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lunedì 27 luglio 2020

Abbigliamento francese - Ken Russell (1964)

(french dressing)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Un dipendente del comune di una oscura città costiera inglese ha l'idea di ravvivare l'ambiente e l'estate organizzando un fantomatico festival cinematografico con il dichiarato intento di far venire dalla Francia la versione low cost di BB per presentare alcuni suoi film e inaugurare la prima spiaggia nudista made in UK.

Primo lungometraggio di un Russell irriconoscibile ed estremamente solare che prende a piene mani dalla libertà del free cinema inglese di quegli anni senza prenderne la serietà.
Un divertissment superficiale e carino ai limiti dell'ingenuità con personaggi caricaturali (il sindaco) luoghi comuni nazionali e sequenze accelerate che (grazie al co-protagonista grassoccio) fanno sembrare il tutto un prodromo del Benny Hill Show.
Paradossalmente il lungo incipit (tenuto più a lungo dle normale) in cui i personaggi si muovono e si incrociano senza portare avanti alcuna vicenda (ma solo per presentare situazione e protagonisti) è forse la parte più ostica e la più interessante; getta all'interno di un intrico di relazioni senza spiegarle, ma facendo interagire le persone come se già dovessimo conoscere ogni retroscena.
Il resto è una commediola innocente e senza caratteristiche da ricordare. Per completisti.

mercoledì 21 febbraio 2018

La donna di sabbia - Hiroshi Teshigahara (1964)

(Suna no onna)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.
Un professore di Tokyo, appassionato di entomologia, va per un weekend in una sperduta zona costiera giapponese; avendo perduto l'ultimo autobus per ritornare a casa decide di passare la notte da una dei gentili abitanti locali. Date le particolari condizioni orografiche le case sono infossate dentro a buche di sabbia dalle pareti ripidissime. Entrerà con una scala a pioli, ma non potrà più uscirne.

Straniante film di Teshigahara che collabora di nuovo (ma non per l'ultima volta) con Abe Kobo, mettendo su pellicola il suo romanzo più famoso. La prima cosa che si nota è la fedeltà al libro originale; riesce perfettamente nell'adattamento, lasciando nel film tutte le tracce necessarie, ma adattandole al mezzo diverso.
Teshigahara, ovviamente, lavora di immagini. Costruisce location perfette e incredibili; lavora di sovrapposizioni fra i volti dei personaggi e i paesaggi (o alcuni oggetti simbolici), si cocnentra su primissimi piani e dettagli che aumentano il senso di claustrofobia e, nella prima parte, inquadra ripetutamente il protagonista attraverso finestre o schiacciato fra oggetti messi in primo piano. Utilizza le luci e le ombre in maniera estetizzante raggiungendo uno dei vertici nella cerimonia degli abitanti del villaggio voyeur (la cura messa per inquadrare gli abitanti è tale da far diventare il "controcampo" dei due protagonisti mediocre).
Nonostante il ritmo non sia impeccabile regge egregiamente le oltre due ore chiusi in una location limitata con solo due personaggi in scena.

Le congetture circa il significato simbolico del film (parafrasi del totalitarismo; critica alla società giapponese dell'epoca; la parafrasi di un suicidio desiderato quanto temuto) per me si possono lasciare all'esegesi del libro; questo è comunque un film che riesce a trasmettere le sensazioni che voleva.

mercoledì 29 novembre 2017

Ghidorah! il mostro a tre teste - Ishirô Honda (1964)

(San daikaijû: Chikyû saidai no kessen)

Visto qui, doppiato in inglese.

Una pioggia di strane meteoriti colpisce la terra e un gruppo di geologi con scarsa voglia di lavorare cerca di studiarne uno (con scarsi risultati). Nel frattempo una principessa di un paese straniero (rispetto al Giappone) sembra esplodere in volo, mentre una profetessa uguale alla suddetta principessa, che afferma di essere una marziana, va in giro a portare male, arrivando a prevedere la ri-comparsa di Rodan. Nel frattempo le due fate gemelle in contatto con Mothra fin dal precedente film finiscono in uno show televisivo. Al colmo della sfortuna (oltre alle fate in tv intendo), Godzilla torna a portare distruzione e dal meteorite esce Ghidorah, un mostro astrale a tre teste più pericoloso dei normali kaiju. Sembra un momento apocalittico, ma l'intervento diplomatico di Mothra convincerà Godzilla e Rodan a collaborare per sconfiggere il drago venuto dalle stelle.

Godzilla numero 5. Dopo 3 seguiti che cercavano la via per sfruttare il brand nel migliore dei modi, sembra, finalmente, arrivato il film di assestamento. Godzilla, di fatto, vive di riflesso rispetto ai nemici che gli vengono messi a fianco e in questo film si perfeziona l'idea di uno scontro totale con i vari mostri della Toho iniziato con il capitolo 4 della saga.
Sempre dal precedente capitolo si continua intoltre la trasformazione del franchise in una serie per bambini. Diminuiscono i momenti di distruzione, aumenta la mimica dei mostri slittando verso l'ironia (il palleggio delle rocce, Godzilla che fugge coprendosi il sedere, ecc...).
Il quadro sembra completato da una trama più articolata che si avvicina alla fantascienza cercando di allontanarsi dall'horror del primo episodio.

Tecnicamente a livello dei precedenti, il film risulta inferiore per una sostanziale mancanza di innovazione. A livello di contenuti, però, introduce il personaggio di Ghidorah (vero protagonista del film) che diverrà il principale antagonista di Godzilla e rispolvera quello di Rodan (il primo kaiju della Toho); la presenza di Mothra è, invece, il vero motore dell'azione e viene presa direttamente da "Watang", il capitolo precedente.

PS: partecipazione straordinaria, di nuovo, di Takashi Shimura.

mercoledì 2 novembre 2016

L'uomo del banco dei pegni - Sidney Lumet (1964)

(The pawnbroker)

Visto da registrazione dalla tv.

Steiger è un sopravvissuto di Auschwitz che ora lavora a un banco dei pegni a New York, mantenendo la moglie di un amico morto nel campo e cercando di venire a patti con i propri demoni allontanando da sé tutte le persone che cercano di avvicinarsi. Alle sue dipendenze c'è un ragazzo che vorrebbe essere un suo discepolo, rispettandolo e stimandolo a livello professionale; ma ne viene tenuto alla larga e reagirà di conseguenza cercando uno sbocco per il futuro in altro modo.

Steiger in una dolente versione di un borghese piccolo piccolo uscito da Auschwitz è un'evidente tentativo di fargli vincere un premio (e infatti vinse a Berlino). Per carità è bravo, ma soprattutto riesce a dare una nota dolente costante anche all'iniziale apatia del suo personaggio (oltre ad azzeccare le due scene madri, il dialogo con la donna e il finale; ma questo è il minimo che mi aspetto da Steiger), però non mi è sembrata la sua interpretazione di una vita.

La regia di Lumet è ovviamente interessante, con molte inquadrature oblique e una gestione del montaggio encomiabile (il montaggio rapidissimo e l'inquadratura a salire dopo il colpo di pistola è perfetto).

La sceneggiatura vorrebbe descrivere un film sul dolore presentandolo come un'opera teatrale (non mi risulta che ne sia tratto, ma potrebbe), viene fuori un film verboso oltre ogni dire, anche se il protagonista vince con i suoi silenzi.
Un film carino, ma non eccezionale.

PS: tra le comparse c'è la prima apparizione di Morgan Freeman.

mercoledì 12 ottobre 2016

Soy Cuba - Mikhail Kalatozov (1964)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Per rendere onore agli alleati cubani Kalatozov viene inviato con la sua troupe a Cuba per girare un documentario; quello che ne vien fuori è un affresco in 4 movimenti di un clima sociale (la Cuba pre rivoluzionaria, quella di Batista); con una Cuba bella e giovane e piena di dignità, ma martoriata dalla dittatura e abbattuta dal capitalismo.
Presi singolarmente gli episodi sono parabole umane semplici, ma affascinanti; presi nell'insieme diventa un film piuttosto stucchevole, con troppa enfasi e troppe intenzioni moralizzatrici (la sceneggiatura è firmata a quattro mani da un poeta cubano e uno russo). D'altra parte non è nella trama il cuore del film. L'interesse, personalmente, è tutto nella prova di regia muscolare di un Kalatozov mai così inventivo ed eccessivo; crea immagini bellissime (la semplicità della barca sul fiume dell'inizio) e potentissime (il vecchio che da fuoco alla sua capanna) con una profusione di grandangoli, inquadrature dal basso, dolly quasi perpendicolari con il terreno, panoramiche a schiaffo, macchina da presa a mano, fotografia enorme; e poi lunghissimi piani sequenza, of course, ma di una complessità impressionante (si guardi solo il funerale del ragazzo con la mdp a livello strada che si allontana, poi si solleva perpendicolarmente, entra in un edificio, si muove lateralmente con una serie di lavoratori in primo piano, si muove in avanti fino ad una finestra dove viene appesa una bandiera cubana, la mdp esce dalla finestra e dall'alto continua a inseguire la bara).
Quello che fece Kalatozov fu qualcosa di enorme per l'inventiva e l'artigianalità invisibile delle soluzioni trovate; dalla macchina da presa passata di mano a mano per compensare l'assenza di una steady cam (inventata diversi anni dopo) o la macchina agganciata e sganciata a dei cavi per farle seguire gli avvenimenti a volo d'uccello. Proprio questo sforzo enorme fu causa di parte delle critiche negative (in Italia è stato ampiamente considerato un film fine a sé stesso) e allungò i tempi di uscita di due anni arrivando solo nel '64 quando i rapporti fra Cuba e l'URSS si erano già deteriorati...

venerdì 19 agosto 2016

Il magnifico cornuto - Antonio Pietrangeli (1964)

(Id.)

Visto in Dvx.

Un uomo della borghesia di Brescia ha una (breve) relazione con un'amica della coppia. Da quel tradimento comincerà a farsi strada il dubbio... se lui è riuscito a tradire la moglie e a farla franca, allora anche la moglie potrebbe tradire lui e non farsi scoprire. L'uomo entrerà in un loop che lo porterà sempre di più verso l'ossessione.

Commedia grottesca di un Pietrangeli in piena forma. Tratta da un dramma francese, la sceneggiatura viene manipolata e messa in mano a un Tognazzi completamente in parte e ne tirano fuori quello che in definitiva è un dramma (la corsa in automobile per far confessare la moglie e la confessione falsa solo per farlo smettere), ma trattato con un'ironia e un gusto per la dissacrazione che sono da applausi (con continue allusioni sessuale... anche piuttosto esplicite).
Come detto Tognazzi è un valore aggiunto (scelta ovvia, ma direi doverosa), mentre la Cardinale mi è sembrata piuttosto persa, poco efficace; infine c'è la partecipazione, piuttosto defilata, di un Volonté talmente giovane da essere quasi irriconoscibile.
Dietro la macchina da presa Pietrangeli fa i miracoli; con un dinamismo molto vicino a quello del successivo "Io la conoscevo bene", ma senza quegli eccessi, costruisce un film veloce e molto interessante con diverse sequenze oniriche (le fantasie ossessive di Tognazzi) girate con ancora più libertà; il tutto fotografato in uno splendido bianco e nero.

Unico neo il minutaggio eccessivo che provoca inevitabili ripetizioni e, verso la fine, qualche sbadiglio. Peccato perché sarebbe stato un capolavoro di cinismo, invece così rimane un ottimo esempio di commedia italiana del periodo.

venerdì 13 maggio 2016

Watang! Nel favoloso impero dei mostri - Ishirô Honda (1964)

(Mosura tai Gojira)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Dopo un maremoto un uovo gigante viene trovato su una spiaggia, un gruppo di speculatori vi costruisce un parco attorno per guadagnare il più possibile. L'uovo si schiude e ne esce Mothra, un farfallone ecologista. La scossa però ha risvegliato pure Godzilla, per fortuna il farfallone difende il Giappone.

Terzo seguito del primo "Godzilla" realizzato a dieci anni esatti. Ormai dal primo seguito il gioco è sempre quello di far affrontare a Godzilla un nemico temibile; ma in questo film la prospettiva vien ribaltata; sin dal titolo originale Godzilla è il secondo nella lista, è l'antagonista e non il  kaiju principale. Mothra (già famoso per un precedente film da protagonista, sempre diretto da Honda) rappresenta, quindi, le forze del bene (la natura che si contrappone, non va dimenticato, alla creatura figlia del pericolo atomico) che contrastano l'agente del caos, il mostro radioattivo che si muove senza volontà se non quella di distruggere.
A parte questo (e non è poco, dato che a distanza di anni i rapporti di forza cambieranno nuovamente) l'altra innovazione (se così la vogliamo definire) è l'introduzione di un messaggio apertamente anticapitalista ed ecologista a fianco del solito principio anti atomico... Un po' poco per fare la differenza.
L'altra grande introduzione è il mood; l'horror del primo film e il clima fantasy più serio dei successivi è completamente perduto in favore di un fantasy più infantile: le fatine gemelle cantanti, l'intervento di Mothra,il farfallone che odia le ingiustizie e una recitazione sopra le righe; il target sta cambiando rapidamente, dagli adulti l'età si abbassa e i film che seguiranno agiranno di conseguenza.

Carino, ma l'idea originale già è denaturata e cerca una via di fuga in generi più mainstream.

venerdì 4 settembre 2015

Le parapluies de Cherbourg - Jacques Demy (1964)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Storia d'amore e disamore classica; lei si innamora di lui e lui di lei, vorrebbero sposarsi; ma sono ragazzi e la madre di lei no vorrebbe. Poi lui deve partire militare, si promettono amore eterno, lei si scopre incinta, ma le lettere fra i due si diradano e lei si guarda in giro (non senza sofferenza).
Si ecco, la storia è piuttosto stucchevole... più cinematografico di così è difficile.

Non un musical in senso stretto, ma un film cantato. La struttura è quella di un film normale e non ci sono scene musicali, ma tutti i dialoghi sono cantati, recitati normalmente, ma cantati.

Realizzato con colori accesi e pastello come (e oltre) in un film di Tim Burton (questo è il classico ambiente borghese che il buon Tim ha cercato spesso di smascherare); la macchina da presa però ci sguazza, continuando a mantenersi in movimento come fosse uno squalo con una passione per i carrelli, specie se circolari.

Quello che viene fuori non è un'esperimento vero e proprio, ma solo un diverstissement; un gioco che alla lunga annoia (i dialoghi cantati rallentano il film, la mancanza di canzoni vere rende impossibile trovare un motivo trascinante o orecchiabile). Un film carino (molto bello per il comparto estetico in realtà; basta solo l'incipit per capirlo), vincitore di un esagerato Grand Prix a Cannes.

venerdì 7 marzo 2014

Il treno - John Frankenheimer, Arthur Penn (1964)

(The train)

Visto in tv.

Un treno carico di opere d'arte rubate da un milite nazista parte da Parigi per la Germania poco prima dell'arrivo degli alleati. Un gruppo di pochi uomini (con la collaborazione di capostazione e macchinisti) cercherà di rallentare il treno il più possibile.

Un film dalla trama esile come tutti i film d'azione (azione del '64), ma dal ritmo eccezionale. Obbiettivamente quanti modi ci sono per fermare un treno? beh a quanto pare se sei un capostazione e sei interpretato da Burt Lancaster (sempre con la stessa espressione, ma sempre incredibilmente adatta) ne conosci abbastanza per intrattenere per minuti senza mai un momento di stanca.
Frankenheimer è grande dietro la macchina da presa; un bianco e nero solidissimo ed una profondità di campo enorme che permette bellissime inquadrature dalle rotaie e che nelle scene in indoor fa in modo di inquadrare tutti i personaggi su piani distantissimi. (ad essere onesti questo film è stato iniziato da Arthur Penn, poi sostituito da Frankenhemeir, non so quindi a chi vada la maggior parte del merito).
La questione se valga la pena morire per un'opera d'arte non è mai dichiarata direttamente tranne nell'evidente finale (rimane comunque meno urlata che in Monuments men). A parte questo non c'è una morale dietro a questo film; i nazisti sono addirittura mostrati come uomini con opinioni contrastanti fra loro (non sono solo tutti dei cattivi da macchietta) e lo showdown finale è l'antitesi della spettacolarità. Un inno alla continenza... se non ci fosse stato un enorme incidente tra treni in poche scnee prima e diversi bombardamenti, tutti egualmente credibili.

Completa il film un cast ottimo usato per parti minuscole ed una Moreau utilizzata come mobilio francofono.

venerdì 13 dicembre 2013

Onibaba, Le assassine - Kaneto Shindo (1964) Jitsuko Yoshimura

(Onibaba)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Giappone medievale. Durante una guerra che decima gli uomini, in mezzo alla campagna vivono una suocera e la nuora. In una terra dove manca il cibo, i mezzi e le persone, vivono uccidendo e derubando i passanti. Un giorno torna l’amico del figlio dell’anziana (quindi marito della giovane) che le avverte della morte del loro parente; la figlia inizia una relazione sessuale con l’uomo. La suocera non riesce a sopportarlo e, derubato un nobile della sua maschera da demone, si finge un diavolo per spaventare la giovane; ma la maschera rimarrà attaccata al volto.
Mi era stato venduto anche come un film horror; in realtà è un dramma, al massimo un dramma allegorico. In ogni caso è un gran dramma. Tratto da una fiaba giapponese se ci si fermasse alla sinossi nessuno avrebbe voglia di guardarlo; ma la messa in scena vince su tutto.
Un bianco e nero che alla (poca) luce del sole risulta chiaro e pulito proprio come nel precedente “L’isola nuda” (per fortuna con quel film ha in comune solo questo e una certa attitudine ai silenzi). La regia costruisce un dramma da camera essendo tutto girato in interni… beh spieghiamola meglio, almeno metà film è girato all’interno delle capanne (o nel buco nel terreno), ma anche gli esterni sono di fatto chiusi da palpabili muri di tenebre o dagli onnipresenti giunchi, tanto da rendere claustrofobica ogni inquadratura e costruendo ogni scena su più piani per poter mostrare anche lo sfondo pieno di canne e le foglie in primissimo piano. Poi c’è tutto un lavoro sui volti; il cast azzeccatissimo viene esaltato da un serie di primissimi piani e dettagli degli occhi che definirei alla Leone se questo film e la prima opera del regista italiano non fossero contemporanei; inoltre sui visi è costante la presenza di ombre espressioniste che rendono ogni smorfia un ghigno terribile. C’è altro? Beh direi una certa mobilità di camera e un uso della profondità che permettono diversi giochi di prospettiva e un finale estetizzante che inanella una serie di sequenze impressionanti.
Non fa paura, non è questo lo scopo, mostra invece un’umanità animalizzata che si muove per istinti primari utilizzandosi a vicenda per il proprio benessere.

lunedì 7 ottobre 2013

Ro.Go.Pa.G. - Roberto Rossellini, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pasolini, Ugo Gregoretti (1964)

(Id.)

Visto in DVD.

Quattro episodi per altrettanti registi circa il tema, piuttosto vago, della fine del mondo.

Il primo episodio “Illibatezza” di Rossellini mostra lo stalkeraggio di una giovane hostess da parte di un maniaco (all’acqua di rose, non si pensi a nulla di estremo) che cambierà idea solo quando lei si dimostrerà più emancipata (e zoccola). Filmetto che definire con aggettivi 
dispregiativi pare un’esagerazione, si limita ad essere inutile con alcuni tratti patetici.

Il secondo episodio “Il nuovo mondo” di Godard. Una sorta di epidemia (in realtà è l’effetto di un’esplosione atomica) si diffonde per parigi causando apatia, aridità dei sentimenti ed incomunicabilità. Direi che il cazzeggio mentale tipico di un certo cinema di Godard c’è tutto, ma purtroppo manca completamente l’arte. Non ci sono intuizioni nuove, idee avvincenti o anche solo un’intenzione di fare qualcosa da “regista”.

Il terzo episodio è “La ricotta” di Pasolini. Questo è l’episodio per cu ancora ci si ricorda di questo film. Un regista americano (Orson Welles) sta dirigendo un film sulla passione di Gesù a Roma. Fra interviste, riprese immobili e momenti di attesa, si muove una comparsa che cerca di recuperare più cibo possibile per sfamare prima la famiglia, poi cerca di mangiare anche lui. Quando finalmente riuscirà diventerà un’attrazione per tutto il cast tecnico ed artistico, che cominceranno a dargli cibo come ad un animale al circo. Una volta messo sulla croce (la comparsa interpreta uno dei due ladroni), morirà… Film eccezionale, estetizzante fin dalle prime inquadrature in bianco e nero, si fa eccesso (in senso comunque positivo) nelle scene a colori delle deposizione dalla croce rubate alle pale d’altare di Rosso Fiorentino e Pontormo. Pasolini fa un film per immagini e lo infarcisce di ideologia, ironia, di opinioni personali camuffate, di citazioni artistiche d’ogni tipo, di uso della musica come sottolineatura o come paradosso e di un’infinita dose di poesia. Film molto bello, l’unico motivo per cui valga la pene di recuperare RoGoPaG.

Ultimo episodio è “Il pollo ruspante”, di Gregoretti. La giornata di una famigliola che investita dal sogno del posto fisso non si rende conto di essere imprigionata in una serie di obblighi sociali che la borghesia richiede. Episodio tanto ideologico quanto urlato. Se per tutto l’episodio si cerca di sostener e un tema (cosa di per se irritante), il fatto che la tesi venga detta apertamente all’autogrill direi che peggiora solo le cose. Tognazzi fa il suo lavoro con onestà e gliene va dato il merito. Tutto sommato il meno peggio fra i tre episodi inutili.

mercoledì 20 febbraio 2013

Bande à part - Jean-Luc Godard (1964)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Una coppia di amici circuiscono una ragazza per farsi aiutare a rubare nella casa di sua zia. Il film si dipana fra corsi di lingua, chiacchierate in macchina, bevute in un caffè e progetti rapinosi fino al colpo finale.
Se Godard affascina con la regia (un po’ tutti i cinefili), ma annoia a morte con il film in toto (questo vale solo per me), quest’opera è un’ottima via di mezzo.

La regia fascinosa si spacca; una rigida macchina da presa che un giorno sarà tarantiniana segue i ragazzi negli esterni; una macchina da presa mobile e folle come in Fino all'ultimo respiro (ma con più coscienza degli spazi) gestisce gli interni della casa. Al solito la regia gratifica sempre.

La trama di per se semplice e smorta è comunque una delle più ingenuamente carine di Godard, ma quello che vince è il tono. Il film è un’evidente presa in giro del noir che oggi diremmo classico, del noir americano (e molto meno del polar), con una voice off che vorrebbe essere profonda, ma si riduce ad essere superficiale; con un andamento della storia che continua  bloccarsi in tempi morti cretini, ma affascinanti (il ballo nel caffè è giustamente famoso quanto la corsa nel Louvre); ed il finale è il coronamento perfetto, seppure un poco eccessivo, di un film farsa.
Per carità i tempi morti “alla francese” ci sono comunque, soprattutto all’inizio, tuttavia è uno dei film di Godard che più ho apprezzato (e sopportato).

lunedì 10 dicembre 2012

Le ombre degli avi dimenticati - Sergei Parajanov (1964)

(Tini zabutykh predkiv)

Registrato dalla tv, in lingua oroginale sottotitolato.


Gli anni ’60 sono stati un periodo nella cinematografia sovietica in cui la sperimentazione ritornò a farla da padrone e, forse per reazione al realismo sovietico o per altre dietrologie possibili, in cui il metafisico, il fantastico, il poetico sono stati la grande novità. Il nome che viene subito in mente è certamente quello di Tarkovskiy. Il secondo però dovrebbe essere Parajanov (traslitterato anche come Paradzanov).

Parajanov, nasce come regista di regime negli anni '50; divenne responsabile di una serie di opere realizzate nel classico realismo sovietico, con alcuni personalismo. Sarà solo nel 1964 con questo film che Parajanov, prendendo come scusa il centenario dello scrittore Kocjubinskij, metterà in scena una sua storia in una versione fiabesca intrisa di folklore locale che nulla avrà a che fare con lo stile del regime. Il film sarà ostracizzato e sarà messo in difficoltà nella distribuzione incassando pochissimo.

La storia è il racconto di un’amore fra un uomo e una donna, cominciato in maniera burrascosa durante l’infanzia e coronato con il matrimonio nell'età adulta. Però la donna morirà in un incidente. Dopo anni di doloroso peregrinare l’uomo si risposerà con un’altra donna, senza però condividerne mai una relazione vera e propria, senza più essere felice. La gioia tornerà solo con la morte.

Parajanov è un visionario fantastico. Un estremista nei movimenti di camera; fa quello che farà 20 anni dopo Kubrick senza avere una steady cam; si muove in ogni direzione possibile (letteralmente) e di continuo. Mette in scena per visioni, per impatti visivi, costruisce scene che sono quadri o piccole opere teatrali o balletti. Ma ciò che più di tutto entusiasma è la costruzione di sequenze in cui ciò che viene mostrato suggerisce qualcosa più che farlo vedere direttamente (la sequenza del tradimento della moglie con l’uomo che doma la tempesta e l’albero che prende fuoco; in maniera più tecnica e meno poetica la scena in cui il marito scopre il tradimento spiando da dietro un muro di legno), in queste situazioni le tecniche del regista si uniscono per creare scene di un notevole impatto e di una poetica estremizzata.
Per avere un’idea dello stile di regia basti guardare l’incipit che dalla caduta dell’albero fatta in soggettiva, alla carrellata sui vari personaggi che affollano l’esterno della chiesa (una delle “carrellate” più dinamiche ed efficaci che abbia mai visto) e poi l’interno con il funerale (esattamente all'opposto con una perfezione formale geometrica). Per avere un’idea della poetica invece è sufficiente la scena finale in cui i due innamorati si incontrano dopo morti, una serie di carrellate laterali sui volti dei protagonisti che fluttuano in una foresta di betulle, i visi dei due innamorati sono color argento come la corteccia degli alberi. Perfetto.

lunedì 22 ottobre 2012

Chi giace nella mia bara? - Paul Henreid (1964)

(Dead ringer)

Visto in tv.

Sto per andare a letto quando accidentalmente in tv becco i titoli di testa di un film in bianco e nero; ci butto un occhio senza interesse, in maniera molto passiva. Quando compaiono i nomi di Bette Davis e Karl Malden uno dietro l’altro la curiosità mi prende prepotentemente (che film avranno mai fatto insieme quei due?!), quando finalmente vedo il titolo italiano mi rendo lucidamente conto che non andrò a dormire finché non arriverò ai titoli di coda...

Bette Davis interpreta due gemelle (!), una povera ed astiosa, l’altra svampita e ricca. La prima ama il marito della seconda che ha lasciato la prima perché la secondo era rimasta in... vabbè dai sta di fatto che per motivi lodevolissimi la Bette Davis povera uccide quella ricca e si sostituisce a lei dando vita ad una raffinata menzogna dove deve stare costantemente attenta ad ognuno; amici, parenti o servitù che sia. Tutto riuscirà abbastanza a stare in piedi fino all'arrivo dell’amante della sorella...

Ah già in tutto questo Karl Malden è un poliziotto amico/innamorato della Bette Davis povera, ma astiosa.
Personalmente sono molto affascinato della doppi (o tripla) vita artistica della Davis, da ragazzina sdolcinata degli anni trenta, a femme fatale perfida dei quaranta fino alla matrona/vecchia strega malvagissima dei ‘60s. ciò che trovo più incredibile è con che abilità e con che risultati sia sempre stata in grado di sostenere ogni parte; non è possibile dire in quale veste abbia dato il meglio, al massimo si può preferire uno dei suoi generi.
Qui ovviamente siamo negli anni sessanta e questo è un suo classico film in bilico fra normalità e follia di quel periodo. Strepitoso nel suo spirito totalmente di serie B con una realizzazione solo in parte di serie B  non raggiante per inventiva o idee di messa in scena. Ma tutto sommato qui la regia è secondaria. In primo piano c’è una storia noir solidissima e disperata  e un coppia d’attori da fare impressione a chiunque. Volendo essere completamente onesti bisogna ammettere che la Davis non è perfetta nel doppio ruolo, risultando poco veritiera nell'interpretazione della sorella ricca e, a lungo andare durante il film,  riempie di sbavature anche il personaggio principale; non vorrei sembrare un giannizzero di Bette, ma temo che la maggiore responsabilità sia del regista non del tutto in grado di mantenere sotto controllo la sua protagonista. Poi va aggiunta una regia non proprio ottimale, un uso delle musiche troppo di maniera e una serie di personaggi con una personalità tagliata con l’accetta.

Detto ciò un film che non potrà non essere amato intensamente da chi apprezza l’ultimo periodo della carriera di Bette Davis, ma continuamente in odore di anni ’50 (sarà per Malden che non sembra mai invecchiare).

PS: negli anni quaranta la Davis interpretò già la parte di due gemelle di cui una si sostituirà all’altra (post mortem) per amore dello stesso uomo; ma credo che in questo “L'anima e il volto” l’idea fosse declinata in senso romantico. Si impone il recupero.

PPS: in questo film la Davis assomiglia alla Rampling...

giovedì 6 ottobre 2011

Marnie - Alfred Hitchcock (1964)

(Id.)

Visto in DVD.
La precisione di Wikipedia ammazza la mia buona volontà nel descrivere la trama... Detto ciò:

Film di Hitchcock che torna a ravanare nella psicanalisi ottocentesca e si permette il lusso di giocare con la grande ossessione del regista per il sesso in maniera diretta (la protagonista è frigida).

Di per se il film funziona, come sempre le opere di Hitchcock e presenta momenti fantastici; dalla scena della festa in cui la macchina da presa parte dal totale dell’ingresso fino al primo piano del sig. Strutt come già in Notorious (ma qui credo che la difficoltà tecnica fosse maggiore); o la silhouette della madre sulla porta della camera da letto di Tippi Hedren, ecc…
Poi c’è un Sean Connery che ci sta proprio nella parte del ricco e romantico tombeur, mentre la Hedren personalmente non la posso sopportare e mi rende irritantissimo il suo personaggio.

Il colpo di scena finale credo sia ben gestito (dico credo perché di questo film, prima di rivederlo, ricordavo solo il finale e non la trama) e credo possa colpire… però; però il film ci mette troppo ad ingranare, per quasi metà del tempo presenta il complesso personaggio della protagonista in una serie di momenti che spesso sfociano nel noioso; il rapporto di coppia fatto si sopraffazione e obblighi che si instaura dopo rende godibilissima la seconda parte ed il mistero attorno al passato della protagonista fa il resto, ma prima di arrivare a quel momento ci si impiega troppo.

martedì 6 settembre 2011

Un giorno di terrore - Luther Davis (1964)

(Lady in a cage)

Visto in Dvx, in lingua originale con sottotitoli in italiano. Una donna (Olivia de Havilland) recentemente vittima di una frattura all’anca vive in una grande casa in cui ha fatto installare un ascensore, vive da sola con il figlio, che se ne va per una breve vacanza. Subito dopo la partenza del figlio un guasto al cavo che porta la corrente elettrica all’edificio blocca la donna proprio nell’ascensore. Le cose sembrerebbero tragiche, bloccata senza cibo ne acque ne alcuna possibilità di contatti con il mondo esterno… se non fosse che presto le cose peggiorano, quando la sua insistenza nel suonare l’allarme (che sbatte pesantemente contro l’indifferenza di chi passa per la strada) attira l’attenzione di un avvinazzato vagabondo, il quale, entrato in casa, capisce cosa accade e va a chiamare un’amica dai bassifondi per depredare tutto il predibile (guardandosi bene dall’aiutare la donna). Le cose possono sembrare tragiche, ma presto peggiorano, nel momento in cui un gruppo di 3 balordi (tra cui un esordiente James Caan) si accorgeranno degli strani movimenti del vecchio e capiranno cosa sta accadendo, prenderanno in mano la situazione, rubando, vandalizzando e uccidendo. Ovviamente le scene migliori sono tutte per il lungo finale, quando lo scontro fra la de Havilland e Caan diventa fisico, lui cerca di uccidere lei, lei acceca lui e tenta la fuga uscendo di casa e gridando disperatamente di nuovo fra l’indifferenza di chi passa per la strada (compresa la polizia impegnata a scortare un politico).

Ecco questo è un proprio un film da vedere, ha difetti enormi, ma permette il lusso di godersi James Caan che rutta in faccia ad Olivia de Havilland. Questo è il motivo principale, poi neanche il resto del film è malvagio.

La storia, che qui non ho detto nei dettagli perché c’è pure una questione con il figlio della protagonista che rimane aperta, inizialmente mi si presenta come il classico film girato tutto in un unico ambiente, quindi il solito virtuosismo piuttosto pretenzioso, ma presto mi va più dalla parte di un Funny games dal sapore di Natural born killer per la critica sociale di bassa lega (e piuttosto enfatica, vero punto debole del film), per finire in un drammone umano e famigliare come pochi. Alla fin fine questo è tutto un film sull’indifferenza (dichiarato fino alla prima scena dell’investimento del cane a cui nessuno fa caso), dove tutti non si curano di ciò che gli accade intorno o del male che causano direttamente o indirettamente.

La regia è pesantemente ‘60s con zoomate qui e là, macchina da presa mobile talvolta pure a caso e inquadrature da punti di vista non convenzionali; si sente che è datata, ma in realtà è dinamica e non crea confusione, quindi buona. L’interpretazione di Caan è stupenda, gigioneggia con fare strafottente e sopra le righe come un Ledger che fa il Joker o un Nicholson in quasi qualunque film. Poi c’è la de Havilland; che la de Havilland non può non piacere; la de Havilland (oltre a esser stata una bellissima donna) è una che mi passa dal Via col vento ai noir psichiatrici di Aldrich con la stessa naturalezza con cui si cambia le scarpe; e ovviamente fa pure sti film dove viene brutalizzata dall’inizio alla fine.

Un bel film dimenticato, ma da riprendere in mano assolutamente, che è pure l’esordio col botto di James Caan.

PS: i titoli di testa molto anni sessanta sembrano una scopiazzatura di Saul Bass, solo più disturbanti; in effetti creano un ambiente malato già così, il che non li rende belli (sarebbe eccessivo), ma funzionali

giovedì 18 agosto 2011

A proposito di tutte queste... signore - Ingmar Bergman (1964)

(För att inte tala om alla dessa kvinnor)

Visto in DVD. Nella camera ardente di un geniale violoncellista (che non verrà mai mostrato), tutte le donne (amanti) della sua esistenza si danno riunione assieme ai due maggiordomi e al biografo. Con un lungo flashback il biografo ricostruirà gli ultimi 3 giorni di vita del maestro tramite i suoi incontri con tutti glia ltri personaggi che gravitano attorno al musicista.

Commediola leggera leggera, anzi idiota, fatta da personaggi caricaturali che cita più o meno direttamente il cinema anni venti statunitensi (nei modi, nei costumi, nelle terrificanti gag slapstick! e nelle assurde sequenze in bianco e nero).
Niente di che, solo un film per fare cassa (presumo), che penso non ci sia minimamente riuscito (o almeno spero).
Di buono ha giusto la fotografia e l’autoironia che per fortuna Bergman utilizza a piene mani che rendono sopportabile il film (su tutte magnifico il cartello che avverte che i fuochi d’artificio non devono essere letti in chiave simbolica; un messaggio ai critici che nel cinema di Bergman cercano significati nascosti, spesso presenti, talvolta eccessivi).

Poi, per carità, ci sarà anche dietro un discorso sul rapporto tra l’arte e la critica, sui sentimenti umani (tutti i personaggi alla fine del film seguono un nuovo musicista)… ma Bergman sa fare di meglio.

mercoledì 1 giugno 2011

A prova di errore - Sidney Lumet (1964)

(Fail safe)

Visto in VHS. Per una serie di sbagli tecnici un gruppo di bombardieri americani, equipaggiati con armi atomiche si dirige verso la Russia con il comando di distruggere Mosca. Il subbuglio che ne deriverà (rimpallato tra comando operativo, pentagono e casa bianca) porterà i presidenti delle nazioni nemiche ad avvicinarsi e collaborare per scongiurare il disastro, ma (SPOILER) ovviamente non riusciranno e il presidente americano darà ordine di distruggere New York come olocausto per evitare una guerra atomica.

Film palesemente derivato da “Dr. Stranamore” e dalla medesima paura dell’apocalisse nucleare. Lo stile, la cadenza ed i ritmi sono i medesimi del film di Kubrick, con alcune importanti differenze. Da una parte l’opera di Lumet è decisamente più pulita, priva degli eccessi derivati soprattutto dall’ingombrante (e multipla) presenza di Sellers, ma questa maggior concretezza viene pagata con la totale assenza di ironia. In questo modo ci si trova davanti ad un melodramma come pochi altri, estremo e dolorosissimo (a New York è in visita la first lady, così come abita la famiglia di chi ha l’ordine di sganciare la bomba, ma anche la scena del della telefonata incrociata con i due consoli nelle città da distruggere è pesante) che però è appesantito da un eccesso di ,manierismo e da un insistente bisogno di tragedia ad ogni scena. La sceneggiatura poi ci impiega un po troppo ad entrare nel vivo e lo fa con uno spreco di dialoghi. Lumet poi non lo si vede quasi mai.

Un dramma definitivo come pochi, che però risulta abbastanza macchinoso.

domenica 15 maggio 2011

Lorna - Russ Meyer (1964)

(Lorna)

Visto in Dvx
Una neo-mogliettina si trova con il marito ad abitare in una sperduta casetta sul fiume, lui lavora in una cava di sale, mentre lei rimane a casa tutto il giorno senza aver nulla da fare; il rapporto tra i due non può che deteriorarsi e arriva all’apice dell’attrito il giorno del loro anniversario, lui finge di dimenticarsene per farle un regalo la sera visto che quel pomeriggio riceverà lo stipendio, lei invece pensa che fra loro tutto si sia raffredddato e coglie l’occasione di un pescatore (che in realtà è un evaso che cerca un rifugio) e se lo porta a casa… purtroppo il marito torna prima (come succede sempre)…

Chi ha sentito parlare di Russ Meyer, certamente lo conosce per la sua passione per le maggiorate e di conseguenza penserà ad un certo tipo di cinema… in realtà per questo film il regista americano si è ispirato a “Riso amaro”, no, tanto per dire… ed in effetti un gusto quasi neorealista (dico quasi) nella messa in scena e nella storia è evidente, anche se la trama non centra niente con il film di De Santis. Meyer però va oltre il neorealismo e ci piazza alcune sequenze simboliche, talune notevoli (come le immagini di Lorna coperta di sabbia) altre abbastanza patetiche (la morte con falce e mantello nel finale), ma tutte comunque funzionali alla storia. Il regista dosa con sapienza i vari stili tirando fuori un film esteticamente buono con molte idee ed un uso sensato di queste idee; soffre solamente negli attori (che sono dei cani) e nella sceneggiatura, lenta e noiosissima nonostante il minutaggio contenuto. Quest’ultimo difetto è il peggiore in assoluto, quello che rendo poco godibile tutta l’opera.

La storia comunque è buona, drammatica e crudele il giusto, inquadra dal basso un gruppo di perdenti che riescono a venire fuori dal fango in cui sono immersi solo grazie all’amore… che però non può salvare ogni situazione. Il film appare più che altro come un dramma morale (il predicatore che introduce molte scene è un esempio esplicito) circa la fedeltà e l'amore; e la perdizione ovviamente.

Poi ovviamente c’è la maggiorata di turno, Lorna credo abbia più taglie di reggiseno che speranza di vita, ma Meyer appare pudico nel mostrarla; l’attrice è nuda in diverse scene, ma il massimo che viene mostrato è la silhouette…

sabato 12 marzo 2011

La notte dell'iguana - John Huston (1964)

(The night of the iguana)

Visto in DVD, in lingua originale sottotilato in italiano.

Un pastore (Burton) viene allontanato dalla chiesa per aver circuito una giovane pecorella. Diventa quindi guida turistica in Messico per conto di Dio (nelle gite organizzate dalle parrocchie), ma durante uno di questi viaggi gli capita a fianco un'adolescentella sexy e ingrifata e una arcigna capogruppo che lo prende rapidamente in antipatia. La situazione esploderà quando arriveranno all'albergo di un'amica del pastore (Gardner)... e li tutti dovranno fare i conti con i propri demoni e la propria solitudine.

Opera di Tennessee Williams, come al solito torbida e sofferta ai massimi livelli, con personaggi distrutti... ma stavolta Huston ci mette lo zampino e rende la storia piuttosto ironica, quasi una brillante discesa all'inferno (la cosa piacque poco a Williams) e ci attaccu pure un happy ending basato sull'accettazione delle proprie debolezze che ci sta proprio. La sceneggiatura a dirla tutta, latita un po in credibilità nella scena in cui Burton si trova legato all'amaca; li il film diventa verboso in maniera eccessiva e l'origine teatrale si palesa in maniera orribile (e si fa un uso del metaforone francamente eccessivo), ma superato quel momento la trama fila che è un piacere.

La regia è trattata con la stessa classe di sempre, con inquadrature ad effetto sempre ragionate ed un uso degli attori splendido. Ma proprio qui sta il vero punto di forza; il cast. Tutti recitano da dio (la mia preferita è la Gardner, ma sono ineccepibile tutte le coprotagoniste femminili) e Richard Burton sembra essere nato per i personaggi perduti e stropicciati.
Applausi a scena aperta.