lunedì 29 giugno 2020

Predestination - Michael Spierig, Peter Spierig (2014)

(Id.)

Visto su Netflix.

Classico film di cui meno si sa e meglio è (è quello che i giovani chiamano mind-fuck movie).
Le sinossi, di solito parlano di un agente di un'agenzia americana che si occupa di sventare reati utilizzando i viaggi nel tempo. Questo agente deve tentare di eliminare un attentato a New York negli anni '70 in cui perderanno la vita migliaia di persone.
La cosa buffa è che la sinossi è veritiera, ma per oltre metà film si parla di tutt'altro (non ci si lasci ingannare).

Il film è tortuoso e pretestuoso (l'assunto alla base del film che da adito a tutto quello che succederà dopo è francamente implausibile) gestito anche bene (sebbene con un certo pilota automatico), ma di per se limitante. Se si riesce ad accettare quell'assunto il film avrà una trama entusiasmante, altrimenti sarà terribile.

Al di là del twist plot continuo, il film è diretto con sicurezza un pò spenta, ma ha l'indubbio valore di creare un mondo senza dilungarsi in dettagli hard sci-fi.
La meccanica dei viaggi nel tempo rimane non spiegata, viene introdotta velocemente, ma in maniera adeguata e si basa su un'estetica semplicissima, efficace e classicheggiante (una valigetta).
Tutta la sovrastruttura dei viaggi nel tempo segue la stessa idea, poche spiegazioni, efficacia e colpo d'occhio. Su questa idea si inserisce il personaggio di Taylor che riesce ad essere senza tempo e si crea una serie di versione degli Stati Uniti nei vari decenni che, distanti dalla realtà, sono la versione attuale di quegli anni (su tutto si veda l'addestramento negli anni '60, una versione futuristica di quel decennio pensata oggi), un sistema che di per sé è world building (tutti sono inseriti nello stesso contesto avulso da quello reale) e che permette con poche immagini di chiarire una situazione complicatissima.
Un film che è di serie B nei modi, nelle limature e (credo) anche nel budget; ma è una serie B di lusso.

giovedì 25 giugno 2020

Cimitero vivente - Mary Lambert (1989)

(Pet sematary)

Visto su Netflix.

Ci saranno molti spoiler, anche se ormai il film è piuttosto noto.

Una famiglia appena trasferita perde il figlio in un incidente. Il padre, all'insaputa di tutti lo sotterrerà in un cimitero indiano che già gli ha riportato in vita il gatto. Ma chi torna in vita da quel terreno non è lo stesso che vi è stato sepolto.

Ad oggi l'unico film sceneggiato da Stephen King tratto da un suo libro... ed è incredibile quanto deludente sia.

"Cimitero vivente" è un film che potrebbe essere estremo (estremo è il tema trattato) e cattivissimo ( e tecnicamente lo è), ma è gestito così male da diluire tutto.
C'è la morte di un figlio piccolo per disattenzione, c'è la volontà di riportarlo in vita in ogni modo possibile anche se si sa che le conseguenze saranno negative e c'è la lotta con il figlio che nel frattempo ha fatto tutti i danni possibili. C'è un apice di sofferenza e agnizione che potrebbe toccare le tragedie greche; dal punto di vista horror c'è del gore nel finale che viene fatto malocchio, ma potrebbe essere reso molto se solo fosse gestito meglio e inserito nel suo contesto (l'idea che il figlio uccida la madre in maniera efferati può essere agghiacciante anche senza sangue, se poi lo metti in slasher l'effetto potrebbe essere estremo), la tensione invece si può dire non ci sia mai anche se, pure quella, nel finale viene apertamente tentata (fallendo del tutto).

I problemi sono a tutti i livelli.
la regia dozzinale non sa sfruttare i due momenti buoni creati dalla sceneggiatura e questa è una colpa non giustificabile. A questo si aggiunga un ritmo dilatato che riesce a rendere noiosa anche... no sarebbe stato noiosa ogni scena in ogni caso, ma così è noiosa il doppio.
La sceneggiatura, però, è imbarazzante. Dialoghi che fanno arrossire; eventi eccessivi che dovrebbero creare il mood, ma in realtà lo urlano in faccia allo spettatore pretendendo che vi aderisca (il litigio al funerale con rappacificazione in aeroporto è ridicolo); personaggi pretestuosi e fuori contesto (il fantasma del ragazzo morto sul letto operatorio) che sono ridicoli nell'aspetto, poco utili ai fini della trama, stridenti nella storia e che butta all'aria una sospensione dell'incredulità già sul chi va là. Stupisce (almeno me) l'inettitudine di King, ma probabilmente non dovrebbe non essendo la sceneggiatura il suo campo d'azione, dove è riuscito a fare qualcosa di buono, ma partendo da storie più semplici.
Infine è agghiacciante il cast e la messa insieme cena totale. Tutto è dozzinale, la recitazione sopportabile, ma non adeguata agli eventi della seconda metà e il finale con quel povero bambino di massimo 2 anni che deve fare la faccia cattiva fa tanta tenerezza, ma non inquieterebbe neppure se messo ne "Il villaggio dei dannati".
Cucciolo lui, va come si impegna

lunedì 22 giugno 2020

The invitation - Karyn Kusama (2015)

(Id.)

Visto su Amazon prime.

Una donna sparita per un paio d'anni invita a casa sua (e del suo nuovo compagno) tutti gli ex amici, compreso il suo ex marito (i rapporti fra i due sono tesi, ma per problemi indiretti che hanno causato la loro separazione). I motivi non sono chiari, ma noi che spettatori che abbiamo un sacco di sgurz capiamo subito che ci sono problemi, grossi.

Il primo film della Kusama che vedo ce l'ho sul comodino da almeno 3-4 anni, ma vengo motivato a vederlo solo per la facilità datami dalle piattaforme online.
Togliamo subito tutti i dubbi, siamo davanti al classico dramma da camera in cui un piano sottostante sta venendo costruito ai danni di una persona o un gruppo e che esploderà nel finale. I dubbi da togliere sono sul plot (necessario che il botto finale stia in piedi dopo i lunghi minuti di attesa e che la sospensione d'incredibilità non sia mai superata), l'idea di base è un poco eccessiva, ma sopportabile, il finale in linea con le aspettative, la sospensione d'incredulità deve sopportare diverse volte il fatto che i personaggi siano troppo stupidi per accorgersi di qualcosa di creepyi che sta avvenendo, ma per chi è abituato agli horror classici anni '70/'80 questo non può essere un problema.

Detto ciò il film si prende i tre quarti del tempo per allestire il campo d'azione e lascia solo agli ultimi minuti (20-30 minuti, non ero attento al minutaglie) lo scioglimento del caso. Questa che sembra un colpa è invece il grande pregio dell'opera della Kusama.
Il film imbastisce una trama in cui è evidente che qualcosa non va (fin dalla scena d'apertura tra il metaforico e il predittivo), ma continua a giocare al gatto col topo, saltuariamente smorzando la tensione, ma più spesso aggiungendo dettagli, evidenti, ma tutti minimali, nessuno sufficienti a far fuggire tutti urlando, ma ognuno a modo suo perturbante e che sommati diventano intollerabili.
L'effetto è potente. La tensione è in crescendo quasi costante per tutto il film mettendo a disagio in ogni situazione e rendendo fastidiosi i tentennamenti dei personaggi (ma questo va visto in ottica positiva).
L'efficacia nel corpo centrale del film è anche il motivo del mezzo fallimento del finale. Dopo un crescendo così efficace è difficile mettere in scena uno show-down realmente soddisfacente. Kusama si fa in quattro, non risparmia niente e nessuno nel finale che preso da solo è uno slasher piuttosto buono, nulla da ridire, ma è difficile recuperare dopo aver eliminato tutto quella tensione con la scoperta del piano.

giovedì 18 giugno 2020

L'occhio che uccide - Michael Powell (1960)

(Peeping Tom)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Un uomo schivo e con problemi di relazione fa l'operatore cinematografico e arrotonda facendo foto sexy per un giornalaio intraprendente. Nel tempo libero ama fare foto o riprendere deformità ed eventualmente uccidere in favore di videocamera.
In questo mondo di perfetto voyerismo (lui spia le altre persone, guarda i suoi filmati fatti spiando, guarda i filmati fatti da suo padre mentre lo spiava) viene interrotto da una inquilina del suo stabile, lui se ne innamora   non vorrebbe facesse la fine di tutte le altre... si sacrificherà.

Mitico film del Powell post Pressburger e piccolo cult personale che non vedevo da almeno un decennio (o più).
Rivederlo ora è stata una botta incredibile. Questo è un film del 1960 che sembra essere stato realizzato almeno un decennio prima (o più).

Tutto in questo film risulta datato già per l'epoca a partire dalla fotografia dai colori saturi, ma esattamente uguale a quella che Powell utilizzò nei suoi film degli anni '40 e '50, la scelta degli attori e della recitazione sofferta, ma manierista riportano indietro di diversi anni.
Solo la vicenda è incredibilmente moderna e rappresenta (come sottolineato da persone più intelligenti di me) un curioso negativo di "Psycho" uscito lo stesso anno (protagonista psichiatrico, turbe sessuali, rapporto morboso con un genitore scomparso, ma presente, ecc...).

Il clima morboso è però ben costruito anche se la storia di redenzione è trattata in maniera superficiale e fa cedere un pò la credibilità già claudicante. Da ricordare c'è almeno l'incipit tutto in soggettiva (motivata! questa è la vera innovazione) che riesce abilmente a introdurre al tono del film con la giusta dose di claustrofobia e inquietudine (se si arriva senza nessuno spoiler l'effetto è sicuramente ottimale).
Rimane un esperimento interessante e l'ultimo fuoco ragguardevole di un grande regista.

PS: bella anche la sequenza sul set dopo la chiusura del teatro, ben realizzata nell'ottica del thriller che si deve ancora sviluppare del tutto e permette una piccola scena di ballo alla Shearer presente anche qui con una comparsata.

lunedì 15 giugno 2020

Irrational man - Woody Allen (2015)

(Id.)

Visto su netflix.

Un professore di filosofia dell'università si trova in una profonda depressione a causa della propria sensibilità (e una vita con un passato impegnativo). Non servirà a aiutarlo la relazione con una giovane studentessa, ma il loro rapporto lo aiuterà a prendere una decisione, uccidere un uomo che non conosce per una sorta di "bene superiore". Questo atto diretto con conseguenze reali (che lui ritiene positive) gli fa riscoprire il gusto della vita.

Questo film è la classica riproposizione di topos allenniani (quelli più della fase depressiva) rimescolati, il caso che decide delle vite delle persone, l'impossibilità di rapporti stabili, le sovrastrutture sociali e filosofiche utili solo a sopportare la vita ecc...
Il film riesce in maniera particolare a far uscire i personaggi, meno caricaturali e più incisivi del solito (il protagonista maschile, quantomeno, magnifico nella sua depressione e la moglie del professore suo amico).
Il problema è la trama; sicuramente interessante, ma piuttosto superficiale nello svolgimento, leggera nelle fasi gravi e sfuggente in quelle leggere, non riesce mai a creare il pathos giusto neppure nella scena dell'omicidio o quella negli ascensori del finale dove l'emotività andrebbe incanalata e fatta esplodere. Forse è più un problema di distacco e mancanza di empatia, ma il risultato non cambia, il film si fa guardare, ma scivola via facilmente.
Da sottolineare invece il finale, fugace e leggero come il resto del film, ma, incredibilmente (per Allen, soprattutto in un film del genere), ricco di speranza.

giovedì 11 giugno 2020

La battaglia di Alamo - John Wayne (1960)

(The Alamo)

Visto su NowTv, in lingua originale sottotitolato.

Il racconto (che molti ci tengono a sottolineare essere non accurato dal punto di vista storico... ma va?!) delle vicende che hanno portato i colonnello Bowie e il più noto Davy Crockett a combattere dentro a Fort Alamo per dare il tempo all'esercito texano (all'epoca parte del Messico) di organizzarsi per combattere quello messicano ufficiale. Il sacrificio di meno di 200 persone per dare il tempo ad altri di vincere.

Fortemente voluto da John Wayne per anni questo è il primo (di due) film da lui interpretato, diretto e prodotto. Fu un investimento gigantesco e un fiasco al botteghino che precluse a Wayne di bissare per quasi un decennio.

Il film è un polpettone sentimentale (in senso di sentimenti machisti, poco romanticismo) inserito nel genere western classicissimo che di li a pochi anni sarebbe stato buttato a gambe all'aria da Leone.
Enfatico nei toni e manierista nella recitazione (bisogna riconoscere a Wayne di essere quello più controllato, ma d'altra parte lui è stato uno dei più grandi caratteristi d sempre) è un inno al cinema più passatista e patriottico che sarebbe stato accettabile almeno dieci anni prima o più.
Posto tutto questo rimane un film molto godibile.
Accettando che la battaglia vera e propria sia solo negli ultimi 10 minuti (ma è solo il titolo italiano che è fuorviante) è un film classicheggiante che nelle sue due ore e mezza si concede solo un paio di momenti di stanchezza.
Togliendo infatti i due o tre monologhi più patetici (su tutti quello di Wayne al fiume con la donna che manderà via) il film si muove con un ritmo costante, rilassato, ma preciso, intrattiene con garbo, diverte il giusto e mette insieme i pezzi giusti per arrivare al climax finale.

In verità, in tutto questo marasma di già visto, è affascinante che il film su Alamo sia un gioco a tre fra i colonnelli, un film con intrighi di palazzo (poco elaborati) e diplomazia (sempre con piglio divertito), dopo circa un'ora si avvicina a  una "La sfida del samurai" scanzonata.

PS: un encomio agli sceneggiatori che hanno dovuto inventarsi tre morti eroiche senza che ognuna facesse sfigurare quella degli altri.

lunedì 8 giugno 2020

Chi ha paura delle streghe? - Nicolas Roeg (1990)

(The witches)

Visto su Netflix.

Un ragazzo rimasto orfano viene allevato dalla nonna che gli racconta storie e aneddoti sulle streghe come si trattasse di un corso di sopravvivenza. In ferie sulla costa inglese finiranno nello stesso albergo di un gruppo di donne che si scopriranno essere (rullo di tamburi) delle streghe, con un piano, tanto diabolico quanto inutilmente complicato per sbarazzarsi dei bambini. Trasformato in topo inizierà l'avventura vera.

C'è stato un tempo in cui i film per regazzini non erano accomodanti sugli scopi dei villain e neppure sulla loro estetica, anzi erano apertamente repulsivi; e personalmente ancora rimpiango quel periodo.
Ovviamente il character design non è tutto e una trama tra il dozzinale e il ridicolo affoga fin dall'inizio un film che è si per bambini, ma non per questo dev'essere idiota. C'è poi una vera e proprio mancanza di competenza nella scrittura che si dilunga per oltre la metà con la preparazione degli eventi per lasciare alla parte dell'avventura un minutaggio limitato (serviva un convengo così lungo?).
L'ultima aprte, quella più dinamica rimane godibile e si concede un finalone che riecheggia (per uso degli effetti protesici, delle inquadrature sghembe e delle metamorfosi) "Splatters".

Quello che però più colpisce di un filmetto del genere è la qualità del cast artistico messo in mezzo.
la Zetterling era (ed è) ormai una semisconosciuta, ma la Huston era all'apice, ma soprattutto c'è alla regia un insospettabile Roeg. Irriconoscibile, pagato per mettere il pilota automatico e rimanere il pi possibile lontano dalla sua comfort zone.

giovedì 4 giugno 2020

Il sacrificio del cervo sacro - Yorgos Lanthimos (2017)

(The killing of a sacred deer)

Visto su Amazon prime.

A un cardiochirurgo muore un paziente durante un intervento (per dolo?). Per il senso di colpa si occupa in segreto del figlio adolescente. Quando finalmente lo mostra alla propria famiglia (moglie e due figli piccoli), il ragazzo scatena su di loro una maledizione da tragedia greca: ad uno ad uno moriranno tutti se il padre non uccide uno dei familiari.
Ovviamente prenderanno tutti sottogamba la cosa finché non cominceranno i sintomi; inizierà allora una corsa convulsa a ingraziarsi il padre con ogni mezzo, riaversi sul ragazzo in una lenta spirale di abiezione.

Al suo secondo film americano Lanthimos abbandona il perturbante grottesco e metaforico per addentrarsi in un mondo a là Haneke dove l'idillio borghese viene improvvisamente distrutto da una minaccia esterna.
Come Haneke si compiace della sofferenza che causa ai suoi personaggi, ma al contrario dell'autore austriaco ha un gusto per il comico (certo, virato al grottesco come sempre) che scaturisce molto spesso nel film (dal rapporto fra marito e moglie a letto, i tentativi di ingraziarsi il padre dopo la maledizione o il finale per scegliere chi eliminare), non si ride quasi mai di quelle persone, ma ci si imbarazza per loro, per la loro goffaggine e la loro inettitudine (cosa che con Haneke sarebbe impensabile).
Inoltre il gelo dei film dell'austriaco (cifra stilistica anche di Lanthimos) qui pervade anche i personaggi. L'ambiente è algido, il punto di vista del regista distaccato e freddo, ma i personaggi sono respingenti e anempatici anche nelle scene di agnizione, lavorano per sottrazione per concedere il meno possibile allo spettatore.
L'effetto finale è particolare e quasi unico, non melodrammatico come potrebbe, ma colpisce, in maniera meno efficace che in altri film del regista greco, ma sicuramente si fa ricordare.

lunedì 1 giugno 2020

Lola darling - Lola Darling (1986)

(She's gotta have it)

Visto su Netlfix, in lingua originale sottotitolato.

Il primo vero e proprio film Spike Lee è una commedia sentimentale su una giovane donna indipendente che intrattiene tre relazioni stabili alla luce del sole. Dato che tutti sanno tutto, la maggior parte del tempo è impiegato dai tre uomini per convincerla a mollare gli altri due.

Alla sua opera prima Lee vuole già dimostrare molto. Realizza un film chiacchieratissimo dove i personaggi parlano in camera consapevoli di far parte di un film (nella seconda metà un personaggio ne incontra un altro che sta parlando in camera e chiede se lo disturba a sedersi sulla sua stessa panchina); le loro confessioni sono parte integrante del film (che anzi, si apre e si chiude su Lola a letto che parla agli spettatori) delineano i rapporti e plasmano i personaggi.
la macchina da presa però non si limita ad essere un confessionale, ma si muove, cerca inquadrature particolari porta avanti la storia con immagini fisse (come fosse una Jetée qualsiasi) e si appoggia completamente a una fotografia curata con un bianco e nero molto contrastato che rende densissime le scene in notturna e inserisce una sequenza di ballo a colori (pretestuosa le scena di ballo, ma lo switch fra B/N e il colore è invece motivato e goliardicamente citazionista).
Il vero punto di forza, però, è la sua protagonista; un personaggio leggero e liberatorio, ma estremamente sfaccettato, non banale che sarebbe una mosca bianca anche nel cinema attuale, figuriamoci negli anni '80.

Il neo, invece è il ritmo. Essendo parlatissimo il ritmo parte già svantaggiato, ma la scrittura non esperta (con molte sequenze ripetitive o scene tenute troppo a lungo) rende difficoltosa e strascicata la visione di un film dal minutaggio contenuto.