lunedì 29 luglio 2019

Pikovaya dama - Yakov Protazanov (1916)

(Id.)

Visto qui.

La storia di un uomo che, per vincere alle carte, cerca di forzare un'anziana donna a rivelargli il segreto che le permise di vincere una fortuna (in realtà recuperare quanto aveva precedentemente perduto), semplicemente indovinando una sequenza di carte. Mentre cerca di obbligarla, la donna muore, ma gli ricompare in sogno annunciandogli una sequenza di carte.

Considerato uno dei massimi capolavori del cinema zarista (siamo a un anno dalla rivoluzione d'ottobre), il film porta sullo schermo un celebre racconto di Puskin.
Il film dimostra completamente gli anni che ha strutturandosi con la precisione, ma anche la staticità di un'opera teatrale con tutti i pregi (a partire da un cast ottimo che non sfora mai nell'enfasi) e i difetti.
A fronte di una struttura di regia così convenzionale però, Protazanov mette in scena una serie di idee innovative per l'epoca e alcune ancora interessanti. Se le retroproiezioni sono cosa ormai scontata, il regista fu uno dei primi ad applicarle in russia creando, di fatto, uno dei film più impressionante per effetti speciali. Viene utilizzato anche un carrello molto evidente e in una scena c'è un ottimouso della profondità di campo (inquadratura obliqua dall'alto con il primo piano della giovane donna che spia dalla finestra e in secondo, lontanissimo, piano, l'uomo che fissa la casa dalla strada).
Ma il vero valore aggiunto della regia è il montaggio alternato (usato in maniera costante nella prima parte) che, anziché mostrare due eventi contemporanei, crea un collegamento fra episodi distanti nel tempo, riprendendo l'uno nell'altro con il montaggio interno (i movimenti e le posizioni degli attori sulla scena) in una serie di scene ancora efficaci.

Non per nulla, il regista, riuscirà a riciclarsi dopo la rivoluzione rimanendo attivo fino agli anni '40, sarà lui infatti l'autore dietro al primo kolossal sovietico: "Aelita".

venerdì 26 luglio 2019

Sinfonia d'autunno - Ingmar Bergman (1978)

(Höstsonaten)

Visto in Dvx.

Alla morte del compagno una donna alle porte dell'anzianità accetta l'invito della figlia a raggiungerla per alcune settimane. La donna è un narcisista con difficoltà nell'empatizzare che ha sacrificato la famiglia per la carriera di pianista, la figlia è oscura e porta dentro di sé un rancore decennale che cerca di nascondere con eccessi di bontà.

Un drammone enorme sulle relazioni famigliari e sull'odio nascosto dietro l'affetto e da cui nasce di nuovo affetto (vero o falso che sia).
Un film titanico di Bergman, scritto alla Bergman, con evidenti eccessi e manierismi (anche solo la scansione temporale), simbolismi piuttosto semplici (il colore dei vestiti, l'utilizzo o meno degli occhiali) e un enorme problema di montaggio verso il finale.
Se questi difetti (beh, le metafore semplici non sono un difetto in sé) potrebbero far vacillare chiunque, la sceneggiatura che si muove con dialoghi eccessivi (addirittura ci sono diversi momenti in cui la madre parla a lungo da sola ad alta voce!) affosserebbe chiunque.
Ma dietro la macchina da presa c'è Ingmar Bergman e il film, nonostante la logorrea parla con le immagini, si muove con interesse infinito in una matassa di sentimenti eccessivi, fa dei piccoli dettagli (gli occhiali, appunto, il mal di schiena) dei punti nodali, ma messi in secondo piano; avvalendosi di una coppia di attrici eccezionali (per la prima e uni ca volta Bergman lavora con la Bergman) veicola informazioni maggiori con i volti piuttosto che con i monologhi (esemplare e perfetta la sequenza delle due donne al pianoforte) e si può permettere una scena madre finale, lunga complicata senza perdere in dignità
Un film imperfetto, enormemente imperfetto, che riesce a portare a casa un risultato insperato, un'efficacia incredibile al di là di tutti i suoi difetti; una visione soddisfacente ed entusiasmante.
Inoltre, per chi, come me, è appassionato di Ingrid, qui può godere di un'interpretazione come mai vista prima nella carriera dell'attrice.

lunedì 22 luglio 2019

Cabin fever - Eli Roth (2002)

(Id.)

Visto in Dvx.

Un gruppo di giovani decide d passare una settimana in un bungalow in mezzo al bosco; verrà raggiunta da un uomo con una brutta infezione che scioglie la carne e fa sputare sangue, saranno tutti infettati.

Eli Roth, alla sua opera prima (divenuta un piccolo cult solo grazie alla fama raggiunta con "Hostel"), mi ricorda i motivi per cui lo odio e lo fa con una cura e un'attenzione quasi commoventi.

Roth è un  figlio di Tarantino, adora i film di serie B e la loro riproposizione estensiva e post moderna (che per lui vuol dire inondando tutto di ironia). Stupisce poco, quindi, vedere un film horror assolutamente canonico per assunti che cita costantemente altro (quasi ogni sequenza presenta idee degli horror classici anni '70 con qualche richiamo ancora più colto a "Shining" o "La notte dei morti viventi"). Stupisce poco e non è di per sé un problema.
Il tema poi viene declinato dalle parti della commedia horror con alcuni picchi veramente buoni (l'ormai famoso "fucile per i negri" o gli scoiattoli gay).

Il problema è tutto il resto. Se si può fingere comprensione per un cast inguardabile e per diversi buchi di sceneggiatura (eufemismo che sottende a una serie di scene scarsamente legate le une con le altre che condividono solo l'unità di luogo) quello che proprio non si può tollerare è la totale inapacità di raccontare.
Non c'è una storia in questo film, non viene narrato nulla, i personaggi sono assenti e ridicoli, e le emozioni non vengono trasmesse: la paura, l'ansia, il disprezzo, la claustrofobia vengono inquadrate e tanto basta a Roth per pensare che il pubblico debba soffrire con i protagonisti, non coinvolge, non fa empatizzare, fa soffrire delle persone senza preoccuparsi di creare un contatto con il pubblico.
In poche parole non sa dirigere un film, si limita a creare una serie di scene che titillino il suo gusto per il citazionismo o il suo ego del pretendere di ridere per qualche dettaglio scemo (fino al picco di cretineria camp del regazetto che fa mosse d'arti marziali). Anche l'obiettivo dello splatter è trattato ingenuamente, si impegna in dettagli volutamente ridicoli, ma si gira dall'altra parte per un pudore immotivato quando potrebbe ottenere molto con molto poco (il macello del maiale).

venerdì 19 luglio 2019

Arma letale - Richard Donner (1987)

(Lethal weapon)

Visto in aereo.

Per quelle due persone che non la conoscono, ecco qui la sinossi del film.

Alla sua prima sceneggiatura, Shane Black, mette insieme un teatrino di personaggi e situazioni che diverranno una cifra stilistica personale prima ancora che un genere a sé. Rimestando nel noir (qui solo parziale), nella spy story e con alle spalle un dramma solido, Black imbastisce una storia che sembra solo un pretesto per far muovere con disinvoltura i suoi personaggi. Perché Black, prima che scrittore di storie scrive di persone, crea caratteri diversi, ma il più possibile sfaccettati o dettagliati (di solito uno è profondamente descritto, mentre l'altro è solo una spalla), in antitesi fra loro, li unisce per motivi bizzarri e li fa muovere insieme con una scorta infinita di ironia, creando, di fatto, il buddy movie moderno, quello che oggi è uno stilema classico.

Questo "Arma letale" ha i pregi e i difetti di essere il primo. Fa da apripista con una serie di invenzioni enormi, usate per la prima volta e, dunque, maggiormente efficaci, si porta dietro una dose costante di tragedia che nelle opere successive andrà sempre più scemando (e di conseguenza la parte da commedia ne risulta diminuita) riuscendo nel miracoloso intento di lasciare che i due generi così in antitesi si fomentino a vicenda anziché spegnersi.
Lo svantaggio è che ci si trova davanti a un film più grezzo, meno dettagliato e pulito, con un onesto lavoratore dietro la macchina da presa, Donner, che porta a casa il suo senza eccessive invenzioni.

Dal lato del cast si può apprezzare un Gibson totalmente in parte affiancato da un Glover efficace senza mai mangiarsi la scena, alle loro spalle una galleria di caratteristi invidiabili e divenuti a loro volta archetipi.


lunedì 15 luglio 2019

Room - Lenny Abrahamson (2015)

(Id.)

Visto in aereo.

Una ragazza viene rapita e tenuta imprigionata per 7 anni, in quel periodo le nasce un figlio a cui spiega la condizione in cui si trovano tramite invenzioni, favole e bugie. Quando finalmente riusciranno a fuggire, lei soffrirà il tempo perduto e la difficoltà a re-inventarsi una vita in un mondo che ha avuto lontano per troppo tempo; per il figlio, invece, sarà la scoperta che tutto ciò che sapeva era sbagliato e il tentativo di scendere a patti con una realtà nuova.

Il drammone realizzato da Abrahamson è grottesco ed efficace seppur con una dose estrema di paraculaggine (l'intera vicenda è interessante, ma è solo un McGuffin), il tutto però viene gestito con un'intelligenza molto poco americana. Laddove un film (USA) classico avrebbe mostrato l'intero episodio dalla vita normale alla sua distruzione per poi tornare alla situazione iniziale, Abrahamson inizia a metà; butta lo spettatore nel mezzo della vicenda già iniziata, in pieno svolgimento della tragedia senza dare spiegazioni. Il minutaggio usato a seguire i due protagonista nella loro (limitata) vita quotidiana sarà utile per spiegare dove ci si trova e perché riuscendo a ottenere un effetto straniante notevole.
Una volta usciti l'effetto però si riduce notevolmente, la sorprese scema e il dover tornare su un terreno già battuto da molti altri risulta debilitante. Il tentativo continuo di agnizione o di poesia è intralciato dallo sgonfiarsi della vicenda, l'effetto verrà raggiunto solo con il finale, il ritorno alla stanza, con quel misto di orrore e rimpianto e di proporzioni alterate che rappresentato la chiusura migliore possibile.

Se la Larson è efficace, ma non particolarmente esaltante, il piccolo Tremblay risulta ineccepibile ed è il vero valore aggiunto di un ottimo film.

venerdì 12 luglio 2019

Sam sei goon - Johnnie To (1992)

(Id. AKA Justice, my foot!)

Visto in aereo, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Medioevo cinese. Un avvocato abile nell'uso della lingua, nel paradosso e nella manipolazione ottiene un grande successo economico a scapito della vita privata. Lui e la moglie (esperta di arti marziali), infatti, non riescono ad avere figli (in realtà ne hanno molti, ma muoiono tutti ) a causa del "karma" negativo. Per porvi rimedio l'avvocato fa un solenne giuramento, forzato dalla moglie, di ritirarsi dall'attività; sarà proprio la moglie a convincerlo ad accettare un altro caso.

Divertente film comico, parodia dei film in costume che tocca il genere wuxia solo superficialmente e solo per inserire qualche scena di wire-fu.
Le parti più puramente action sono pochissime, molto brevi e mal inquadrate, utili solo a dare caratterizzazione al personaggio femminile.

Dietro la macchina da presa Johnnie To, il Takashi Miike cinese (per numero di film all'anno e varietà di generi, non per stile), confeziona un film godibilissimo, rapido ed efficace, con molti momenti poco credibili e buchi di trama (o pretestuosità) che vengono assorbite dal fluire svelto della vicenda.
La cornice storica è fondamentalmente inutile, così come le arti marziali, messi per questioni di censura o di marketing (non so), a distanza di un quarto di secolo, fanno solo colore.

Nei panni del protagonista maschile un giovane Stephen Chow incredibilmente uguale al cinquantenne che tutti noi conosciamo.

lunedì 8 luglio 2019

Comandante - Oliver Stone (2003)

(Id.)

Visto in Dvx.

Oliver Stone realizzò questo documentario in una 3 giorni a Cuba nel 2002 passando circa 10 ore al giorno con Fidel Castro facendogli domande su tutto, gli eventi cubani, gli USA,la vita privata, la filosofia, la storia.
Da quei 3 giorni di interviste continue (ci sono molte scene a tavola e in macchina, ma anche durante visite a musei o università) vengono ritagliati questi (poco più di) 90 minuti.
Il documentario è molto lontano (e precedente) a "South of the border", il documentario su Chavez, ma ne è anche lontano come tipologia di racconto. Quello partiva da Chavez per raccontare un particolare periodo storico di rivincita del socialismo in Sud America; qui invece l'unico intento è parlare con (e di) Castro.
Data la compattezza dell'intento (niente sbrodolamenti didattici) l'effetto è decisamente migliore e, per fortuna, anche la regia ne guadagna. Stone infatti realizza un documentario ricco di immagini (sono almeno 3 le videocamere che tallonano Castro in ogni momento) intercalate con un gioco di montaggio estremamente filmico figlio dei migliori lavori anni '90 del regista. Il montaggio postmoderno con immagini enfatiche ma non direttamente collegate e minimale, spesso vengono intercalate alla voce di Fidel immagini di repertorio che mostrano ciò che sta dicendo, ma ancora più spesso le immagini sono affiancate per paragone (lo stesso movimento, la stessa dinamicità), lo stesso vale per il sonoro, talvolta sovraimpresso su immagini di Castro intento a pensare, ascoltare o discutere di altro.

Se la regia è interessante (e per fortuna dato che questo documentario monografico morirebbe d'inedia data la scarsa dinamicità del racconto) il contenuto è opinabile. Stone non è interessato a fare un ritratto storico obiettivo, né vuole portare a galla elementi particolari. L'intento sembra quello di un fan che cerca solo di sapere tutto di un suo idolo, senza soluzione di continuità e con poco interesse ai lati oscuri (le domande scomode sono poche, tutte montate insieme rapidamente nel finale e le risposte superficiale non vengono ulteriormente indagate).
L'effetto finale è quello di un documentario parziale (e di parte), ma estremamente interessante, con il punto di vista cubano non solo sui fatti che li vedono direttamente interessati, ma anche su altre questioni più intimamente americane e raccontate da un uomo che, per la prima volta, da pezzo di storia appare come un "personaggio" a tutto tondo; un vecchio ironico, sicuro e furbo che vive in un passato fatto di battaglie e di gloria che utilizza per capire il presente (che, come sempre in queste tipologie umane, vede in costante peggioramento).

venerdì 5 luglio 2019

Oldboy - Spike Lee (2013)

(Id.)

Visto in Dvx.

Sono favorevole ai remake. Ci sono quelli falsi che prendono lo spunto di vecchio film per raccontare tutt'altro (come "21 Jump Street"), ci sono quelli che cercano attualizzare cronologicamente un film precedente ("Cat people") e ci sono quelli che cercano di adattare culturalmente un film di un'altra nazione (moda tipicamente statunitense e italiana). Questo ovviamente ricade nell'ultima categoria. Personalmente non ho nulla contro nessuna di queste attività; si tratta sempre di una riproposizione in chiave personale di un progetto ritenuto interessante...
Però ci sono dei però. Obiettivamente è difficile riproporre un film considerato intoccabile se non è stato superato tecnicamente o doppiato da molti decenni (un pò come è successo per "Ben-Hur" in tutte le sue versioni); talvolta invece è impossibile affrontare il remake di un film profondamente polarizzato da una regia muscolare e personalissima... e qui finalmente arriviamo a "Oldboy".
Rifare l'"Oldboy" di Park Chan Wook significa per forza di cose cercare di copiarlo il più possibile o decidere di prendere una strada completamente diversa. La scelta di Spike Lee evidentimente indica la volontà di bissare un'opera.
Inutile dire che il paragone diventa impossibile.

Credo che per chi vede questo film prima dell'originale sia complessivamente un buon film; esagerato, troppo enfatico qui e là, ma tuttavia buono. Per chi ha visto il film coreano appare incredibilmente artificioso, posticcio, pretenzioso e incredibilmente più agitato nel voler arrivare ai punti focali della storia (un pò come se Lee fosse rimasto impressionato da quelle due o tre scene che hanno impressionato tutti noi e accelerasse in tutte le altre per arrivare presto ai climax già conosciuti).
Pertanto l'ottima fotografia dai colori carichi, l'uso pragmatico, ma estetizzante, della violenza, il dinamismo della macchina da presa; tutte le caratteristiche del Lee standard aiutano a rendere gradevole un film che parte dai presupposti sbagliati e in cui Brolin non riesce mai a convincere del tutto.

PS: un encomio comunque per la famosa scena della lotta nel palazzo; copiata a mani basse da quella originale e proprio per questo con poche sbavature.

PPS: Jackson in questo film era quasi un atto dovuto, ma vestirlo da imbecille non era un obbligo.

lunedì 1 luglio 2019

Il porto delle nebbie - Marcel Carnè (1938)

(La quai des brumes)

Visto in Dvx.

Un fuggiasco si innamora di una ragazza dai rapporti famigliari "difficili", ovviamente ne viene ricambiato; lui però continua a organizzare la propria fuga in solitaria.

Secondo film della premiata coppia Carnè/Prevert, getta le basi del realismo poetico francese (oltre che del noir americano). Appoggiandosi a una fotografia solidissima, fatta di neri estremamente cupi e volti che valgono quanto i paesaggi in cui sono incastrati. Dall'altra parte c'è la costruzione di un melodrammone classiccheggiante che si appoggia a figure di outsider; costruisce una vicenda in cui lo spettatore si trova invischiato senza avere appigli fin dall'inizio; mette in piedi dei dialoghi affascinanti per la loro inutilità (tutta la prima parte nella taverna di Panama è bellissima) e si impegna nel delineare personaggi originali (non certo quello di Gabin che a fare il fuggiasco rude credo gli sembrasse di timbrare il cartellino, migliore, anzi, quasi titanico, quello di Simon).

Negativa però l'eccessiva enfasi; la storia d'amore è trattata con una pretesa di poesia a ogni costo che risulta sgradevole e lascia sullo sfondo idee o personaggi che avrebbero potuto dare profondità alla vicenda In una parola, il successivo "Alba tragica" è tutto di un altro livello.