società borghese e all'autorità, in parte anche ecclesiale). Ma il vero valore aggiunto è la declinazione dell'intento dissacratorio in chiave ironica che rende tutto meno urlato dal pulpito e più godibile.
Un surreale divertissement ricco di idee e di intuizioni (con altre francamente più scontate) splendidi agganci fra le sequenze. Un divertissement che intrattiene perfettamente più che far ricordare il film in sé (anche se diverse sequenze sono cult e molte sono davvero ben pensate e realizzate).
Il film è infine coronato da una galleria d'attori (usati per lo più in piccole parti) da fare invidia.

Interessante inoltre l'idea che il segmento del killer (che dopo aver ucciso diverse persone ed essere stato condannato, se ne va fra la folla festante) sia l'allegoria della carriera di Buñuel che, dopo aver passato decenni a destrutturare e distruggere, venne coronato da un Oscar.

lunedì 10 dicembre 2018

BlacKkKlansman - Spike Lee (2018)

(Id.)

Visto al cinema.

La storia vera di un infiltrato nel KKK... nero. Iniziato tutto con una telefonata e mantenuto in piedi da un collega bianco (ebreo) negli incontri dal vivo durante i turbolenti anni '70. Il confronto con la comunità afroamericana in subbuglio (che odia la polizia), con la politica che cerca di dare un aspetto pulito al razzismo vecchio stampo e i rapporti con i colleghi alle prese con il primo nero tra la fila delle forze dell'ordine.

Spike Lee al suo meglio crea film compattissimi e dal ritmo esaltante ("Inside man") anche se predicatori o morilazzanti o semplicemente sociali ("Fa la cosa giusta", "La 25a ora"). Al suo peggio realizza film interessanti, ma sfilacciati e torstuosi ("Bamboozeled") o del tutto fuori fuoco ("Lei mi odia")... e non ho mai visto "Miracolo a Sant'Anna" e non voglio parlare di "Oldboy".
Qui, finalmente, Lee torna in fase crescente della sua carriera e porta a termine un film con molti difetti, ma ben costruito; in cui la critica sociale (e razziale) non affoga la trama e i personaggi (il vero problema di "Bamboozled"); in cui la storia ha un suo ritmo, un suo sviluppo e una sua autonomia; in cui la molta carne messa al fuoco riesce a essere sfruttata quasi interamente (il co-protagonista che ritrova una sorta di identità culturale ebraica solo quando dovrà fingersi membro del KKK è una dei pochi argomenti buttati nella mischia senza uno sviluppo).
Per una volta Lee si mette al servizio del film creando una storia convincente e riuscendo a mettere i suoi topos (dalla passione per il cinema, Griffith, ai diritti civili) all'interno della vicenda e non appiccicati sopra.
La regia è, al solito, ottima, più curata nella fotografia (anche questa una cifra riconoscibile) che nel montaggio (comunque di livello).
Unico neo il genere. Il film comincia con l'atmosfera della commedia e un annuncio di comicità che non sarà mai realizzato e vira sempre più verso il dramma dando la sensazione di non aver mantenuto le promesse fatte.

venerdì 7 dicembre 2018

L'uomo che uccise Don Chisciotte - Terry Gilliam (2018)

(The man who killed Don Quixote)

Visto al cinema.

Un regista deve girare una pubblicità con protagonista Don Chisciotte; per farlo pretende di utilizzare come location la zona della Spagna dove realizzò un suo primo film indipendente 10 anni prima. L'occasione lo portarà a re-incontrare alcune del suo passato che lo porteranno in un viaggio lisergico fra fantasia e realtà.

Come spesso nel cinema di Gilliam l'intera vicenda è la descrizionedi un uomo sospeso fra due mondi, fra quello reale e quello allucinato causato dallo scollamento verso la realtà. Come (un pò meno) spesso nel cinema di Gilliam il film si muove con il passo del road movie, con sequenze slegate che fanno entrare sempre di più nel conflitto visionario fino ad un finale dove niente saarà chiaro prima dello scioglimento vero e proprio.
Come talvolta nel cinema di Gilliam la vicenda appare un patchwork di situazioni, un collage lungo (di minutaggio) e con continue accelerazioni e marce indietro che rendono la vicenda sempre meno appassionante, con in più l'aggravante (in questo caso) di non avere alla base un'idea mai raccontata (almeno con quella forza) come per "Paura e delirio a Las Vegas".

Si, insomma, tecnicamente un film ben realizzato, location fantastiche e un cast perfetto (la regia di Gilliam non discute neppur ein film meno riusciti di questo), eppure non mi è piaciuto...
ma improvvisamente un'epifania, tutto questo l'ho già vissuto la prima volta che vide proprio "Paura e delirio" e solo le visione successive riuscirono a darmi la visione d'insieme, una calvacata folle che nella struttura stessa cercava di ricreare il costante squilibrio dei protagonisti (oltre a un film divertente, profondo e realizzato come pochi altri). il mio dubbio, quindi, è se mi trovo di fronte a un film simile che apprezzerò e capirò a fondo dalle prossime visioni.

mercoledì 5 dicembre 2018

Treni strettamente sorvegliati - Jirí Menzel (1966)

(Ostre sledované vlaky)

Visto qui, in lingua originale sottotitolato.

Durante l'occupazione nazista della repubblica Ceca, un ragazzo viene assunto come ferroviere. la vita del ferroviere è invidiabile, poco lavoro, colleghi simpatici e l'occasione di fare sesso... purtroppo il ragazzo soffre di eiaculazione precoce e, dopo aver tentato il suicidio, verrà introdotto ai piaceri del sesso, da una donna della resistenza. In preda all'entusiasmo cercherà di far saltare un treno utile ai nazisti.

Incredibile come io sbagli sempre a giudicare un film. Se non ne leggo nulla e mi lascio trasportare dall'intuito fraintendo sempre. Quello che mi aspettavo essere un pesante film di guerra con melodramma è invece una divertente ed efficace commedia. Anzi, ancora più leggero di una commedia; è una fiaba piena di humor (e sensualità), una commedia si, ma incredibilmente tenera e delicata, un film di formazione sentimentale e umano realizzato con gli occhi di un ragazzo pieno di vita. Riesce dunque a trasmettere tantissimo intrattenendo con divertimento e riuscendo anche a cucire insieme un finale tragico senza far perdere punti, ma rimanendo quasi scanzonato.
Un bignami su come sia possibile rapportarsi con la vita in ogni circostanza, con l'ottusa passività del capostazione o con la scanzonata leggerezza di Hubicka.
Il tutto con momenti di lieve surrealtà (le reazioni al suicidio, la denuncia della madre della ragazza per aver visto un timbro sul sedere della figlia, ecc...) che lo fa sembrare un film di Anderson o di Pálfi... se, questi ultimi due, fossero meno pretenziosi.

Una fotografia pulittissima e una regia (un'opera prima!) tutta intenta a costruire scene perfette, di totale equilibrio o appositamente sbilanciate con oggetti o persone poste asimmetricamente da un lato dell'immagine.

Attori alla loro prima esperienza perfettamente utilizzati; gli occhi spiritati o impassibili del protagonista sono perfetti per il suo personaggio.

lunedì 3 dicembre 2018

Titanic - James Cameron (1997)

(Id.)

Visto al cinema.

Il film evento degli anni '90 con incassi maggiori anche del (successivo) Matrix; un esperimento sociale di fidelizzazione delle regazzine più che una mera sperimentazione artistica. Giustamente riportato al cinema per il ventennale... e io per la prima volta me lo vedo.

All'epoca, allergico al battage puntato tutto su un target molto preciso dell'epoca (ma che presto esondò colpendo un pubblico molto più diffuso) decisi, orgogliosamente e non senza un'enorme dose di narcisismo che non lo avrei mai visto. Ho portato pazienza fino ad ora, ma l'idea di vedere un film del genere al cinema, forse per l'ultima volta mi ha convinto. E mi è piaciuto, molto.

Ad uno sguardo attento, il film è un perfetto concentrato di quel decennio, suddiviso in tre parti (non equilibrate):
Il film che mostra il successo della scienza e della tecnica (tutta la prima parte con le immagini del Titanic originale) che è un'immagine perfetta dello zeitgeist di quell'epoca (di cui "Jurassic Park" rappresenta il capolavoro).
Il film d'amore impossibile che... beh è tipico di ogni periodo del cinema, ma che non demorse neppure nei 90s.
Il disater movie!
Ecco, quello che più mi ha colpito è che Cameron attira un pubblico specifico con la storia d'amore, lo seduce fino a convincerlo ad ossessionarsi al film, poi gli butta addosso più di un'ora di distruzione totale con patemi d'animo che "Twister" non potrà mai raggiungere.
E il comparto tecnico è fenomenale. In epoca selvaggia per la computer grafica la (lunghissima) sequenza finale è incredibile, la regia gestisce la tensione in maniera impeccabile e, immagino, per chi all'epoca ancora non sapesse nulla l'impressione che i due potessero non farcela fin dentro la nave era palpabile.

Comparto estetico è, ovviamente, anche migliore, con una cura nella ricostruzione degli interni e dei costumi come solo la Hollywood piena di soldi si può permettere.

venerdì 30 novembre 2018

Hunger Games: la ragazza di fuoco - Francis Lawrence (2013)

(The Hunger Games: catching fire)

Visto in Dvx.

Dopo aver vinto gli Hunger games dell'anno precedente con un colpo di mano che ha insinuato il tarlo della rivolta, katnyss viene assoldata dal governo per un giro di rappresentanza nei vari distretti dove dovrà mostrarsi connivente. Lo spettacolo, nonostante l'impegno, non funzionerà. Per sbarazzarsi di lei, il governo, organizzerà degli Hunger Games speciali dove si scontreranno solo i vincitori delle passate edizioni.

Al secondo capitolo della saga il film guadagna in una sceneggiatura con più colpi di scena e movimenti di trama che permettono di mantenere ancora alto il ritmo e, pur senza inventare più nulla (la potenza del massacro per divertimento è ormai affievolita), mantiene un certo grado di originalità. L'originalità è tutta negli elementi seminati nel primo film; la doppia storia d'amore/affetto della protagonista che comincia a diventare più strutturata, ma soprattutto la creazione di un'eroina.
Perchè in effetti tutto il film (anzi la saga), parlano della mitopoiesi, di come una ragazza diventi un vessillo di una ribellione nonostante a lei non importi molto della lotta, ma persegua solo obiettivi personali (certamente generosi, riferiti alle persone amate, ma comunque per il proprio bene); magnifico in questo senso il costante spaesamento della Lawrence, ma ancora di più tutta la prima mezzora in cui lei collabora volontariamente con il governo incrementando però la propria fama di rivoluzionaria. Che io ricordi, mai un'eroina è stata così ancti eroica e mai un'eroina è stata così passiva.

Il comparto estetico vive completamente delle scelte fatte nel primo capitolo, mentre il cast sembra voler giocare d'accumulo, dopo i Sutherland e i Tucci già presenti nel primo, ci aggiungono un insperato Philip Seymour Hoffman. Nel mentre la Lawerence continua con una recitazione incredibile che culmina con una primissimo piano finale tra i più convincenti della storia del cinema.

Il film, ovviamente, perde molto nel non essere un capitolo finito, con una storia verticale sufficiente per reggersi da solo come invece era il primo.

mercoledì 28 novembre 2018

L'odio esplode a Dallas - Roger Corman (1962)

(The intruder)

Visto in Dvx, in lingua originale.

A Dallas dieci ragazzi di colore vengono ammessi, per la prima volta, in una scuola peer bianchi; la posssibilità è data da una legge che tutti sembrano essere intenzionati a seguire anche se nessuno sembra apprezzare. Un uomo arriva in città con il preciso intento di fomentare la folla per riuscire a far abolire la legge a colpi di protesta popolare e sotterfugi.

Eccezionale film di Corman, per la prima volta (per mia esperienza) nei panni dell'autore politico che tocca un tema all'epoca attualissimo, ma che, nel contempo, precorre alcuni dei fatti (prevedibilissimi) che succederanno in Mississippi.

Il film si pone per essere il migliore della filmografia del regista. Una sceneggiatura solida che induce lo spettatore a seguire le vicende di un protagonista negativo e viscido. Un climax ben modulato che alterna le vicende private a quelle pubbliche. Una serie di scelte di casting perfette; ogni singolo personaggio ha la faccia e il fisico adatto, tutti sono in paerte... la qualità delle recitazione un pò meno; ma Shatner è una scelta magnifica, affascinante, energetico, gigioneggia in maniera perfetta lavorando sullo stare sopra le righe senza mai cadere (solo in paio di momenti in maniera eccessiva) dando corpo a un personaggio che riesce a comunicare negatività con un sorriso o con il suo continuo tirar su di maniche.
Infine c'è la regia; molti primi piani che danno spazio agli attori (Shetner soprattutto) di dare il meglio, alcuni carrelli, inquadrature dal basso e una scena madre, quella del discorso pubblico, a metà fra il monologo e il dialogo fatto da un campo/contro campo con la folla.
La fotografia, nelle immagini trovate su internet sembra essere precisa e pulita, purtroppo la versione che ho trovato è piuttosto malmessa e non è possibile giudicarla.
L'unico neo è il finale, uno scale down troppo rapido e troppo poco credibile che spreca tutta la tensione accumulata; con una quindicina di minuti in più sarebbe potuto venire fuori un capolavoro.

L'impegno sociale del film sembra essere distantissimo dalle produzioni sci-fi anni '50 o dal filone alla Edgar Allan Poe di quegli stessi anni, ma rispecchia la stessa sfrontatezza nel voler toccare ogni tema che salti in mente al regista e la sua precisa volontà di cogliere lo zeitgeist del momento che si stava vivendo (che negli anni '70 lo porterà alla più onesta e sfacciata exploitation).
Il film fu accolto malissimo, il fratello del regista (qui produttore) fu accusato di comunismo e, a conti fatti, fu l'unico fiasco della carriera di Corman.

lunedì 26 novembre 2018

Bed time - Jaume Balagueró (2011)

(Mientras duermas)

Visto in DVD.

Un portiere di condominio servizievole e gentile (e depresso), ama, in realtà, vedere la gente soffrire; mantenendo una facciata pulita si impegna quotidianamente per peggiorare la vita dei condomini.
Detto così è cosa di poco conto, ma dire di più sarebbe spoiler; anche se in quasi tutte le immagini si capisce uno dei punti fondamentali...

Thriller malatissimo di grande stile ed efficacia. Comincia con una calma olimpica giocando con le percezioni dello spettatore e smontandole tutte senza dare nessun elemento per capire le motivazioni, ma ancora di più, fin dove si spingerà.
La sceneggiatura è semplice, ma congegnata alla perfezione e da la possibilità di creare senquenze incredibile; possibilità che Balagueró coglie al volo, come nella scena in cui il portiere rimane bloccato dentro l'appartamento della ragazza (perfetta per la tensione continua e per la capacità di far parteggiare per il protagonista che già si è imparato ad odiare).

Finalmente dismessi i panni del regista di found footage, Balagueró, può finalmente dimostrare di saper essere elegante e deciso e capace di creare un film dal pacchetto estetico adatto alla storia raccontata e semplicemente preciso.

Ottimo anche il cast che sembra totalmente in parte con una menzione d'onore per Luis Tosar che recita per sottrazione (non per moda, ma perchè richiesto da un personaggio che si nasconde dietro un falso sorriso) riuscendo a far trasparire i suoi reali sentimenti con un solo sguardo trattenuto.

Il film regge benissimo per tutta la sua durata con momenti apertamente weird e altri di pura tensione; con l'aggiunta di rendere sempre credibile una storia che di credibile ha ben poco e di far empatizzare con vitteme realmente innocenti. Il finale è un anti climax forse un pò troppo spinto, ma assolutamente non tranquillizzante o consolatorio, anzi.
Inoltre il film presenta uno degli omicidi più efficaci (per effetto disturbante sullo spettatore).

venerdì 23 novembre 2018

Anna Karenina - Clarence Brown (1935)

(Id.)

Visto in Dvx.


Seconda versione cinematografica del libro di Tolstoj e seconda versione interpretata dalla Garbo (la prima, degli anni '20, era muta).
Personalmente sono un amante dei melodrammi dagli anni '50 in poi, pieni di agnizioni, sentimenti trattenuti e scene madri; mentre sono piuttosto allergico a quelli degli anni '30, più stucchevoli, enfatici e banali e, solitamente, invecchiati male.
Per questa versione di Anna Karenina i presupposti erano dei peggiori; la Garbo veniva spesso usata per i film più reazionari possibili (ancora soffro nel nominare "Grand Hotel" che pure aveva degli spunti buoni). Ecco i difetti supposti sono esattamente quelli che il possiede, ma vengono tutti contenuti in due o tre scene; gli amoreggiamenti sentimentali o le sofferenze dei due amanti insieme vengono motlo contenute in favore della battaglia solitaria della protagonista, momento in cui il film regge molto meglio.

La Garbo è indubbiamente brava a giocare di negazione, ma più che dal treno, viene ammazzata dal doppiaggio italiano che appiatisce e rende la sua performance più banale.
La regia classicheggiante tenta però un dinamismo lodevole; cerca l'nquadratura inusuale per intrudurre alcune sequenze (la partita di croquet) o per rendere più chiaro l'avvenimento inquadrato (il matrimonio) e fa un uso contenuto, am entusiasmante, del dolly e dei carrelli (si veda l'inutile, ma bellissima seuqenza el banchetto inziale o la bellissma e utile camminata di Anna sulle scale mentre lascia la casa).
I personaggi sono macchiettistici e la storia non rimane fedele al libro (cosa non fondamentale), ma incredibilmente il film regge benissimo e la visione riesce a rimanere un'esperienza tra il paicevole e l'ottimale nonostante tutto il mio razzismo.

mercoledì 21 novembre 2018

Two sisters - Kim Ji Woon (2003)

(Janghwa, Hongryeon AKA A tale of two sisters)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Due sorelle tornano nella casa paterna dopo un ricovero. Con loro vivrà anche l'odiata matrigna che, a onor del vero, sembra tentare davvero di ricucire il rapporto, ma la testardaggine di tutti e i problemi mentali che sembrano avere tutti renderanno i rapporti sempre più tesi... e l'impressione che ci sia anche qualcun altro nella casa si farà sempre più insistente.

Film coreano fatto di twist plot (almeno due) dosati nella maniera standard per l'oriente, e cioè ammazzando il movimento in tre atti della sceneggiatura a cui siamo abituati rendendo semplicemente imprevedibile il finale (non tanto per la svolta, quanto per il modo e i tempi con cui ci arriva).

Il pacchetto è, come sempre in questi casi, perfetto; con una location bellissima  e adatta (una casa barocheggiante e gigantesca), una fotografia nitida, attori belli e distanti e vestiti pulitissimi; un insieme perfetto per ospitare il male e l'oscuro e ancora migliore per essere sporcato con il sangue.

Il punto fondamentale è, ovviamente la trama. Non si tratta di un horror anche se flirta con il genere; personalmente ho trovato efficace per suspense solo la scena del dopo cena con gli amici epilettici (assolutamente ben realizzata con continui cambi di prospettiva e la regia che gioca con le aspettative del pubblico). Il resto del film è a metà strada fra il dramma familiare e il thriller psicologico.
Il problema a mio avviso è che, un film del genere, con la sua vera forza nella trama che ribalta la situaizione per almeno due volte, deve essere perfetto nel descrivere ciò che accade; la storia, invece, mi è parsa piuttosto confusa, tutti gli elementi del finale sono rintracciabile, ma tirare le fila nel dettaglio è un lavoro più complicato di quanto non dovrebbe.

lunedì 19 novembre 2018

Bunny Lake è scomparsa - Otto Preminger (1965)

(Bunny Lake is missing)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Una coppia di fratelli americani si trasferiscono in Inghilterra, con loro la figlia di lei; il primo giorno di asilo la  bambina scompare. Nonostante le ricerche sembra che nessuno l'abbia mai vista (compreso lo spettatore); le indagini, quindi, cominciano a cambiare corso.

Thriller psicologico affascinante per il ritmo rilassato e la gestione dei tempi, oltre che per i continui cambi di prospettiva che sono il vero punto di forza.

Preminger alla regia porta avanti il suo solito stile fatto di piccoli piani sequenza e un uso smisurato del dolly che dona dinamismo anche alle continue scene in interno, da profondità alle inquadratura, chiarisce la geografia degli spazi e verticalizza l'andamento dei personaggi. Una regia che è sempre gustosa, ma che in questo caso diventa magnificamente funzionale per la gestione degli spazi; la scuola è piccola e stretta, ma su molti piani e con molte stanze, i movimenti di macchina da presa creano un ambiente claustrofobico e gestiscono gli interni come un labirinto dentro cui si muovono personaggi sempre al limite fra normalità e magnifica weirditudine.
Preminger però, assume la lezione di Hitchcock, e gestisce il tutto con un ritmo calmo, ma spietato e si cala perfettamente nel contesto, sfruttando l'ambientazione infantile e dando all'intero film il passo della favola nera piuttosto che dell'horror puro (le continue canzoni e musiche infantili, il negozio di bambole di notte, la fuga dall'ospedale e lo showdown finale).

Il vero difetto si trova nel finale esagitato e non totalmente credibile. Perfettamente in linea con quanto accaduto fino a quel momento e con un twist a effetto, rimane però un'esagerazione.
Lynley mattatrice che passa da normalità a follia in maniera perfetta, Olivier contenutissimo che sparge autorità e autorevolezza (e magnetismo) con la sola presenza.

PS: titoli di testa eccessivi, ma originali, di Saul Bass.

venerdì 16 novembre 2018

Il caso Mattei - Francesco Rosi (1972)

(Id.)

Visto in Dvx.

La vita (professionale) di Mattei, presidente dell'ENI, viene ripercorsa a ritroso, a partire dalla morte in un incidente aereo; da lì, con una linea temporale spezzettata da continui movimenti in avanti e indietro nel tempo e con una linea narrativa interrotta da inserti "di reprtorio" (che spesso di repertorio non sno) interviste, momenti apertamente metacinematografici, viene riassunto il personaggio. Il Mattei di Rosi è un uomo solido, sicuro e copmentetne fino allo sfinimento, il classico eroe buono che combatte contro tutti a rischio per la propria vita per il bene, in questo caso, dell'Italia.
Forse in questo c'è l'unica vera pecca del film, si tratta di un film a tesi che non vuole mostrare il dibatutto personaggio Mattei, ma ne crea uno a immagine e somiglianza di quelle idealizzato dal regista; dopo questo film non vi sono dubbi sulla positività del presidente dell'ENI, così come non vi sono dubbi che il suo incidente aereo non fu molto accidentale.
Tuttavia si tratta di un film a tema quasi dichiarato e la via per percorrerlo è la migliore, non la mera santificazione, ma la commistione di mezzi (il documentario, l'intervista, la fiction) per arrivare all'obiettivo rende il tutto più digeribile.
E qui si arriva invece alla grande idea del film, un'opera di fiction che è un  film inchiesta basato su alcuni fatti e molte ricostruzioni; un film che utilizza gli stilemi propri del documentario (le interviste, il regista che interviene all'interno del suo film, immagini di repertorio, titoli dei giornali) legate insieme da lunghe sequenze di fiction utili a ricostruire pezzi di narrazione mancante, ma in molti casi, utili solo alla creazione del mood (si pensi alla moglie assalita dai fotografi all'inizio, così come l'intero incipit con il grattacielo che si sveglia o l'aereo che cade). La commistione di generi sembra funzionare perfettamente rendendo affascinante ogni passaggio, con giusto un lieve eccesso nell'intrvista doppiata al giornalista americano verso il finale.
Rosi non si tira indietro alla costruzione di immagini ad effetto (le inquadrature con le magnifiche fiammate che fanno scappare le donne in pianura padana o quella che colora i volti delle persone nel deserto) e affida la parte di fiction a un Volontè (scegliere questo attore è sempre stata una precisa decisione politica) al solito magnifico, ma sorprendente per misura (un altro merito del regista suppongo).
Un film magnifico, sorprendnete ed estremamente efficace, che avendo tutte le sue intenzioni nel contenuto non dimentica la forma, ma anzi la sfrutta in ogni modo per ottenere il massimo dalla sceneggiatura.

mercoledì 14 novembre 2018

Terra e libertà - Ken Loach (1995)

(Land and freedom)

Visto in DVD.

Anni '90, un anziano inglese muore, la nipote scopre, nelle sue vecchie lettere, la storia del suo viaggio in Spagna per combattere contro Franco durante la guerra civile. La guerra, la politica, l'amore e l amorte.

Un film di Ken Loach che, tecnicamente è molto poco alla Ken Loach. A livello tematico invece riesce ad essere in linea con l'intento politico del cinema del regista inglese, pur se con dei distinguo.
Si, perché, questo film riesce nella difficile operazione di dare un'aura di eroisma pur mostrando tutti i contrasti interni, gli omicidi intestini e quanto di più antieroico si possa (ok... senza esagerare); un'epica fatta anche di difetti e questo, forse, è la vera forza del film.

Per il resto si tratta di un film storico di guerra molto chiacchierato e poco combattuto; a livello storico è scarsamente significativo perchè, al di là di mostrare una guerra molto sottovalutata fuori dalla Spagna, non spiega nulla. Ma sui dissidi interni alle fronde anti-fasciste da dignità nonostante le gravi conseguenze.
Più che un film storico vero e proprio una grande parabola su quanto sarebbe potuto essere, ma non è stato.

Tutto questo condito con una tale enfasi e un ritmo rilassato che in qualunque momento questo film sarebbe potuto deragliare verso il fallimento; invece Loach (in uno dei suoi momenti migliori) riesce perfettamente a bilanciare gli elementi.

lunedì 12 novembre 2018

Il gobbo di Notre Dame - Jean Delannoy (1956)

(Notre-Dame de Paris)

Visto in Dvx.

La storia del libro di Victor Hugo è stata presa piuttosto pedissequamente con tanto rispetto per il testo scritto.
Il problema di questo film è tutto qui, ha più rispetto per il libro che per il cinema; fa un compitino preciso e pulito, ma non crea niente dal punto di vista visivo.
Se il film degli anni '30 basava tutto sulla componente visiva e sull sorpresa suddividendo l'hype sul trucco di Laughton come Quasimodo, sulle scenografie e sul gioco di luci; questo film invece smonta l'effetto gotico del campanaro trasformandolo in un comune mostrillo senza molto pathos o sofferenza (niente a che vedere con l'espressione sempre dolente del suo predecessore), smonta le scenografie esagerate e inverosimili in favore di uno sforzo notevole comunque (la cattedrale ricostruita) in favore di una normalità insignificante, infine le luci, così come le ombre o la fotografia sembrano essere state dimenticate, i colori differenti che definiscono i vari personaggi sono un espediente già vecchissimo negli anni '50.

L'effetto finale è quello che dicevo, un dramma onesto e pulito, perfetto per la domenica pomeriggio, ma senza alcun motivo di reale interesse che non riesce a trasmettere mai nulla, né l'amore, né il dramma.

PS: cast all star completamente buttato.

venerdì 9 novembre 2018

The lobster - Yorgos Lanthimos (2015)

(Id.)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un futuro uguale al mondo attuale, ma in cui la solitudine non è accettata; i single vengono portati in un albergo dove hanno 45 giorni di tempo per trovare un partner, in caso contrario verranno trasformati in animali. Un uomo fugge dall'hotel e si unisce a un gruppo di ribelli in cui i rapporti di coppia sono vietati; ovviamente sarà proprio lì che si innamorerà.

Come sempre in Lanthimos una metafora semplice e chiara viene utilizzata come idea base per la creazione di un intero universo; articolato, stratificato e dettagliato al massimo. Come sempre in Lanthimos i colori desaturati e la recitazione scarna sono cifre stilistiche (ma che differenza se a recitare ci metti qualcuno capace di farlo, Farrell e la Weisz trasmetto tutto con un labbro vagamente mosso o un'espressione imbronciata).
Come sempre il mondo gelido che viene creato vive del grottesco che ne sta alla base, mai aperta ironia, ma sempre uno stridor di denti che può essere divertito se si ha abbastanza cinismo.
Come sempre è il mood a fare il film e non la storia.
Ma al contrario del molto elogiato "Kynodontas", qui il metaforone non rimane congelato in sé stesso e, con la parabola di Farrell diventa storia, la narrazione diventa fondamentale e non ci si trova davanti a un affresco senza scopo; anzi è la narrazione stessa che permette all'affresco di acquisire profondità e senso.
Ad ora (tra quelli che ho visto), il film più bello di Lanthimos che, comincia con molta calma, a non rimanere chiuso nella torre d'avorio della spocchia autoriale, riuscendo a trasformare la sua metafora ombelicale in una allegoria potente e distruttiva (l'amore come obbligo, negazione od ossessione; la solitudine come problematica sociale inaccettabile).

mercoledì 7 novembre 2018

La sindrome di Stendhal - Dario Argento (1996)

(Id.)

Visto in Dvx.

Una ispettrice di polizia sulle tracce di un assassino viene da lui assalita e violentata. Rimarrà sotto shock, nell'eterna attesa del suo ritorno; quando questo, effettivamente succederà le conseguenze per lei saranno anche peggiori.

Dopo la sua breve (e deludente al botteghino) esperienza americana, Argento torna in Italia e comincia il suo totale declino. Già in passato aveva realizzato film che non mi sono mai piaciuti; ma la regia fantasiosa e mobile è sempre stata un elemento determinante e alcune idee di massa in scena o sceneggiatura erano valori aggiunti su cui ci si poteva contare. Con questo film si perde tutto.

La trama raffazzonata con qualche buco e gravi problemi di ritmo e continuum sono una costante dell'Argento sceneggiatore che, però, invecchiando sembra non staccarsi mai dai suoi cliché e da frasi stupide o troppo enfatiche messe in bocca a chiunque.
La storia poi sembra un ritorno al passato (splatter, squilibri psichiatrici, storia con twist plot), ma dopo 20 anni di onorata carriera si comincia a vedere pigrizia in questa scelta, più che un modo per creare qualcosa di personale; l'aggiunta del dettaglio fantasy con la protagonista che si sente entrare nei quadri è un espediente senza nessun significato nella trama che permette una buona soluzione (il flashback con la "Ronda di notte" di Rembrandt) e poi tanti riempitivi.
Ovviamente da condannare la scelta della figlia come protagonista, scelta chiaramente sbagliata (particolarmente per i vari risvolti psicologici che dovrebbe essere in grado di dare a personaggio) per età e aspetto, oltre che per capacità. Va ammesso però, che un pò tutto il cast non brilla, denotando, ancora una volta, un problema del regista oltre che degli attori.

Il film viene indicato come il primo italiano a utilizzare il CGI, in maniera, ora, datata, e complessivamente non particolarmente utile.

In poche parole siamo lontani dalla totale incapacità degli ultimi anni; non raschia il fondo, ma dimostra di essere stanco realizzando un film che, più che brutto, è inutile.

lunedì 5 novembre 2018

La bambola del diavolo - Tod Browning (1936)

(The Devil-doll)

Visto qui, in lingua originale.

Due carcerati fuggono e si rifugiano nella casa nella palude di uno dei due. L'altro scoprirà presto che il suo nuovo amico è uno scienziato ch sta studiando il modo per rimpicciolire le persone. Morto lo scienziato, l'altro fuggitivo e la moglie dell'ex amico se ne andranno a Parigi pper utilizzare umani diminuiti di dimensioni per vendicarsi degli uomini che l'hanno sbattutto in prigione.

Difficile dire, a cuore leggero, che questo è un bel film, funzionant ed efficace. Più facile ammettere che è un piccolo cult, fatto di tante facce diverse, quasi tutte non efficaci prese singolarmente, ma buttate nell'ampio calderone fa abbassare la difensiva a porta a casa il risultato.
Un film che inizia con un'evasione e prosegue con un mad doctor classico, una moglie di Frankenstein claudicante, un Lionel Barrymore che si traveste da vecchietta (imitando in maniera sconcertante Lon Chaney di "Unholy three"), un revenge movie che diventa anche il capostipite dei film horror con bambole assassine e una chiusura con dramma famigliare. Tutto insieme, tutto come se potesse funzionare.

L'effetto finale è altalenante, per ritmo ed efficacia e la regia di Browning appare piuttosto passiva.
Ma i motivi di interesse sono altri. Gli effetti speciali risultano un pò datati all'inizio (semplici sovrapposizioni senza interazioni fra le creature rimpicciolite e quelle a dimensioni normali), ma diventano assolutamente di livello con l'attività omicida (ricostruzioni in studio di scenografie enormi) e Barrymore en travesti per attuare la sua vendetta senza essere riconosciuto è la classica idea cretina che diviene clamorosa per la convizione con cui viene portata avanti.

Bravo come sempre Barrymore, adatti, ma senza enfasi la O'Sullivan e Lawton, macchiettistici gli altri personaggi principali.

venerdì 2 novembre 2018

Légami! - Pedro Almodóvar (1990)

(Átame!)

Visto in DVD.

Un ragazzo appena uscito dal manicomio cerca un'attrice porno da cui è ossessionato. la trova e la rapisce per obbligarla ad innamorarsi di lui. Fra i due si instaurerà un rapporto, ambiguo, di amore/paura.

Il film successivo a "Donne sull'orlo di una crisi di nervi" e, quindi, al successo internazionale, è un film decisamente più canonico per gestione e scansione dei tempi, solo il tema sembra voler essere atipico.
La storia di una sindrome di Stoccolma (?) che diventa amore vero è, in tutto e per tutto, un romanzo d'appendice (il finale eccessivamente positivo tanto contestato si inserisce in questo contesto) d'altri tempi, un melò sul sadomasochismo.
Un film sentimentale e, a suo modo, dolcissimo, che dall'ironia dell'inizio deraglia sempre di più su un sentimentalismo classicissimo.

L'estetica è quella almodovariana, ma meno caricaturale, i colori accesi ci sono, gli interni ampi e colorati; ma la fotografia tende di più al pastello.

Film molto bello, molto classico, ma molto maltrattato per il suo essere così insoddisfacente per chi si aspetta un film romantico standard e anche per chi si aspetta un film totalmente fuori dagli schemi. Questo è Almodovar.

PS: bravissimi i due protagonisti, fondamentali per la riuscita del film.

mercoledì 31 ottobre 2018

Kagamijishi - Yasujirô Ozu (1936)

(Id. AKA The lion dance)

Visto qui.

Il primo film sonoro di Ozu, piuttosto tardivo, fu un documentario, un cortometraggio, ma, soprattutto, un film su commissione. Per promuovere la cultura giapponese fu chiesto a Ozu di riprendere un'opera di Kabuki. L'impressione che si ha è che il sonoro fu una scelta imposta più che ricercata; la musica, certamente lo imponeva (non c'era più la possibilità di suonare dal vivo nel 1936?), ma anche la velocissima spiegazione iniziale sarebbe risultata piuttosto laboriosa con i cartelli, anche se, immagino, Ozu avrebbe trovato una via alternativa.

Il filmato riprende in toto un'opera Kabuki in cui un attore interpreta una anziano donna che, toccando una testa di leone, viene impossessata dalla spirito dell'animale.
La parte inziale, quella introduttiva (a mio avviso la più interessante), mostra il teatro vuoto da diverse inquadrature in un gioco di montaggio rapido. Il resto sono inquadrature alternate di un campo lungo, con la figura intera dell'attore, con alcuni, rari, primi piani.
Assolutamente elegante, ma senza mordente; l'attore è piuttosto bravo nella parte della donna (anche se avrei immaginato una grazia decisamente superiore), ma riesce al meglio nella energetica parte del leone.
Carino, interessante, importante per la filmografia di Ozu, ma ovviamente non fondamentale.

Storia di erbe fluttuanti - Yasujirô Ozu (1934)

(Ukikusa monogatari)

Visto in Dvx.

Un attore girovago, capo della sua compagnia, torna nella città dove ha lasciato un figlio ormai post adolescente. I rapporti con la madre sono buoni, ha sempre pagato quello che doveva ed è sempr eentrato nella vita di entrambi come zio. La scelta di lasciarli era una presa di coscienza della propria condizione disonorevole come saltimbanco e la volontà di non far diventare il figlio simile a lui.

Ozu avversò a lungo le principali innovazioni in ambito cinematografico; con il sonoro aspettò fino all'anno successivo primo di utilizzarlo. Questo infatti è il suo ultimo film muto e, bisogna ammettere, che la necessità del sonoro divenne impellente solo per i dialoghi sempre più fitti.
Al di là del sonoro il resto del film è figlio dei suoi tempi, anzi, qualitativamente è superiori a molti suoi contemporanei. Fotografia pulita, uso delle luci magnifico nelle scene in notturna e una costruzione equilibrata delle immagini con, spesso, utilizzo di più piani. Ovviamente poi, c'è già la macchina da presa che inquadra da una posizione leggermente ribassata, ma ancora non è obbligo e non c'è la staticità dei suoi film più maturi (ci sono, anzi, diversi movimenti di macchina importanti).

La trama è piuttosto semplice, ma ben descritta, con un'attenzione alla sceneggiatura elevata che rende questo un film ancora godibilissimo. Ovviamenti i temi della famiglia dai rapporti tormentati e il dolore vissuto con calmo stoicismo ci sono già tutti.

lunedì 29 ottobre 2018

Mr. Nobody - Jaco Van Dormael (2009)

(Id.)

Visto in Dvx, doppiato in francese sottotitolato.

Un uomo di 118 è rimasto l'ultimo mortale, di lui non si conosce nulla; quando viene itnervistato racconta la sua vita, parlando delle svolte più importanti (delle scelte fondamentali che hanno portato verso una direzione o un'altra) raccontandone gli effetti come se entrambe le scelte fossero state effettivamente prese.

Film articolato e complesso, con una narrazione volutamente non cronologica e spezzata all'inizio, con una tendenza alla complessità fine a sé stessa come a voler rappresentare così la vita stessa. Si, insomma, stiamo giocando nello stesso campo di "Synecdoche, New York". Ma diciamolo, su tutto un altro livello. Nel suo barocchismo, il film di Kaufman, riesce a essere più organizzato, più concreto e strutturato, oltre che molto più coinvolgente a livello emotivo.

Detto ciò il film è esteticamente impegnativo, con una fotografia che utilizza in maniera simbolica i colori, con un suo pervasivo e significativo del fuori fuoco e giochi di rimandi continui. Bisogna ammettere che non c'è niente di nuovo e il film risulta anche piuttosto squilibrato, ma risulta ugualmente fruibile e per la prima ora e mezza è anche estremamente ritmato e interessante.
Uno dei maggiori difetti è la durata fiume di quest'opera, le due ore e mezza senza sapere da che parte si voglia andare a parare possono essere un limite insopportabile, tuttavia sono anche uno dei principali motivi di fascino; un film destrutturato, in cui la scansione temporale potrebbe durare all'infinito, la cui durata è superiore a quella usuale, riesce a creare un effetto lievemente sconcertante. E forse è proprio questa la forza principale del film.

Dal punto di vista del significato sembra tutto riassunto nella frase di Williams citata dal protagonista: "Ogni percorso è il giusto percorso. Ogni cosa avrebbe potuto essere un'altra e avrebbe avuto lo stesso profondo significato". Il film, infarcito di qualsivoglia teoria scientifica/matematica, sembra voler mostrare semplicemente questo, tutte le scelte fatte avrebbero avuto il loro significato, diverso, ma egualmente importante; con questa consapevolezza la scelta è impossibile.

venerdì 26 ottobre 2018

Kill Bill: Vol. 2 - Quentin Tarantino (2004)

(Id.)

Visto in DVD in lingua originale sottotitolato in spagnolo.


"Kill Bill" l'ho visto al cinema e da allora l'ho visto oltre la decina di volte, ma in effetti non mi era mai capitato di vedere il secondo senza vedere prima il Vol.1.
Questo secondo capitolo si caratterizza per un ritmo più rilassato, una predominanza dei dialoghi sull'azione e su una sorta di resa di conti interna ai vari personaggi. Le dinamiche tra i vari caratteri permettono alla vicenda di avere dinamismo senza scadere nel già visto (la sposa non arriverà a uccidere tutti e non è infallibile), assieme alla divisione in capitolo senza ordine cronologico è il vero motore del movimento interno del film.

Il chiacchiericcio (che ha fatto allontanare diverse persone dal film) è anche questo un buon sistema per non diventare la fotocopia del primo, mentre lo scontro finale tutto giocato sui dialoghi, pur essendo un poco frustrante, riesce a rendere il climax che con uno scontro "normale" si sarebbe rischiato di sprecare; in poche parole, quanto difficile è rendere lo scontro finale dopo 4 ore di hype? Tarantino supera il problema con uno showdown emotivo e un duello di parole.

In ogni caso i momenti d'azione non mancano, lo scontro de La sposa con Elle dentro la roulotte è obiettivamente bellissimo (da applausi la parte iniziale in cui Elle non riesce a estrarre la katana) e la breve scaramuccia tra La sposa e Bill entrambi da seduti è un magnifico momento di giocoleria marziale.

L'estetica rimane quella altissima di Tarantino che, per questa coppia di film, raggiunge vette incredibile, semplicemente più polverosa e accaldata per l'ambientazione western. Ecco lo switch principale tra i due film, lo sanno anhce i sassi, è questo passaggio dal wuxia al western. Al di là delle citazioni dirette e ossessive ("Sentieri selvaggi" e Morricone sono presenze costanti) e quelle più sottili e spesse volte forzate; al di là di tutto questo quello che rimane è lo spirito di "Duello al sole", base americana per ogni film di amore e odio (in stile western) che sarebbe scontato ritenere il padre putativo di questo "Kill Bill: Vol. 2", ma che rimane sottotraccia per il dinamismo della trama riuscendo però a esplodere enormemnte nello showdown finale (per questo così efficace) esemplificato dal perfetto primissimo piano piano di Uma Thurman mentre abbraccia sua figlia guardando Bill, un misto di amore e rabbia che sarebbe da mettere in un museo.

Dopo molte visioni per la prima volta mi è sembrato di vedere qualche momento di invecchiamento del film, in alcuni abiti della Thurman ancora anni '90 così come in certe dissolvenze incrociate; ammesso che ciò sia vero (e non una scleta precisa), rimane comunque un film senza tempo, un film magnifico che ha da invidiare al primo le coreografie quanto il primo deve invidiare a questo i dialoghi.

mercoledì 24 ottobre 2018

Cenere - Arturo Ambrosio, Febo Mari (1916)

(Id.)

Visto qui.

Dall'omonimo romanzo di Grazia Deledda, questo cortometraggio di meno di 40 minuti è l'unico film realzizato da Eleonora Duse.
Il film è un dramma dove il vero protagonista è Febo Mari nei panni del figlio, mentre la Duse viene utilizzata in maniera piuttosto marginale considerandone il peso specifico.
La recitazione di Mari, enfatica e un poco sciatta, può accontentarsi di essere nella media per l'epoca (o poco sotto), mentre la Duse, misurata e sofferente, riesce a essere, non solo ottima, ma incredibilmente moderna; un peccato quindi il suo essere in secondo piano.

Le inquadrature in esterni presentano qualche valore aggiunto, ma sono poche e, anch'esse, marginali; mentre la storia procede a ritmo accettabile, ma con così poca empatia da riuscire comunque piuttosto noiosa nonostante il basso minutaggio.

In poche parole un film, incredibilmente non riuscito che si guarda solo per la presenza dell'attrice.


lunedì 22 ottobre 2018

Hunger games - Gary Ross (2012)

(The hunger games)

Visto in Dvx.

In un futuro distopico, ogni anno, il governo estrae a caso due coppie per ogni distretto per farle scontrare in gioco mortale dove solo uno uscirà vincitore. Attorno al massacro di giovani gira un mondo di marketing, media, moda e politica.

La versione edulcorata di "Battle Royale" fatta dagli americani non può, prima di vederla, che suscitare due reazioni; piacere che anche il cinema mainstream USA si avvici a temi differenti, gelido distacco per la consapevolezza che stanno per rovinare qualcosa di bello.
Una volta visto il film, invece, ci si rende conto che, stavolta, hanno vinto loro. Il tema (grazie alla serie di libri originale) è trattato sempre con il piglio per young adult che anche il manga utilizzava, ma con un intento decisamente più adulto.
Se in tutti e due ci si trova di fronte alla metaforona delle frustrazioni adolescenziali, masticate da un una società gerontocratiche che impone le proprie scelte tarpando le ali; nell'opera giapponese, il tutto si risolve in un ghiotto bagno di sangue, qui, invece, nella più classica volontà di sopravvivenza in un mondo in cui cane mangia cane (e più avanti nella serie nel più classico tentativo di rivolta giovanile).
Sembra una sciocchezza, ma il tema, anche se scontato, è decisamente più interessante e il film riesce a trattatarlo in maniera impeccabile.
C'è un lungo prologo dove viene spiegato tutto il meccanismo che sta alle spalle della sfida che è, forse, la più intelligente delle invettive da teenager contro un mondo corrotto fatto di apparenze; dopo l'inizio dei giochi, invece, si passa a una rilettura dei rapporti di forza tra regazzini, dove i bulli massacrano i perdenti e gli outsider provano a sopravvivere da soli sfruttando le loro capacità.
Certo, siamo davanti a un prodotto molto commerciale, ma trattato in maniera estremamente intelligenti.
A questo si affianca una regia che nella prima parte cerca un realismo a colori spenti che ha dell'incredibile (incredibile per il format, i film ad alto budget tendono sempre a colpire per l'uso dei colori e la fotografia satura) che culmina in alcune scene con macchina da presa a mano che rasentano lo shoa movie (durante la scelta del tributo nel distretto 12). La messa in scena però non si accontenta del taglio gelido della provincia, ma realizza un mondo esteticamente differenziato e organico per la capitale che sembra una versione timburtiana tenuta a freno dalla consapevolezza che non deve sfociare in farsa.
A questo va aggiunto un cast enorme i nomi (con una capacità recitativa media tra le più alte di sempre nonostante ci sia pure uno degli Hemsworth tirare verso il basso) che culmina in una protagonista magnifica; la Lawrence riesce a mantenere uno sguardo rabbuiato per tutto il tempo trasmettendo tutta una serie di emozioni con il resto del viso e del corpo.

Quello che ne viene fuori è un film non perfetto, ma di intrattenimento intelligenti che si fa guardare senza stanchezza per tutte le sue due ore e mezza.

venerdì 19 ottobre 2018

Marebito - Takashi Shimizu (2004)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un videoamatore (in realtà un tizio ossessionato dall'idea di inquadrare il terrore con la sua pessima videocamera) si introduce nel labirintico sottosuolo di Tokyo; troverà un'enorme caverna sotterranea con costruzioni abbandonate e una luce dalla provenienza ignota; incatenata ad una parete troverà un giovane e bellissima donna, piuttosto palliduccia. Come fossimo in uno dei Guine pig la porterà a casa... purtroppo lei è una creatura che si nutre solo di sangue e lui sarà costretto a procurarglielo, che sia il proprio, di un animale o di altri esseri umani è questione di poco conto.

Film dell'ottimo Shimizu, realizzato con un presupposto un pò del cazzo (cercare il terrore per inquadrarlo... ma che vuol dire?! e le creature del sottosuolo... vogliamo parlarne?), realizzato a costo bassissimo in poco tempo con la partecipazione straordinaria di Tsukamoto.
Regia accettabile (che nella prima parte ricorre alla camera a mano), ma che viene ammazzata, nella gestione del ritmo, da una trama laboriosa e da una voce fuori campo che dovrebbe rappresentare i pensieri del protagonista, ma in definitiva è il veicolo principale per esporre l'inquietudine che lo spettatore dovrebbe provare... definire questa cosa didascalica è un eufemismo.
Il film, già un poco lento, rallenta ulteriormente nella seconda parte con il rapporto con la donna del sotterraneo che fa deragliare la comprensibilità della vicenda e rende impossibile capire dove voglia andare a parare, o più semplicemente quali fossero le intenzioni iniziali.

L'unico punto di forza è qualche momento azzeccato nella sequenza dei sotterranei che lascia sperare qualcosa che non arriverà mai.
Sinceramente la qualità è ottima se si considera l'extremly low budget, peccato, perché mancano le idee.


mercoledì 17 ottobre 2018

La parmigiana - Antonio Pietrangeli (1963)

(Id.)

Visto in Dvx.

Una ragazza della provincia di Parma se ne va dalla casa dello zio prete dopo aver sedotto un seminarista; si trasferirà in casa di una amica della madre (ormai morta), ma anche lì le attenzioni degli uomini non si faranno attendere; cercherà quindi di sposarsi per poter ottenere, con questo assoggettamento parziale, la libertà che cerca.

Pietrangeli, salvo in pochi bellissimi casi, ha sempre fatto lo stesso film; film di persone sole o abbandonate che cercano il loro posto nel mondo, di solito donne.
Qui la protagonista è una ragazza appena uscita dall'adolescenza che deve affrontare un mondo in cui tutti già sanno quale deve essere il suo posto e in cui lei, neanche a dirlo, si trova stretta. Ma al contrario del classico tipo alla Pietrangeli, la giovane protagonista di questo film ha le idee molto chiare e persegue con determinazione il suo obiettivo, il suo posto nel mondo al di fuori degli obblighi sociali. Rispetto agli altri film sullo stesso tema, qui sembra anche esserci la reale possibilità di riuscirci.
Come spesso, ma non sempre, siamo di fronte a un dramma con i ritmi e i toni di una commedia efficacissima.
Come sempre la regia è magnifica e utilizza gli spazi (il film è quasi interamente in interni) in maniera perfetta, con porte chiuse o aperte che danno significato all'azione, con movimenti di macchina da presa e inquadrature ragionate che rendono ritmo e intenti e un utilizzo particolare di diversi dialoghi in cui i due non sono voltati nella stessa direzione senza, quindi, potersi vedere (quando Manfredi smacchia i pantaloni) o uno dei due viene eclissato dalla vista dello spettatore (il dialogo dietro la colonna per strada).
Come sempre, cast grandioso, senza sbavature né tra i protagonisti, né tra le spalle.

lunedì 15 ottobre 2018

Re-animator 2 - Brian Yuzna (1989)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Al suo secondo film, dopo l'incredibile "Society", Yuzna decide di andare sul sicuro e mettere in scena il sequel di "Re-animator". Decide di andare sul sicuro per il successo del primo e la certezza di ritornare nei pressi del cinema slasher comico e folle senza avere i bastoni fra le ruote. Riprende gli stessi personaggi li porta avanti nel tempo, stessi esperimenti, stesse pulsioni, il tutto con più cadaveri.

L'esperimento, a mio avviso, riesce. Non si pretende una trama dettagliata o particolarmente interessante, né l'effetto straniante dell'originalità di "Society"; quello che si può chiedere e si ottiene è film folle e totalmente libero di mostrare ciò che desidera.
Il film si permette scene splatter e la creazione di mostri ibridi a uso ridere (magnifico il cane con la mano o la mano con un occhio) realizzati benissimo con gli effetti speciali d'epoca e l'utilizzo oculato del passo uno, niente a confronto di un ottima CGI, ma niente a confronto (qui in senso positivo) di un CGI mediocre.
L'effetto caotico di un film caotico può infastidire, ma se si accetta il piglio scanzonato e senza pretese di Yuzna, ci si può godere una gradevole commedia grandguignolesca con la pretestuosità di pesanti citazioni da "La moglie di Frankenstein" e un finale apocalittico pieno di creature d'ogni sorta che, senza raggiungerlo, non fa rimpiangere il già citato "Society".

venerdì 12 ottobre 2018

Alleluja! - King Vidor (1929)

(Hallelujah)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Negli anni '20 diversi film (cortometraggi) con protagonisti afro-americani cominciarono a fiorire, o con contenuti apertamente caricaturali o per autoproduzioni a basso costo. Alla fine del quel decennio, con l'arrivo del sonoro ("Il cantante di Jazz" è solo di due anni più vecchio), le grandi produzioni americane divennero, cautamente, più propense ad aprirsi a film che garantassero di aumentare il mercato verso le minoranze razziali. A questa minima apertura si appigliò Vidor, cresciuto nel sud, allevato da una donna di colore, da anni avrebbe voluto realizzare un film sulle condizioni dei neri. Oltre all'apertura mentale, Vidor, si appigliò anche al fatto che parte dei soldi li avrebbe messi lui. Il film venne realizzato.
Per rimanere nell'anedottica anti-razzista, per la scrittura della sceneggiatura venne ingaggiata l'unica sceneggiatrice donna dell'epoca, Wanda Tuchock.

Il film parla di un lavoratore dei campi di cotone del Tennessee che rimane invischiato nell'omicidio del fratello, a seguito del quale, riscopre la fede e si fa predicatore; ma la carne è debole e per una donna abbandona tutto e tutti (i numerosi familiari).

Ecco, sicuramente la produzione accettò anche per l'intenzione di Vidor di costellare il film di molti momenti musicali (non è un musical vero e proprio, ma la musica permea tutto il film), così da sfruttare al meglio il sonoro. Quello che però mi rimane in sospeso è sapere chi ha voluto dare a questo film un taglio così leggero. La trama è un ottimo materiale per il melodramma, ma tutto il film ha il respiro della commedia di redenzione, con l'aggravante di un incipit (20-30 minuti) che ha intento più ridanciano. Spesso questo film viene accusato di mostrare lo stereotipo dell'epoca dei neri come dissoluti incapaci di controllare i propri impulsi (anche se Vidor sembra toccare apposta questi temi per smentirli; con il protagonista che vuole baciare la donna, ma si trattiene e se ne scusa, o che riesce a resistere alla voglia del gioco d'azzardo, almeno all'inizio); a mio avviso più di quello, il film può essere accusato di una visione caricaturale fino all'imbarazzo proprio in quelle scene iniziali. Che sia stata la produzione a pretenderlo o un'idea di Vidor per alleggerire il tono di un film altrimenti troppo cupo; direi che comunque non funzione e, anzi, stride molto, con la sensibilità attuale, ma anche con l'ambientazione totale del film.

A livello di regia il film sembra non farcela mai a staccarsi dal consuetudinario. Vidor sembra più interessato alla storia che al come raccontarla. Cose buone ce ne sono sempre e, qui, le migliori sembrano essere i vari primissimi piani ottimamente curati (molto da cinema muto) e il montaggio perfetto della scena della "conversione" del protagonista (quella in cui decide di diventare predicatore) o la scena della fuga di Zeke; a questo poi aggiungere il mood dell'inseguimento nella palude nel finale riesce ad essere ancora efficace.

Interessante per tutti i precedenti motivi storici (più che per la godibilità bassina) ha anche qualche, misero, motivo aggiuntivo come anello di congiunzione fra il muto e il cinema sonoro maturo degli anni '30, con una recitazione molto fisica (in qualche momento slapstick) e un'eccessiva mimica facciale nonostante i dialoghi.

PS: questo film non riuscì ad essere il primo film all-black della storia perché pochi mesi prima la Fox Batté la MGM portando in sala "Hearts in Dixie"; sempre all-black, sempre musicale.