giovedì 30 novembre 2017

T-Junction - Amil Shivji (2017)

(Id.)

Visto al festival di cinema africano (fuori concorso), in lingua originale sottotitolato.

Una ragazza, durante i 40 giorni dopo il funerale del padre, deve recarsi in ospedale per il ritorno del certificato di morte e per un sospetto di malaria. Lì incontrerà un'altra giovane con delle ferite alla testa e al braccio che si comporta in maniera strana e che inizierà a raccontarle la storia della T-Junction (un incrocio a T), dove si trovavano diversi venditori vari; nella storia si parla dei loro rapporti, dei loro tentativi di affrancarsi dal lavoro di strada e della polizia, violenta e ottusa.

Questo non è un bel film, ma è un film fatto da Dio.
Il problema che affossa l'intera opera è la sceneggiatura. Nonostante un'intuizione artificiosa, ma interessante (la doppia trama, la storia principale in cui si inserisce il racconto della ragazza dell'ospedale, fatto a puntate) e una iniziale tendenza a dare una pennellata di personalità a molti dei personaggi presenti (che però si ferma presto alla superficie); non corrisponde un'equivalente ritmo nella trama, non è evidente uno scopo, un obiettivo, né viene descritto un arco narrativo vero e proprio. La trama del funerale non vuole svelare i misteri che la circondano, quella della T-Junction non va oltre l'affresco fine a sé stesso; entrambe sono scelte non prive di interesse, ma una delle due avrebbe dovuto essere più canonica per permettere uno  svolgimento che mantenesse vivo l'interesse.

A fronte di evidenti problemi di trama il film si dimostra qualitativamente eccellente dal punto di vista estetico. Una fotografia con lievi viraggi del colore, una regia che riesce a dare dinamismo con una macchina amano saltuaria e mai fastidiosa, alcuni primi piani perfetti e ricchi di significato, un uso di luci crude (e in un paio di scene anche luci colorate) sensatissimo, e una scelta delle inquadrature tutta giocata sul montaggio interno per dare dinamismo (punti di fuga quasi mai centrali, location scarne, ma ottimamente utilizzate, movimenti dei personaggi ragionati).
Peccato che un tale sforzo sia stato messo al servizio di una trama così poco interessante.

mercoledì 29 novembre 2017

Ghidorah! il mostro a tre teste - Ishirô Honda (1964)

(San daikaijû: Chikyû saidai no kessen)

Visto qui, doppiato in inglese.

Una pioggia di strane meteoriti colpisce la terra e un gruppo di geologi con scarsa voglia di lavorare cerca di studiarne uno (con scarsi risultati). Nel frattempo una principessa di un paese straniero (rispetto al Giappone) sembra esplodere in volo, mentre una profetessa uguale alla suddetta principessa, che afferma di essere una marziana, va in giro a portare male, arrivando a prevedere la ri-comparsa di Rodan. Nel frattempo le due fate gemelle in contatto con Mothra fin dal precedente film finiscono in uno show televisivo. Al colmo della sfortuna (oltre alle fate in tv intendo), Godzilla torna a portare distruzione e dal meteorite esce Ghidorah, un mostro astrale a tre teste più pericoloso dei normali kaiju. Sembra un momento apocalittico, ma l'intervento diplomatico di Mothra convincerà Godzilla e Rodan a collaborare per sconfiggere il drago venuto dalle stelle.

Godzilla numero 5. Dopo 3 seguiti che cercavano la via per sfruttare il brand nel migliore dei modi, sembra, finalmente, arrivato il film di assestamento. Godzilla, di fatto, vive di riflesso rispetto ai nemici che gli vengono messi a fianco e in questo film si perfeziona l'idea di uno scontro totale con i vari mostri della Toho iniziato con il capitolo 4 della saga.
Sempre dal precedente capitolo si continua intoltre la trasformazione del franchise in una serie per bambini. Diminuiscono i momenti di distruzione, aumenta la mimica dei mostri slittando verso l'ironia (il palleggio delle rocce, Godzilla che fugge coprendosi il sedere, ecc...).
Il quadro sembra completato da una trama più articolata che si avvicina alla fantascienza cercando di allontanarsi dall'horror del primo episodio.

Tecnicamente a livello dei precedenti, il film risulta inferiore per una sostanziale mancanza di innovazione. A livello di contenuti, però, introduce il personaggio di Ghidorah (vero protagonista del film) che diverrà il principale antagonista di Godzilla e rispolvera quello di Rodan (il primo kaiju della Toho); la presenza di Mothra è, invece, il vero motore dell'azione e viene presa direttamente da "Watang", il capitolo precedente.

PS: partecipazione straordinaria, di nuovo, di Takashi Shimura.

lunedì 27 novembre 2017

Terra senza pane - Luis Buñuel (1933)

(Las Hurdes)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Documentario su una regione della Spagna ai confini con il Portogallo, terra dimenticata da Dio e dal governo in cui negli anni trenta le malformazioni d'origine genetica, il gozzo e la malaria falcidiavano la popolazione, dove le condizioni di vita erano decisamente a livello dell'attuale terzo mondo.

Documentario apertamente politico (il cartello finale è fin troppo esplicito), con un filo di anticlericalismo, che mostra uno spaccato di vita quotidiana di una zona retrograda (per stile di vita, ma anche a livello culturale). Il filmato è in origine un film muto ridoppiato da una voce fredda e musica classica.
Un documentario per lo più in presa diretta, ma con una parte del materiale registrato che appare creato ad hoc (lo stambecco... o capra, che cade), che denota una ricercatezza formale anche in un filmato minimale e con intenti più pragmatici.
Anche il dettaglio del doppiaggio è in linea con l'intento programmatico, permette infatti di capire i concetti veicolati con esattezza, purtroppo nel farlo toglie molta dell'enfasi e dell'efficacia che le immagini avrebbero da sole. Le parole della voice off sono la prosa, le immagini (da sole) la poesia; una poesia solare nelle scene naturali (la scena delle api), poesia lugubre quando mostrano gli esseri umani (che veicolano malattie e morte).
In aggiunta si vede chiaramente il sub strato storico da cui è nato il surrealismo spagnolo, l'ambiente da cui è scaturito al di là dei motivi per cui si è sviluppato (difficile non pensare a Dalì vedendo l'asino con le api).

Lui - Luis Buñuel (1953)

(El)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un retto e probo rappresentate della comunità cittadina decide, finalmente, di abbandonare la sua, morigerata, vita da scapolo. Sposa una nuova arrivata soffiandola all'amico. La donna presto s coprirà tutte le ossessioni e le fissazioni del marito, ma anche quando le cose sembreranno prendere una piega drammatica, nessuno le crederà.

C'è bisogno di dire che una delle principali ossessioni di Buñuel è l'ipocrisia della borghesia e della chiesa? stupisce il fatto che principalmente il film parli della prima e per quanto può, anche della seconda?
Nulla da ridire sul concetto in sé, ma è la sua ripetizione che sa di stantio e pesante; tuttavia in Buñuel  c'è di buono che i suoi film vivono di vita propria indipendentemente dalla tesi di fondo.
Qui la critica è talmente evidente da essere stucchevole, tuttavia, ancora una volta, Buñuel ce la fa.

Preso come storia in sé anziché come un metaforone si ha davanti una trama imperfetta, con troppe reiterazioni di un rapporto malato che a lungo andare stanca; ma l'idea di fondo riesce comunque a venire fuori, la regia è ben calibrata e godibile (pur senza guizzi) e il cast sempre a metà tra l'accettabile e l'inaccettabile- In tutto ciò il dramma da camera riesce comunque a diventare protagonista, l'ossessione che distrugge una coppia e poi un uomo (ma anche la storia di una donna in trappola) funziona magnificamente e il film riesce comunque a portarsi a casa la pagnotta.

venerdì 24 novembre 2017

Schock - Mario Bava (1977)

(Shock)

Visto in Dvx.

Una donna con un figlio dal precedente matrimonio torna nella casa in cui l'ex marito si suicidò con il nuovo compagno. Inutile dire che cominceranno strani avvenimenti, soprattutto in relazione al figlioletto.

Ultimo film di Bava (per il cinema), spiace dire che non è all'altezza delle aspettative. L'idea di partenza (chiara solo nel finale) è buona, ma quello che manca è la tensione.
Il film è un lungo girare intorno al finale, una lunga preparazione in cui la trama è gestita bene, ma il ritmo quasi totalmente assente e le scelte visive sono copie d'idee viste mille volte.
Non so se è un problema effettivo o se è solo un film invecchiato, ma vedendo il finale direi più la prima ipotesi.
Si, perché il finale è inaspettatamente buono. Il twist plot funziona, ma soprattutto ci sono idee ottime, la tensione è presente, le creazioni realizzate sono originali e sorprendono (in parte) con molta inventiva (il bambino che diventa l'adulto, la scena dell'armadio) e il meglio inizia con la famosissima scena dei capelli (che si può vedere qui); giustamente la più famosa, nonché la migliore sequenza del film (delle mani di luce che tolgono la coperta e i capelli antigravitari!).

Anche se siamo lontani anni luce dalle capacità del regista, con quel finale, tutto sommato, si chiude con dignità una grande carriera.

mercoledì 22 novembre 2017

Il serpente di fuoco - Roger Corman (1967)

(The trip)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un uomo vuole provare dell'LSD, la assume a casa di un suo amico; l'esperienza (l'intero film è il suo trip) sarà molto altalenante, tra lo stupefacente e l'angoscia.

Difficile fare un film intelligente e paraculo nello stesso tempo; eppure anche in questo Corman sembra azzeccarci. Commercialmente sul pezzo, come produttore, riesce a sfornare un film sfrontato fin dal titolo (originale) e dal sottotitolo (a Lovely Sort of Death), che però riesce a racchiudere seriamente una parte dello zeitgeist dell'epoca. In anticipo di due anni sul film manifesto "Easy rider" (con cui condivide solo la superficie, ma di cui è, di fatto, il genitore più prossimo assieme a "The wild angels") e uscito precisamente durante la summer of love, questo film si dimostra incredibilmente calato nella sua epoca; ma è evidente che Corman ha un occhio al botteghino in più rispetto a quello che si crederebbe.
Per la filmografia del regista va anche ricordato che questo è anche uno dei primi film del periodo post-Poe.

Il film inizia con un cartello che avverte dei pericoli delle droghe, poi comincia un lungo film che dichiara apertamente il contrario.
Il film è indubbiamente molto lineare... e piuttosto noioso; non si muove d'un metro dall'idea di base, il lungo trip di una uomo qualunque (dove però da di matto).
Se lo si guarda come documento storico il valore aumenta; scritto da Nicholson, interpretato da Peter Fonda, Dern e Hopper e una fotografia semplicemente calzata sul decennio (colori acidi, location adatte) e un lungo trip che tocca tutti i temi della rivoluzione sessuale, il mondo metafisico, l'insight, il sesso. Meno filosofico (e meno pretenzioso) rispetto a "Easy rider", anche qui c'è il manifesto di un'epoca.

Dietro la macchina da presa Corman si muove continuamente (nei primi dieci minuti è un continuo passare da un carrello all'altro, da una panoramica all'altra) e utilizza la musica alla maniera di Scorsese. Poi inizia un acid movie fatto di sovrapposizioni, proiezione di immagine sui corpi, montaggio rapidissimo e sequenze senza costrutto. Anche al netto delle fighetterie imposte dalla trama rimane un film innovativo per lo stile di Corman, ma ancora di più se si considera che aveva appena chiuso il suo periodo su Poe. Anche al netto di tutti i difetti che io per primo gli imputo, rimane uno dei film più estetici del regista, dove le immagini ha un impatto notevole e dove, per ottenere questo effetto, c'è una delle più brillanti collaborazioni fra tutti i compartimenti della produzione del film.

lunedì 20 novembre 2017

Zangiku monogatari - Kenji Mizoguchi (1939)

(Id. AKA La storia dell'ultimo crisantemo)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Il figlio di un noto attore di kabuki sembra non aver preso il talento del padre; quando, per giunta, si innamorerà di una ragazza di umile estrazione si allontanerà dalla famiglia vivendo in povertà. Trascorsi 5 anni, e dopo un duro apprendistato, sarà divenuto un ottimo attore, la famiglia gli chiederà di tornare e la ragazza, per amor suo, si farà da parte senza che nessuno glielo chieda per permettere il ritorno. Il giorno del grande successo di pubblico del ragazzo, la ragazza starà morendo, ma vorrà che lui non le rimanga vicino per non togliergli il suo momento di gloria.

Mizoguchi è uno che ha sempre fatto melodrammi durissimi senza sfociare nel sentimentalismo più spitno in un miracolo di equilibrismo quasi sempre mantenuto. In questo film, non solo le regole del suo cinema sono rispettate, ma per tutta la durata non sembra neppure di assistere ad altro che a un dramma familiare, con un'impennata di melodramma nello straziante finale.
Da molti considerato il film più femminista di Mizoguchi, credo che la definizione sia esagerata, il personaggio femminile è il più potente della filmografia del regista e rappresenta in toto la figura della donna angelicata classica, ma ha più i contorni della martire che non della ragazza emancipata; più che un film femminista è un film femminile, o almeno con un grande rispetto per la sua protagonista (l'unica, a mio avviso, a uscirne bene).

Lo stile di regia è ottimo, basato tutto su lunghi piani sequenza, per lo più con carrelli laterali; evidentissimo nell'ottima scena del treno con l'inquadratura dall'interno all'esterno e molto ben realizzato nella lunga passeggiata notturna dell'inizio. Inoltre la macchina da presa si muove attorno o dentro le location sfruttando in toto gli spazi ricostruiti (in una sequenza il teatro viene mostrato nel suo complesso, anche se in porzioni distinte, prima la platea e il palco, poi il dietro le quinte e quindi lo spazio sotto il palco).

Unico neo sono, ovviamente, i ritmi dilatati che gonfiano il minutaggio in maniera eccessiva.

venerdì 17 novembre 2017

Becky Sharp - Rouben Mamoulian (1935)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese


Adattamento cinematografico di "La fiera delle vanità" incentrata su una ragazza, orfana che cerca di farsi strada nel mondo con la sua vitalità, l'amore per le bugie ben sostenute e sfruttando parenti, conoscenti e guerre napoleoniche.

Di fatto un film risibile, dalla trama flebile e un gusto piuttosto insipido. La protagonista è uno dei pochi punti a favore, un bel personaggio, simpatico all'inizio e nel finale, ma anche lei, nel mezzo della storia annaspa.
Mamoulian dietro alla macchina da presa sembra inesistente; riesce benissimo nella scena della festa interrotta dai cannoni di napoleone, dove gioca con il buio e il dinamismo, ma fuori dall'eccezione per il resto dirige con il pilota automatico. Non so se questo sia dovuto allo stile di Mamoulian (e che il suo "Dr. Jekyll" quindi sia eccezione meritevole) o al fatto che il regista fosse soverchiato dal comparto tecnico (e dall'ansia dello studio per la costosa innovazione).
Perché questo film viene ricordato soprattutto (... o soltanto) per essere il primo della storia in technicolor. Girato con tre pellicole in contemporanea, una per ogni colore primario, e poi sovrapposte fu il capofila della sperimentazione su larga scala della tecnica del colore.
Al di là dell'aneddotica qui il colore ancora non è nulla di più che il tentativo di riproporre il cinema delle attrazioni (la prima scena è una sorta di sipario da cui escono una decina di ragazze; un tentativo per colpire dalla prima scena, ma senza aggiungere nulla sul significato); pochi anni più tardi "Via col vento" insegnerà a tutti cosa si può fare con il colore e uno spirito impressionista.

mercoledì 15 novembre 2017

Non si sevizia un paperino - Lucio Fulci (1972)

(Id.)

Visto in Dvx.

In un paesino del sud Italia avvengono una serie di inquietanti omicidi di bambini, tutti in maniera identica. Oltre alla polizia inizierà a indagare un giornalista che, unendosi nelle ricerche a una delle indiziate, scoprirà cosa sta succedendo realmente.

Mi trovo a concordare con l'opinione generale; considerando i film di Fulci che ho visto finora, questa è la sua opera migliore. La sinossi estremamente semplicistica non rende merito di un mood che non ha niente a che vedere con il perturbante metafisico della "Trilogia della morte", ma riesce a dare un senso di impotenza di fronte a una perversione generalizzati e insondabile.

La regia fluida è sempre la stessa, con un amore particolare per i piani di ripresa complessi (dei finti panfocus o l'uso del fuori fuoco per suddividere un'inquadratura), una mano piuttosto pesante sugli zoom e soggettive, ma soprattutto i continui, piccoli, movimenti di macchina da presa che rendono più gustoso il montaggio interno.

Ma al di là della regia sempre efficace questo film vince per concretezza. La trama sarà ai limite della sospensione dell'incredulità, ma è gestita benissimo, con estrema concretezza; i personaggi che si susseguono sono solo abbozzati, ma lasciano intendere tutto un mondo tridimensionale dietro di loro (tutta la prima parte con le indagini dei Carabinieri è la descrizione di un microcosmo dalle miriadi di anfratti). Inoltre riesce a mantenere coesa una storia estremamente dispersiva con continui cambi di protagonisti (prima i carabinieri, poi il giornalista) così come di sospettati (magnifico il fatto che il Fulci ci induca ad avere sospetti anche prima che li abbia la polizia, per poi frustrarli sistematicamente).

lunedì 13 novembre 2017

It - Andy Muschietti (2017)

(Id.)

Visto al cinema.

La storia di "It" la conosciamo tutti e chi non la conosce è una brutta persona. Comunque qui una sinossi d'aiuto.

"It" è un horror e insieme un film di formazione. La base da cui la storia parte è duplice, un clown assassino e un gruppo di regazzini sfigati e fobici che scende a patti con le proprie paure e, per quanto possibile, con i bulli. Quando dico "It" intendo questo film, anche se la base è la stessa per la precedente serie tv così come per il romanzo di King (che non ho ma letto e tutti mi dicono essere estremamente più complesso).

Il problema di questo film è che gestisce malamente entrambe le basi.
Il film di formazione viene annegato in una sceneggiatura decisamente sciatta che, nelle scene di maggior empatia, scivola nell'idiozia (i regazzini che vedono il bagno pieno di sangue e decidono di pulirlo con la stessa tranquillità che se fosse il soggiorno dopo una festa; la sassaiola sul fiume a 2 metri di distanza e che è pure montata malissimo); sorvola sulle introduzioni dei personaggi che risultano superficiali annullando completamente la fidelizzazione dello spettatore verso quel gruppo di regazzini e ne gestisce con troppa fretta le varie dinamiche (lo scontro, lo scioglimento del gruppo, la piccola evoluzione avvenuta nei mesi di distacco, la lotta con il mostro). Ovviamente gestire un cast con 7 coprotagonisti obbliga a lasciarne alcuni sullo sfondo, ma da qui a rendere sostanzialmente inutile la figura di Mike (con il risultato che lo scioglimento del gruppo appare una forzatura senza pathos) ne passa, a questo punto si poteva eliminare uno o due personaggi e aiutare lo spettatore a empatizzare con i rimanenti.
Il film horror invece si concentra totalmente sull'immagine del clown che viene sfruttata fin dall'inizio in maniera massiva; e qui bisogna ammetterlo, ogni scena con il mostro è esteticamente vincente, ognuna in maniera diversa dalle altre senza alcun rischio di cadere nel ridicolo. Gli altri mostri invece sono altalenanti (il Modigliani è molto contemporaneo, ma efficace, il lebbroso è ridicolo). Tuttavia l'efficacia estetica dl mostro sembra essere stata l'unica ansia della regia che, purtroppo, si dimentica di creare tensione. Va detto chiaramente, "It" non fa paura. Mai. Incapace di creare una genuina tensione addirittura nella iconica scena del tombino, Muschietti, fallisce anche nel fare paura con l'improvvisa comparsa del mostro, raggiungenre il non encomiabile record di film horror più bello senza orrore.

A mio avviso il film è un totale fallimento di per se, senza considerare il paragone con le due opere alle spalle. La parte più riuscita è l'efficace campagna pubblicitaria.

PS: si dai un paragone va fatto, meglio CurrySkarsgård? beh, sono due cose diverse. Curry ha inventato un mostro completamente nuovo, un clown che si comporta da clown (i movimenti buffi, la mimica facciale, gli scherzi idioti), ma talvolta mostra una fila di canini; riesce, quindi, a creare tensione in maniera completamente nuova, completamente personale. Skarsgård, invece, crea un mostro decisamente più classico, più animalesco, più inquietante fin dalla prima occhiata, più in linea con il romanzo, ma meno originale.

venerdì 10 novembre 2017

The devotion of susptect X - Alec Su (2017)

(Id.)

Visto in aereo, in lingua originale sottotitolato in inglese.
Un genio ridotto a fare l'insegnante di matematica e dalla vita piatta si innamora della vicina di casa. Quando la donna ucciderà il violento ex marito, il matematico si prodigherà per nascondere l'omicidio. Quello che l'uomo non sa è che nelle indagini verrà coinvolto un suo ex compagno di classe, anche lui non meno geniale.

Un giallo che non tocca il whodunit per spostarsi sullo scontro fra menti (che tanto piace in Giappone)  e sul come gli obiettivi vengano raggiunti.
La scrittura dei personaggi è però piuttosto piatta con uno dei due antagonisti che è un uomo geniale e figo in tutto, e l'altro un genio sfigato e impassibile, entrambi senza sfumature e con gli attori incastrati in caratteri che non permettono una performance adeguata (particolarmente vero per il povero Zhang, costretto a non recitare per l'intero film).
La storia è scritta in maniera tale da puntare tutto sul colpo di scena finale a scapito di altre idee che avrebbero potuto essere altrettanto (o più) gustose. La parte sentimentale è lasciata, infatti, a pochi tratti sparpagliati nello svolgimento che vengono ammazzati dal distacco dell'antagonista; lo scontro fra menti è addirittura annullato del tutto per l'intera parte centrale. Una serie di idee buone, utilizzabili anche come sottotesti o altri piani di lettura che vengono spente per poi pretendere un finali ricco di emozioni che però non è supportato, non è costruito con la dovuta calma e fallisce clamorosamente.
Decisamente buona, invece, la messa in scena, con una cura dell'intero comparto visivo degna della migliore industria cinematografia e una regia non inventiva, ma puntuale e completamente al servizio della vicenda.

Al di là della qualità in sé, il film è importante essendo la prima grande produzione cinese che mette in cantiere una vicenda tratta da un romanzo estero (anzi, più che estero, giapponese!), ovviamente riadattata per non incontrare la censura cinese (come l'obbligo di non mostrare la polizia come inefficiente, da lì la figura del giovane poliziotto non meno geniale dei due veri protagonisti della vicenda, figura piuttosto stonata nell'economia della vicenda che ruba spazio che sarebbe potuto essere utilizzato meglio). In caso di buoni incassi potrebbe cominciare la stagione cinese di riadattamenti di manga e anime; un periodo potenzialmente d'oro.

mercoledì 8 novembre 2017

Insospettabili sospetti - Zach Braff (2017)

(Going in style)

Visto in aereo.

Tre, anziani, amici, tutti sofferenti di ristrettezze economiche (chi rischia lo sfratto, chi ha problemi di salute e chi sta per cadere in una storia d'amore senile) si decidono, dopo molti ripensamenti, a commettere una rapina, di farlo con etica, ma anche con serietà.

Remake di "Vivere alla grande", film del 1979 che, purtroppo, non ho visto, ma dalla cui sinossi si intuisce un peso specifico maggiore o, quantomeno, più cinismo e meno faciloneria.
Alla sua terza opera da regista, Braff, cade nei suoi consueti difetti, la voglia programmatica di essere originale pur nella stretta via dei buoni sentimenti, se possibile legati a degli outsiders e/o picchiatelli che facciano tenerezza (ok, mi sto basando solo a "La mia vita a Garden State" dato che "Wish I was here" non l'ho ancora visto, ma mi sembra che stia nel solco già tracciato).
Per portare a casa il risultato, in questo film, Braff, segue un paio di tendenze degli ultimi anni e le allaccia a un heist movie classico, ma limitato alla sola seconda parte del minutaggio. Le due tendenze sfruttate sono i film geriatrici e le commedie in cui l'anticapitalismo si sviluppa in atteggiamenti illeciti come forma di liberazione dell'oppresso (si veda "Dick e Jane" o "Colpo di fulmine"). Se la prima delle due è un rimasticamento furbo, più che intelligente, di generi e vecchi attori per raggranellare facili spettatori, la seconda è, spesso, un modo piuttosto intelligente che ha trovato la commedia per declinare gli anni della crisi economica.
Ecco Zach Braff prende tutto quanto, lo mischia a un buonismo scaldacuore estremamente irritante, lo epura da ogni rischio di essere minimamente spigoloso, lo incolla in un film dalla sceneggiatura poco solida (poche le idee degne di nota e spesso attaccate le une alle altre senza alcuna grazia) e assume 3 nomi altisonanti sperando di fare cassa...
A conti fatti l'ultima manovra, la presenza di Caine, Freeman e Arkin, è l'unico motivo per cui l'ho voluto vedere e, dunque, è la vera decisione di marketing a cui bisogna riconoscere un certo successo. Anche i tre protagonisti, però, pur facendo il loro compito nel migliore dei modi, sono sviliti da un film dozzinale più che esserne accompagnati; non sarebbe neanche da citare, per rispetto suo, la comparsata di Lloyd. Fa invece piacere rivedere sullo schermo Dillon che mi era uscito dai radar da molto tempo, lui veste i panni, innocui, del poliziotti o porta a casa un risultato facile senza perdere troppo smalto.

Da evitare

lunedì 6 novembre 2017

Dhuruvangal pathinaaru - Karthick Naren (2016)

(Id. AKA "16 extremes")

Visto in aereo, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un ispettore di polizia ricostruisce l'indagine che lo portò a perdere una gamba in un incidente stradale. La ricostruzione segue l'andamento delle indagini, le supposizioni fatte e comprende alcune omissioni che verranno a galla con il proseguire della spiegazione.

Ottimo thriller Tamil che parte da un flashback per raccontare una vicenda complessa non per lo svolgimento dei fatti incriminati, ma perché rappresenta il muoversi a tentoni della polizia, le piste morte, le illazioni, la tendenza a seguire l'intuito (utile o fuorviante che sia).
Il solido protagonista è il perno della vicenda, deus ex machina che non la sua sola presenza fa proseguire la storia e con le sue elucubrazionie occhiate determina il destino di tutti.

Con lo spirito indie del nuovo arrivato (i regista è alla sua opera prima), ma ma con i soldi delle grandi produzioni locali, Naren decide di svolgere la storia senza dare aiuti allo spettatore (tutti concentrati in due capitoli, uno lo svolgimento del delitto secondo l'opinione dell'ispettore e l'altro lo svolgimento "reale"), gestendola come una puntata di "Law and Order", senza punti di riferimento iniziali se non le procedure d'indagini stesse e con l'aura del whodunit. Dall'altra parte il film rappresenta dei poliziotti come esseri, fin dalla prima scena l'arma è descritta con disincanto e più incline a mostrare le ferite più che i successi dando, fin da subito, un senso di lieve amarezza che tenderà solo ad aumentare.
Il finale con una serie di piccoli colpi di scena fino a quello vero e proprio (e meno credibile di tutti... ma con una giusta dose di sospensione dell'incredulità diventa godibilissimo) che diventano coronamento del film e non estremo tentativo di originalità a ogni costo.

venerdì 3 novembre 2017

Casa Casinò - Andrew Jay Cohen (2017)

(The house)

Visto in aereo, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Una coppia non ha più i soldi per mandare l'amata figlia all'università, decide quindi di aprire un Casinò illegale nella casa di un amico spiantato. Comincerà a essere vissuto da tutta la cittadina, ma sarà anche preso di mira dalla mala e dalla politica.

Alla sua prima prova da regista (in un lungometraggio per il cinema), lo scrittore Andrew Jay Cohen (autore di "Cattivi vicini"), prodotto da Adam McKay (il regista di "Fratellastri a 40 anni", "Ricky Bobby" e "Anchorman") costruisce l'ennesimo film perfetto per Will Ferrell. L'ennesimo film dove l'attore è un adulto piuttosto scemo che reagisce alle sfide della vita in maniera iperbolica ed esagerata e che, con gli adolescenti, condivide il senso di ribellione alla conformità di cui fa parte.
Se un film del genere, nonostante non cambi mai nonostante gli anni passati, sia comunque una rinfrescante boccata di comicità demenziale come fanno ormai in pochi (e questo soprattutto grazie alla capacità e la fisicità di Will Ferrell, che però non è di per sé sufficiente); in questo caso siamo davanti alla migliore delle opere possibili.
A fianco a un tono mutuato dalla tv (per una volta con un'accezione positiva) c'è l'intento di tutte le personalità in gioco di mettere a nudo l'ipocrisia dell'America media, dei vicini di casa, dei parenti, dei politici locali, delle forze dell'ordine e delle famiglie; una sorta di film alla Tim Burton, ma senza mostri e melodrammi. Un'impegno congiunto da parte di tutti che riesce a rendere contemporaneamente critico e divertente un intreccio, paradossale e verosimile un rapporto di forza.
Il tutto unito a un ritmo perfetto che concede diversi momenti di sincero divertimento (non mi capita spesso di ridere sguaiatamente, qui ci sono almeno due sequenze da antologia).

mercoledì 1 novembre 2017

Ghajini - A.R. Murugadoss (2005)

(Id.)

Visto in aereo, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Il proprietario di un'azienda di telecomunicazioni si innamora di un'attricetta che ha messo in giro la voce di essere la sua fidanzata segreta. Faranno appena in tempo a dichiararsi che lei verrà uccisa e lui aggredito perdendo la memoria... a breve termine... giurerà di vendicarsi, ma per farlo sarà costretto a tatuarsi le informazioni fondamentali circa l'omicidio... per tutto il resto si arrangerà con delle polaroid. Qui però le cose si complicano con una tirocinante in medicina che prima lo vorrebbe aiutare, poi lo incasina, poi lo aiuta di nuovo...

In che punto della trama si può gridare "Memento"? Se si considera come si sviluppa il film, più o meno dal minuto 10 (che in un film oltre le 2 ore e mezzo è come dire "subito").
Eppure questo film Tamil (prodotto nel Tamil Nadu, stato del sud dell'India, fratello povero della Bollywood che è di lingua e cultura hindi) si muove su altri binari; considerato dal grande pubblico indiano più oscuro della media, cerca incorreggibilmente di accontentare tutti. Parte come un thriller che tocca solo per sbaglio il torbido neo-noir costruito da Nolan per poi deviare (grazie a un flashback) verso la commedia romantica scioccherella per almeno 30 minuti buoni; torna quindi dalle parti del thriller con accenti action per finire il tutto con uno showdown di lotta che si mangia anche l'happy ending (se così si può definire).
Creatura chimerica segue assolutamente i gusti indiani, ma portandoli verso l'oscuro, mischiando a piacimento ogni genere che gli viene in mente di toccare con una irragionevole ingenuità che rendono ogni svolta di tono tollerabile. Il ritmo latita qui e la (rimane comunque un film di quasi 3 ore, un pò troppe per il gusto europeo), ma nel complesso il film si fa vedere senza troppe difficoltà e direi che questa è una virtù non indifferente.
L'ingenuità, naturalmente, genere anche dei mostri, ma se si accetta una sospensione dell'incredulità tarata sulle abitudini del subcontinente si riesce ad accettare tutto.
Il vero neo, a mio avviso, è aver giocato anche con materie che non si riescono a dominare. Il trhiller è semplice (e il protagonista in questa veste assomiglia di più a Hoffman in "Rain man" che a al Pearce di "Memento") e aggrovigliato, ma rimane in piedi da solo, la commedia romantica è la parte più riuscita, ma le scene di azione sono semplicemente mal girate. Le sequenze di lotta sono poco chiare, con un montaggio troppo rapido, il gusto per il dettaglio più che l'insieme, si, insomma, tutto il contrario di quello che andrebbe fatto.

PS: dato il successo del film, lo stesso regista realizzerà un remake hindi 3 anni dopo.