lunedì 27 febbraio 2017

Lo chiamavano Jeeg Robot - Gabriele Mainetti (2015)

(Id.)

Visto a un cineforum.

Con il dovuto ritardo ho, finalmente, visto il cult di 2 anni fa...
Film fantastico. Partendo da un incipit ben realizzato, ma dall'assunto iniziale idiota, il film si muove in un ambito quasi sconosciuto per il cinema italiano; utilizza gli stilemi amerigani nel migliore dei modi, ma lo fa con il passo, il fiato, gli umori, totalmente nostrani. Direi che è qui il vero valore aggiunto, Mainetti conosce bene il genere e lo sa gestire, ma lo fa con un piglio personale che lo mette in una prospettiva nuova (anche se gli echi di un Sollima, meno secco e più cartoonesco, a mio avviso sono molto evidenti).
Una fotografia pulitissima e impeccabile, una regia al servizio della vicenda che tende ai movimenti di macchina, ma senza eccessivi svolazzi; sbaglia clamorosamente la prima scazzottata, ma nello scontro finale tra i due supereroi riesce a costruire una delle scene action migliore girata in Italia ultimamente sfruttando. Sfrutta benissimo location originali dando un volto diverso a una Roma altrimenti banalmente uguale a sé stessa (anche qui direi che c'è del Sollima).
Il film si allunga troppo in uno scioglimento finale che spezza il terzo tempo classico (bene), ma lo fa con una certa pretenziosità; tuttavia il difetto è uno dei pochi e uno dei meno importanti.
Perfetta invece la costruzione dei personaggi fumettistici all'eccesso e perfettamente calati nel mondo costruito attorno a loro; personaggi sostenuti da un cast buono oltre ogni speranza (quello è lo stesso Marinelli di Virzì?!! Davvero!?!).
Un film insperato, che non è solo "bello perché di solito cose del genere non le facciamo", ma anche perché obiettivamente ben realizzato.

venerdì 24 febbraio 2017

Monica e il desiderio - Ingmar Bergman (1953)

(Sommaren med Monika)

Visto in Dvx.

Due giovani commessi si incontrano, si innamorano e decidono di fuggire dalla squallida vita del proletariato svedese. Per la loro fuga rubano il motoscafo del padre di lui (proletariato fino a un certo punto) e si rifugiano sulle isole dell'arcipelago circostante dove vivono il loro diillio in mezzo alla natura. Tra feste di paese e aggressioni da parte di sbandati i soldi finiscono, comincia la fame e la consapevolezza di Monica di essere incinta. Nel tentativo di trovare da mangiare e nella successiva discussione il loro rapporto si dimostra superficiale quanto la protagonista della storia, che risulta molto meno disinteressata e paziente di quanto non ci si aspettasse. Tornati a Stoccolma si sposeranno e il ragazzo si impegnerà nel lavoro e nello studio per dare a Monica quando promesso, lei invece si dimostrerà nuovamente fatua e il loro rapporto del tutto compromesso.

Un film tecnicamente ottimo (come sempre in Bergman, o quasi), elegantissimo, con scene perfettamente costruite molto giocate sui primi piani. Una fotografia pulita in uno splendente bianco e nero. Alcune chicche sparsa nel film come il, giustamente, famoso primissimo piano della protagonista nel finale che guarda subito a lato della macchina da presa, non succede niente, ma lei è così espressiva e la scena così pregna (e viene preparato da un'ora e venti minuti di film sofferente) che quando arriva è carico di tutti contrasti del film.

La vicenda è naturalistica nel senso del naturalismo francese (con una sessualità piuttosto ingenua, come i suoi protagonisti, ma che all'epoca fece scalpore) e sottolinea l'alienazione cittadina, tanto quanto l'illusione di una fuga nella natura. Di fatto è un melodramma sulla distruzione delle illusioni, dello scontro fra realtà e sogni. Un romanzo di formazione senza vincitori.

mercoledì 22 febbraio 2017

Il castello di Dragonwyck - Joseph Mankiewicz (1946)

(Dragonwyck)

Visto in Dvx.

Un ricco nobile offre ospitalità e finanziamento degli studi alla cugina spiantata. Il suo piano però non si limita a un puro gesto di generosità; desideroso di avere una discendenza vorrebbe eliminare la moglie (probabilmente sterile) e sposare la giovane cugina. Il piano gli riesce, ma la discendenza continuerà ad avere problemi e il malcapitato sarà vittima di pura follia.

Questo è il classico film goticheggiante con nobiltà e segreti in famiglia con un marito arcigno quanto Boyer in "Angoscia" e una struttura che ricorda "Rebecca" o "Dietro la porta chiusa" (quest'utlimo, a dire la verità, di poco successivo ala film di Mankiewicz); purtroppo a inserirsi in un genere così ben rappresentato (numericamente e qualitativamente) nello stesso periodo dei colleghi più capaci bisogna proprio esserne all'altezza e, per quanto Mankiewicz non manchi di eleganza, non raggiunge minimamente gli obiettivi prefissi.
La scelta dei protagonisti è estremamente azzeccata, la Tierney trasuda innocenza come respira, mentre Price riuscirebbe a dare ambiguità all'elenco del telefono. L'impianto della storia è piuttosto scontato, ma perde veramente nella seconda parte in cui si fa raffazzonato e poco incisivo. Il gotico è un'idea che viene paventata in molte occasioni, ma programmaticamente il film sembra volergli girare intorno senza toccarlo mai.
Quello che ne viene fuori è un film con tutti i presupposti, ma totalmente senza grip.

Mankiewicz comunque non è l'ultimo dei cretini e pur non riuscendo a dare ritmo o interesse a una storia un pò scialba, beh, fa il suo; qualche costruzione di scene su più piani, alcuni carrelli ben utilizzati, diverse inquadrature dal basso; niente che salvi l'opera, ma almeno tiene accesa l'attenzione.

lunedì 20 febbraio 2017

L'impero colpisce ancora - Irving Kershner (1980)

(Star Wars: Episode V - The Empire Strikes Back)

Visto in VHS.

Qui per storia e dettagli tecnici e trivia ecc.

Questo film si trova a  dover gestire un successo inaspettatamente epico derivato dal primo episodio. Quello che viene realizzato è (a mio avviso) l'episodio migliore della serie; perde molto in action, ma guadagna in avventura; viene lasciato più spazio ai personaggi (dettaglio poco presente nel primo, ma che era riuscito egregiamente a superare senza colpo ferire) introducendo il gustoso duellare (metaforico), viene introdotto un ulteriore background al personaggio di Ford, si pregia di creare il twist plot più importante (e spoilerato) della storia e prosegue nel suo filone simil kung fu con le ottime sequenze dell'allenamento di Luke fatto da Yoda.
Al di là del noto colpo di scena, il pregio principale di questo secondo capitolo è il fatto che riesca ad accontentare l'hype più grosso che si portava dietro dal primo, la questione Jedi; ovviamente per farlo deve però demolire qualcosa. I Jedi (di cui Obi Wan sembrava l'ultimo) si moltiplicano e da figura mitologiche diventano dei potenti guerrieri uniti in una setta abbastanza vivacchiante; la misteriosa forza dai limiti indefinibili del primo capitolo diventa molto simile alla telecinesi; ma se tutto questo fa perdere splendore, riesce comunque a tirarne fuori le sequenze dell'allenamento che rimangono tra le migliori e a dare una continuità a Skywalker che diventerà l'elemento centrale. Distrugge per poter mantenere tutto come si trova.

Ottima anche la costruzione dei personaggi di contorno; come già si poteva notare nel precedente e come si noterà ancora di più nel successivo, la creazione di mondi non è dettagliata, ma assolutamente aperta lasciando enormi potenzialità che danno spessore senza dover aggiungere nulla alla trama e, soprattutto, i personaggi che pullulano in quei mondi sono adattati all'ambiente circostante; esemplare in questo senso Yoda, un simil anfibio umanoide di piccole dimensioni e color marcescenza che vive in un mondo palude. Sono dettagli, me ne rendo conto, ma sono i dettagli che fanno la differenza tra un film ben realizzato e un sci-fi di serie B.

Tecnicamente splendida la sequenza iniziale sulla neve che vira tutto sul bianco, colore che difficilmente si vede in un film di fantascienza.

Unico neo: non è un film autoconclusivo dato che mette in piedi tutti i cliffhanger che possibili. Peccato, perché sarebbe, altrimenti, il migliore dei film possibili.

PS: e finalmente un duello con le spade laser degno di questo nome.


venerdì 17 febbraio 2017

Alpeis - Yorgos Lanthimos (2011)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un gruppo di persone si fa pagare per sostituirsi ai famigliari morti improvvisamente e rendere il distacco più accettabile; fingono di essere la persona deceduta, fingono una vita uguale alla precedente e poi creano un momento di rottura, un litigio, un tradimento, qualcosa che costringa i famigliari a disprezzarsi e allontanarsi. Tra i quattro che lavorano come sostituti si creano però dinamiche particolari e attriti.

Lathimos rimane fedele al suo stile gelido, una sorta di manierismo che lavora per sottrazione, con un cast obbligato all'inespressività (come già de Oliveira o Bresson) e con una fotografia dai colori desaturati. Oltre allo stile, come in "Kynodontas", il regista porta avanti una precisa volontà di menzogna come versione edulcorata della realtà, che però risulta essere più malata, più psicotica e, come in "Kinetta" (che non ho ancora visto, ma di cui ho letto in giro), c'è la sostituzione, la creazione di una realtà non immaginaria, ma semmai mai conosciuta direttamente.
Questo per dire che, in linea di massima, chi ha apprezzato i lavori rpecedenti del regista apprezzerà anche questo film, chi li ha odiati odierà anche questo film.

Personalmente trovo lo stile del regista incredibilmente respingente e ho tollerato poco "Kynodontas" (anche se mi pare di esserne l'unico detrattore) perché mi è sembrata solo una dimostrazione d'intenti senza contenuto, una sorta di versione intellettuale di "Hostel" (mi si passi il paragone estremo), la volontà di shockare con un'idea intelligenti, ma declinata senza nessuno scopo, solo un allungare l'idea per tutto il minutaggio del film.
Qui però Lathimos fa un passo avanti. L'idea di fondo rimane fondamentale ed è il volano di una vicenda altrimenti inesistente, ma non rimane in maniera masturbatoria a raccontare quell'idea e basta, qui i personaggi sono tridimensionali e devono gestire una tensione fra loro anche collegata alla loro professione, ma in parte indipendente da essa. Gli obiettivi sono alti (altissimi) e pertanto non vengono raggiunti appieno, il ritmo è debilitante (credo anche per gli appassionati del regista greco), e un cast maschile imbarazzante (non recitano epr sottrazione, i due coprotagonisti maschili recitano male e basta), ma questo è un film decisamente migliore. Meglio gestito, malato quanto il precedente (ma in maniera più fine), con una voglia di grottesco maggiore (anche se si condensa in un minor numero di scene efficaci in questo senso; ma meglio utilizzato).

mercoledì 15 febbraio 2017

Magic in the moonlight - Woody Allen (2014)

(Id.)

Visto in Dvx.

Un prestigiatore ha anche fama di smascheratore di truffe sul soprannaturale; quando qualche chiromante o sensitivo alza la posta (pretendendo doti che non ha o chiedendo soldi), lui viene chiamato a scoprire il trucco. Un suo amico chiede la sua consulenza per una ragazza amaericana che furoreggia sulla costa azzurra. Il prestigiatore si presterà alla farsa, ma non riuscirà a scoprire il trucco; arriverà a credere in una forza superiore... prima del cinico scioglimento finale.

Questo è un film delizioso e io adoro Emma Stone. Ovviamente Allen è impeccabile nella costruzione delle immagini (cosa ormai scontata da almeno 15 anni, ma è sempre un piacere) e la fotografia di questo film è qualcosa di superiore (i colori, ma soprattutto le luci sono pazzesche, con un uso del controluce in alcune scene che entrano direttamente nel manuale della storia del cinema); inoltre Allen è da sempre magnifico nella direzione degli attori (tutti gli attori recitano come reciterebbe Allen nei suoi film) e anche in questo caso li fa recitare in maniera incontestabile anche quando sono sopra le righe (come Firth recita per quasi tutto il film).

Al netto dell'Allen standard quindi quello che questo film offre in più sono almeno due dettagli. In primo luogo offre una commedia dei sessi dai dialoghi arguti e serrati e dai ritmi svelti come non si vedeva dai tempi di Hawks; qui i sessi sono le donne contro Colin Firth; con un 70% in più di filosofia e intellettualismo. Il secondo dettaglio è quello però più importante; il pessimismo cosmico caro al regista (la malignità e l'inutilità della vita, l'irrazionalità del mondo, l'assenza di una qualsivoglia metafisica) non è mai stato declinato in un'ottica tanto solare; l'inganno che (come l'amore, che è solo un'altra forma d'inganno) e le illusioni che, per una volta, regalano una visione del mondo preferibile a quella sterile data dall'illuminismo. Le illusioni aiutano a vivere; così come Emma Stone, che le incarna, illumina ogni scena in cui recita.

I difetti sono evidentissimi, molto cicaleccio, il personaggio di Firth che è indubbiamente irritante e un didascalismo che non ricordo di aver mai visto in un Allen e qualche punta stucchevole (anche se quasi tutte queste caratteristiche erano presenti nelle commedie anni '30).
Ma anche in presenza di queste zavorre il film risulta ben riuscito, di una vitalità impensata; inoltre è uno dei pochi di Allen degli ultimi anni che riguarderei volentieri anche a breve distanza.

lunedì 13 febbraio 2017

Miriam si sveglia a mezzanotte - Tony Scott (1983)

(The hunger)

Visto in Dvx.

Una vampira trasforma i suoi amanti in esseri simili a lei, ma purtroppo, in maniera sistematica, questi presto o tardi non trovano sangue per mantenersi, quindi invecchiano precocemente e si disfano.
Direi che la trama è un pochino tutta qui, anche se si aggiunge che alla vampira si interessa una dottoressa che permette di virare il film nel sottogenere lesbo-vampiro.

Diciamolo subito; questo non è un horror, ma un raffinatissimo drammucolo in salsa vampiresca come sarà più tardi anche "Intervista col vampiro".
Questo è il classico film fatto tutto di forma e dal contenuto nullo. Non dice nulla, non aggiunge nulla, a mala pena racimola una trama; vive solo di un manierismo ossessivo che all'inizio impressiona, ma alla lunga stanca e annoia a morte.

La regia ha uno stile ripreso sicuramente dai videoclip dell'epoca, ma abbastanza contenuto, si fa sfacciato solo nei montaggi paralleli (talvolta alternati) in cui le due scene affiancate rappresentano l'una il completamento dell'altra o la rappresentazione simbolica.
A livello estetico, come si diceva, siamo davanti al meglio possibile. Interni art deco, costumi impeccabili, luci spesso virate, ma mai fastidiose, una fotografia anni '80, ma senza eccessive kitcherie, effetti speciali magnifici (che però non salvano il ridicolo finale).
E poi ovviamente il cast. David Bowie non recita (non ha mai recitato, probabilmente non è mai stato in grado), semplicemente lui era un vampiro, e si aggira per le scene con una classe insperata rendendo interessante la prima parte che si caratterizza per la sofferenza del suo personaggio. A fare da contraltare c'è una Deneuve che, da oggi, sospetto essere anche lei un vampiro; perfetta, distaccata, ma non altera, magnificamente incastrata in un ambiente estetico che sembra somigliarle.
Ecco di questo film piuttosto dimenticabile, quello che va applaudito senza se e senza ma, non è lo sforzo estetico, ma il casting perfetto nel trovare attori che si adattassero all'ambiente e al mood.

venerdì 10 febbraio 2017

Io accuso - Abel Gance (1938)

(J'accuse!)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Remake sonoro dell'omonimo (guardando il titolo originale) film dello stesso Gance. Remake fino a un certo punto. La storia parte da oltre la metà della trama originale, entrando a gamba tesa con una storia ampiamente iniziata e il film, infatti, comincia con la riconciliazione fra i due nemici (dopo che un militare si premura di spiegare tutta la vicenda pregressa a un commilitone). prosegue poi rapidamente sulla scia del precedente, per abbandonarlo proseguendo la vicenda del protagonista fino a renderlo contemporaneo (si arriva al 1938), per poter ambientare nuovamente il ritorno dei morti dal campo di battaglia.

Al di là delle differenze di trama, il cambiamento sostanziale è nell'obiettivo; se nel precedente Gance aveva realizzato un film complesso (per lo più incentrato su un'amicizia virile, ma anche romantico) in ambiente di guerra riuscendo a tirare fuori un magnifico messaggio pacifista senza irritare; qui l'intento è apertamente quello di mettere in guardia contro gli eventi che si scateneranno solo un anno dopo. Sembra quasi che Gance cerchi di risvegliare le coscienze, ma addirittura che vorrebbe evitare il conflitto a venire (e che evidentemente già ammorbava l'aria).

A livello stilistico il paragone fra i due film è impietoso. Impietoso perché quello del 1919 era un capolavoro, ma anche perché, a detta dello stesso Gance, i suoi film dell'epoca del sonoro erano solo "prostituzione". Ma credo che, in questo caso, a far uscire il film dai binari, sia l'ansia di far emergere la tesi di fondo.
Il film parte con una scena d'apertura che fa ben sperare; i volti dei soldati sotto i bombardamenti inframezzati al corpo senza vita di una colomba e ad un cristo abbattuto; poi inquadrature ravvicinate per rendere il senso di costrizione anche quando i personaggi sono in un ambiente aperto. Ma manca la grazia, manca la coerenza e la trama si muove zoppicante e didascalica nella forsennata voglia di chiudere il prima possibile con la marcia dei militari morti anticipata dal monologo del protagonista che accusa i vivi di scivolare di nuovo verso la guerra.
Intento lodevole, ma ammazza completamente il film rendendolo mediocre.

mercoledì 8 febbraio 2017

Guerre stellari - George Lucas (1977)

(Star Wars)

Visto in VHS.

Vabbè; il primo capitolo di guerre stellari è sempre quello, non c'è molto da riassumere per la trama e pure le cose da dire sono già state dette.

Io l'ho sempre visto nella sua versione del ventennale; non sono esperto sulla questione, ma se non sbaglio si tratta del primo, pesante, rimaneggiamento operato da Lucas dove fa capolino un imbarazzante CG che, in molte occasioni, rimane inferiore agli effetti speciali materici originali. Questa è il rimaneggiamento dove viene creata la controversia sulla morte di Greedo, viene introdotto Jabba a cui pestano pure la coda; dove funzionano i rimaneggiamenti è negli esterni che acquistano in corpo e credibilità. Comunque un pò poco per giustificare i cambiamenti.

Questo è comunque un film su cui ho spesso cambiato opinione, l'ho odiato e l'ho apprezzato alternativamente. Attualmente non posso che chiedermi cosa ne sarebbe stato se non avesse avuto successo al botteghino (sarebbe stato ricordato come una eccentricità scifi anni '70) ed è fuori discussione che a livello di contenuti è attaccabile da molti punti di vista; ma d'altra parte non riesco a non riconoscerli un'intuizione di fondo geniale; la fusione fra generi.
"Star wars" è un film di kung fu senza kung fu, con il passo del western, ma di ambientazione fantascientifica e fantasy. In quest'ottica viene forgiato il pilastro portante della serie, la forza; dando il destro a un misto fra tecnologia e animismo con un background che tutti i personaggi conoscono, ma che sfocia nella leggenda più che nella storia (i Jedi), a cui tutti fanno riferimento, senza avere mai la necessità di citarlo direttamente.
Sempre in questa ottica vengono indovinati molti dettagli estetici come alcuni costumi (Obi Wan è un misto fra un judoka e un frate cappuccino, Darth Vader è un villain un misto fra il villain di un fumetto e un nazista), anche se ad onor del vero molti altri sono imbarazzanti (i caschi giganti giustamente sfottuti da Brooks); ottimi gli interni delle astronavi (la morte nera è fatta da corridoio stilosi che, per una volta, non derivano da "2001: odissea nello spazio").
Ottima anche la struttura narrativa che mette lo spettatore al centro di una vicenda già in essere e senza dover spiegare troppo fa percepire che tutti i personaggi hanno una storia intricata alle spalle; un punto di forza che darà verrà spiegato con i sequel/prequel.
Infine c'è la grazia incredibile di Alec Guinness e la presenza scenica (per me iconica) di Cushing.

Un film per ragazzini con uno scontro di spade (laser) tra i peggiori di sempre, che però rimane magnifico e da adito a un epicità che solo Lucas vent'anni dopo riuscirà a diminuire.

lunedì 6 febbraio 2017

Antiviral - Brandon Cronenberg (2012)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

In un recente futuro alcune ditte offrono la possibilità di inocularsi virus o batteri estratti dalle celebrità preferite. in una guerra di mercato e con l'ansia di guadagnare (e o emergere) il protagonista (dipendente di punta della ditta principale) si inietta le malattie per rivenderle al mercato nero. Un giorno si inietterà qualcosa che non avrebbe dovuto, la cui origine e il cui esito sono ignoti.

Alcune volte mi sono chiesto che cosa succederà quando Cronenberg non ci sarà più; essendo un regista di nicchia estrema, chi potrebbe prenderne il posto? Con questo film mi sono reso conto che qualcuno c'è e, banalmente, è un altro Cronenberg.
Al suo primo (e finora unico) film, Brandon, crea un film completamente in linea con le opere perturbanti del primo periodo di David, aggiornandone il linguaggio, i temi ed il tono. Sembra proprio voler rendere contemporanee le ossessioni del padre.
L'aberrazione mentale che diventa aberrazione fisica; la smania per le celebrity che invoglia i fan a possederne anche il lato peggiore; la mania del biologico e dell'artificiale fusi (anche a livello estetico come nel giardino di cellule delle celebrità).
Inoltre si somma la stessa ricerca dell'immagine disturbante, ma azzimata, i campioni di virus che vengono mostrati come volti deformati, le continue e insistite inquadrature di aghi che trafiggono bocca o braccia, la donna intrappolata nello schermo televisivo come fossimo in "Videodrome", oltre che alcuni dei più classici innesti da body horror anni '80.

A livello estetico il film è freddo e asettico come i primi film del padre, un lindore perturbante pervade ogni scena; viene aggiornata la fotografia con i colori desaturati e un'immagine realistica, gli ambienti minimal, che sono in linea con la sci-fi indi contemporanea e trasporta un "Videodrome" negli anni '10.

Al di là della soddisfazione di vedere un film alla David Cronenberg classico, non diretto da lui e attualizzato il film offre anche qualche aggancio di interesse totalmente personale riuscendo a rendere perversi anche concetti astratti come l'immortalità o a renderne quotidiani altri come il cannibalismo; il tutto senza andare sopra le righe, il tutto senza colpo ferire.

venerdì 3 febbraio 2017

La classe operaia va in paradiso - Elio Petri (1971)

(Id.)

Visto in DVD.

Un operaio stacanovista si avvicina al mondo contestatario (siamo negli anni '70) dei sindacati e degli studenti, nel farlo perderà la moglie, il lavoro e la ragione; e porprio nel momento del bisogno sarà abbandonato da quelli che lo volevano come vessillo dell'operaio illuminato e combattente per i propri diritti. Riuscirà a riottenere il lavoro, ma il prezzo sarà la morte dei sogni (mamma mia che enfasi...)

Film visivamente lussureggiante uscito solo l'anno dopo rispetto a "Indagine" da cui sembra aver preso l'incredibile dinamismo aumentandolo fino al parossismo. Inquadrature ravvicinate, primissimi piani insistiti, dettagli, dolly e carrelli continui; uniti a una cura per i colori molti 70's e una magnifica costruzione delle immagini.
A livello di contenuti, anche se da fuori potremmo aspettarci un filma tesi, Petri porta avanti un lavoro ragguardevole, lanciare fendenti a tutti e parlare di una società che nel suo complesso porta all'alienazione (il film infatti fu piuttosto vessato anche dalla sinistra dell'epoca visto che sfotte apertamente le contestazioni studentesche e mostra i sindacati come intellettuali disgiunti dalla realtà).
A livello di tono questo è uno di quei capolavori di equilibrio, una trama totalmente drammatica trattata con i toni della farsa; personaggi tragici che fanno cose buffe; i due toni distinti che si fondono perfettamente anche nella stessa scena spiazzando, creando situazioni paradossali. In questo il film vince completamente

Il cast di livello ci permette di godere di un Randone nelle vesti di un malato psichiatrico (un bello stacco, visto che sono abituato a vederlo come poliziotto o simili) e una Melato totalmente in parte, sempre impeccabile (a pensarci non mi viene in mente un film in cui lei non sia stata perfetta); infine c'è Volontè, un Volontè notevolissimo, sempre al centro della scena in una parte titanica... purtroppo soffre molto del difetto di ogni grande attore lasciato troppo a sé stesso, recita costantemente sopra le righe urlando moltissimo in un film già molto urlato, la sua parte funziona, ma ci si chiede che cosa avrebbe potuto produrre se fosse stato trattenuto un poco.

Il film è sincopato ed esagitato, eppure riesce anche ad annoiare; troppo interessato a mostrare l'alienazione si dimentica di asciugare gli eccessi (di cui sembra compiacersi parecchio); affascinante, ma poco bilanciato.

mercoledì 1 febbraio 2017

Il vizietto - Édouard Molinaro (1978)

(La cage aux folles)

Visto in tv.

Una coppia di omosessuali di mezz'età (che gestiscono un locale di drag queen) hanno allevato il figlio di uno dei due (esatto; stepchild adoption) che ora torna per avvertirli che si sposa. Purtroppo si sposa con la figlia di un politico cristiano e reazionario e dovranno incontrarsi per conoscere in consuoceri. Inizierà un'inevitabile commedia degli equivoci.

Commedia libertaria e piuttosto innovatrice di fine anni '70 che sdogana diversi concetti che oggigiorno sono molto meno tollerati.
Interessante e godibile diverte senza dubbia nell'incontro fra consuoceri, nel rapporto a due dei protagonisti intrattiene, ma spesso esagera senza interessare.
La regia mediocre serve bene il ritmo, ma non aggiunge niente, la fotografia tipica di quegli anni non donerebbe a nessun film figuriamoci ad una commedia brillante.

Il cast è tutto in parte, ma l'attenzione è tutto sulla coppia di protagonisti. Personalmente apprezzo sempre il piglio sornione di Tognazzi e qui fa la sua figura (la scelta secondo me è azzeccata), purtroppo mi eccede in tic e cliché più che concentrarsi sul personaggio (innegabile che paragonandolo a Williams, protagonista del remake USA, l'attore americano vince), Serrault invece riesce perfettamente nella parte della checca isterica con una recitazione sopra le righe, ma sempre adatta, mai eccessivamente farsesca (battendo di molto Nathan Lane).

Un buon prodotto con ritmi ormai d'altri tempi, ma lo spirito eversivo ancora buono. Al contrario del remake americano, qui c'è una chiusura del film degna di questo nome (niente di eclatante, ma almeno c'è un the end).