venerdì 29 dicembre 2017

Spy game - Tony Scott (2001)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un dipendente della CIA sta per andare in pensione, ma, come da manuale, il suo ultimo giorno di lavoro viene avvertito che un suo ex pupillo è stato arrestato in Cina nel corso di un'operazione non regolamentare. La CIA non vorrebbe entrarci in questa storia per evitare di mandare a monte degli importanti accordi commerciali; lui da solo, dall'interno del palazzo, dovrà lottare contro il palazzo stesso per salvare la spia detenuta sul campo.

Qui da queste parti si apprezza Tony Scott; alla peggio mette insieme la carcassa di un film confuso con uno stile opulento, ma impeccabile; alla meglio si mette al servizio di una sceneggiatura di ferro e la porta a casa con ritmo ed evitando di farla finire in caciara come rischierebbe in ogni secondo.
In questo caso si trova a dover pilotare un film con una doppia faccia. Ufficialmente è un thriller di palazzo con i suoi intrighi, i sotterfugi, gli alleati (pochi) e i nemici nascosti (molti); dall'altra parte è costellato di flashback che portano la storia sul campo, la vorrebbero sporcare di qualche azione in più e, complessivamente, lo vorrebbero portare verso un tipo di thriller più muscolare.
Inutile dire che usare il doppio binario non aiuta, anzi, fa zoppicare il film. Chi preferisce un genere rispetto all'altro apprezzerà di più una delle due parti.
Personalmente sono un amante degli intrighi di palazzo e dell'uomo solo contro il sistema (anche dove questo sa, spesso di già visto), pertanto mi sono goduto pienamente la parte all'interno della CIA, anche perché poggia interamente su un Redford ancora carismatico e che porta a casa il lavoro anche nella recitazione. La parte sul campo è condivisa con uno dei Brad Pitt più scialbi che ricordi e ricca di luoghi comuni e situazioni prevedibilissime che non ne aiutano la visione.

Anche la regia appare piuttosto confusa dal doppio passo e ingrana la marcia dell'adrenalina per la parte di Redford (scelta curiosa) con una serie di movimenti di macchina rapidi e una fotografia dai colori intensi; lasciando i ralenty, la calma, e la fotografia desaturata per i flashback.

Quello che ne viene fuori è un film claudicante che avrebbe potuto essere un ottimo prodotto del genere spionistico, ma che, dati i difetti, si accontenta di essere un thriller dignitoso con dei grossi nomi sulla locandina.

mercoledì 27 dicembre 2017

Tanin no kao - Hiroshi Teshigahara (1966)

(Id. AKA The face of another)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un uomo dal volto sfigurato chiede aiuto a un amico psichiatra. L'amico sta sviluppando una sostanza nuova per creare una maschera in tutto e per tutto simile alla pelle umana; ma non lo sta facendo per ricostruire il volto di chi lo ha perso, ma come studio psichiatrico sugli effetti del cambio di identità. L'uomo dal volto sfigurato accetta di sottoporsi all'esperimento.

Almeno terza collaborazione tra il regista Teshigahara e lo scrittore surrealista Abe Kobo.
Come spesso accade in Kobo lo spunto assurdo è solo l'abbrivio per una più profonda speculazione sulla condizione umana o sulla situazione della società giapponese. Inutile voler nascondere l'evidente sottotesto di un popolo che ha perso la propria identità e cerca di riottenere un volto definito prendendo quello di un altro (con esito disastroso); tuttavia l'intento sembra piuttosto un'indagine sul contesto d'identità in generale e i disastri psichici legati al cambio.

Dal punto di vista estetico il film è un egregio figlio del suo tempo; con un gusto per l'estetica asettica, ma costante che raggiunge i suoi apici con i giochi di sovrapposizioni delle pareti trasparenti dello studio medico sui volti, dando vita ad alcuni effetti degni di un'installazione artistica contemporanea.

Dal punto di vista dello svolgimento però il film è affossato da una sceneggiatura troppo seriosa e parlata in cui Teshigahara non riesce a stare a galla garantendo un ritmo di minima e sfociando spesso nello sbadiglio.

lunedì 25 dicembre 2017

Angelo - Ernst Lubitsch (1937)

(Angel)

Visto in Dvx.

Una donna è sposata con l'uomo che ama, ma viene trascurata (per ottimi motivi internazionali); lasciata da sola, annoiata, decide di andare a Parigi. Li incontrerà un uomo con cui flirterà duro, pur senza mai dire il proprio nome. Tornata a casa riprenderà la vita di sempre finché il marito non diventerà amico proprio dell'uomo di cui si era invaghita. Si imporrà un gioco di equilibrismo e una scelta.

Misconosciuto (almeno da me) film di Lubitsch con una Dietrich in una delle passerelle più eleganti e stilose di sempre (mai come in questo film la ricordo per classe e presenza).
Il film, nonostante la scarsa fama, non è soltanto una tipica opera di Lubitsch, ma è uno dei suoi capolavori del non detto e del suggerito con una serie di spunti inventivi che valgono da soli la visione. Gli esempi possono essere molti: la notte d'amore a Vienna suggerita dalla descrizione dell'albergo; il pranzo con tutti e tre i protagonisti della vicenda che viene raccontato dalla servitù nella stanza a fianco (forse la scena migliore del film); la discussione sugli argomenti per un litigio fra coniugi in cui lei confessa tutto; l'arrivo a casa di notte del marito che cambia completamente le carte in tavola e il genere del film (iniziato come un film romantico standard).

Quello che ne viene fuori è un film incredibilmente equilibrato; un melodrammo con spalle comiche ben usate (anche se il povero Horton qui è proprio messo in disparte) che lo rendono ancora oggi godibilissimo. Campione di scrittura anche per la realizzazione di uno dei triangoli amorosi più atipici di quegli anni (anche se estremamente reazionario).

PS: e comunque adoro le commedie upper class dove una signora nullafacente decide di andare a Parigi solo per comprarsi qualche vestito.

venerdì 22 dicembre 2017

Life's too short - Ricky Gervais, Stephen Merchant (2011)

(Id.)

Vista in Dvx, in lingua originale sottotitolata in inglese.

Serie televisiva britannica del solito Gervais incentrata sulla vita di Warwick Davis, attore ormai in declino, ma ancora tronfio e arrogante. La scusa è quella di un documentario sulla sua vita (che vorrebbe sfruttare per rilanciare la carriera), ma mentre viene seguito dalle telecamere deve subire il divorzio dalla moglie, enormi multe da parte del fisco, tentativi di lavoro che saranno sempre più disastrosi e un'umiliante questua di lavoro, prima, e di soldi, dopo.

Per chi conosce lo stile di regia e lo stile comico di Gervais qui si troverà a casa.
Con la scusa del documentario viene motivata la classica macchina da presa asettica, i frequenti montaggi o i passaggi rapidi da un volto all'altro; il tutto con i classici colori insipidi che sono ormai una firma.
La comicità poi è sempre quella (la serie è scritta assieme al fido Merchant), inglese, spesso fatta più di situazioni improbabili, spesso pesante, che prende di petto il politicamente scorretto.
Inutile dire che il telefilm funziona. Funziona perché la comicità già nota può concentrarsi sul distruggere il personaggio di una star morta da anni che si crede ancora famoso, e per di più questa star è un nano; questo dettaglio poi è usato benissimo, Davis si muove in un mondo in cui il suo nanismo non sembra destare alcuna reazione, ma in cui il concetto di nanismo è continuamente preso in giro, con solo un paio di scene in cui lo sfottò è rivolto all'inadeguatezza fisica più che a quella morale.
Come sempre in ogni puntata c'è una guest star, la presenza di Liam Neeson è il valore aggiunto e la svolta della prima puntata, le altre si limitano al loro compito senza infamia e senza lode.

Su tutto però troneggia Warwick Davis. Da applausi l'autoironia che gli ha fatto accettare il personaggio di un sé stesso stupido e tronfio in un telefilm dove deve anche cadere da una macchina perché troppo alta o arrampicarsi si una libreria. Un applauso ulteriore perché dimostra anche una capacità attoriale che, sinceramente, non gli conoscevo, dimostrando di essere un attore capace, di classe e dotato di autoironia.

mercoledì 20 dicembre 2017

Corman's World: Exploits of a Hollywood Rebel - Alex Stapleton (2011)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Nel 2010 viene assegnato a Roger Corman un oscar alla carriera tanto doveroso quanto ambiguo. Doveroso per aver creato un modello di produzione simile in molte cose a quello delle major degli anni d'oro di Hollywood, solo con pochi soldi e con tuta la libertà e la fretta di fare tanto della nuova Hollywood (le liste con Corman tendono a diventare un testo a sé, comunque, citerei solo Scorsese, Coppola, Hopper e Demme tra i registi); doveroso per aver dato la possibilità a dei giovani di farsi le ossa e poter poi diventare gli autori più importanti del decennio successivo ed essere oggi considerati dei classici; doveroso per la sua continua dedizione alla distribuzione che affiancava ai drive-in movies anche opere europee intellettuali che, altrimenti, non sarebbero state proiettate nei cinema USA; doveroso, infine, per la continuità e la serietà del suo lavoro come regista e produttore, nel mettere in scena ciò che al pubblico poteva piacere, ma non era realizzato dalle major.
Dall'altra parte, l'Oscar, è stato un premio ambiguo, dato a un uomo di cinema che ha sempre lavorato in contrapposizione a Hollywood e che nello spreco di denaro per i film delle major vede un'oscenità morale.
L'Oscar ha dato un colpo di grancassa al nome ormai nel dimenticatoio di questo autore e produttore ancora attivo e a parte una cerimonia a lui dedicata con la presenza di tutti quelli che gli dovevano qualcosa, qualche intervista, una serie di uscite in DVD dei sui classici più famosi, l'anno successivo venne realizzato questo documentario.
Non è il primo documentario su Corman (sicuramente ne uscì uno nel 2006, ma immagino ce ne siano in giro altri), ma, in questo caso, la sommaria descrizione della carriera registica e produttiva del protagonista viene lasciata  alle parole di familiari (il fratello, produttore anch'esso), collaboratori ed epigoni (termine che vorrei senza l'accezione negativa).
Al di là del piacere di vedere Scorsese che ne sottolinea la qualità artistica, Nicholson prima lo sfotte e poi si commuove, Tarantino che introduce la consegna dell'Oscar, Platt che ne sottolinea la parte più umana; al di là, insomma, del puro piacere provinciale di vedere un proprio eroe osannato da personaggi importanti, al di là del fattore emotivo fine a sé stesso; qui si vede un'orazione eroistica di un modo di fare cinema fatto da chi quel cinema l'ha vissuto e goduto ed ora ha scelto di fare altro. Qui c'è la Hollywood ormai considerata classica che esalta l'uomo che negli ultimi 60 anni è stato ostinatamente un outsiders descrivendolo come l'uomo più importante dell'allora nuova Hollywood.

PS: Come aggiunta ci saranno importanti insegnamenti base, come il fatto che se una moto compare in una scena dovrà, per forza di cose, andarsi a sfracellare e poi esplodere, o come il climax ideale degli omicidi del mostro in un film di mostri.

lunedì 18 dicembre 2017

L'invasione degli astromostri - Ishirô Honda (1965)

(Kaijû daisensô)

Visto qui, doppiato in inglese.

Un nuovo pianeta viene scoperto nel sistema solare, era scioccamente nascosto dietro Giove, per quello non l'avevamo mai notato. Un gruppo di astronauti partono all'esplorazione e scoprono una razza aliena antropomorfa molto avanzata, ma con un problema difficilmente risolvibile: Ghidorah. La razza aliena superevoluta ha una soluzione facile, chiedere alla terra, in prestito, Godzilla e Rodan per battere il mostro a tre teste. Il piano verrà messo in azione, ma l'inganno sarà dietro l'angolo.

Sesto capitolo della saga godzilliana fa seguito diretto dal film precedente, replicando lo scontro a 3 (anche se la era a 4) con Ghidorah.
Il film abbandona il tono cartonesco della trama, ma solo perché sposta completamente il baricentro del film; i protagonisti assoluti non sono più i kaiju. Per la prima volta un plot fantascientifico prende il posto del fantasy (o dell'horror iniziale) e diventa il vero fulcro del film, lo scontro tra mostri è un MacGuffin.
La trama sarà ovviamente tortuosa e piuttosto risibile con una risoluzione finale scioccherella (arma stupida contro un nemico molto più potente) che sembrerà ritornare in auge negli anni '90 grazie a Tim Burton.

Nonostante la sterzata fantascientifica il film rimane godibilissimo e al netto della secondarietà dei kaiju e del basso minutaggio a loro dedicato si fa notare per una scena di lotta particolarmente dinamica (quella sul pianeta X), un Ghidorah particolarmente ben costruito e mobile e una scenetta patetica di Godzilla che festeggia saltando.

Da sottolineare la coproduzione americana con la presenza della UPA (casa di produzione di film di animazione) che portò ufficialmente un attore americano in un film della serie dopo le aggiunte apocrife al primo film rimaneggiato con l'aggiunta posticcia di Burr.

venerdì 15 dicembre 2017

Il matrimonio di Lorna - Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne (2008)

(Le silence de Lorna)

Visto in Dvx.

Una immigrata albanese si è sposata con un tossicodipendente belga per avere la cittadinanza. Alla fine dei mesi minimi di matrimonio divorzieranno, lei lo pagherà profumatamente e metterà in vendita la propria cittadinanza a altri immigrati, si sposerà a sua volta a pagamento. Il tutto diretto da un'organizzazione ben oliata. Quello che non ci si aspettava è che il tossicodipendente vede in questo matrimonio di convenienza una sorta di motivazione per cambiare la propria vita; quello che però non sa è che è stato scelto per essere ucciso alla fine del periodo facendola passare per overdose e non pagare né lui né per il divorzio. Le sue belle speranza faranno ricredere la dura Lorna che cercherà di aiutarlo.

I personaggi dei film dei fratelli Dardenne sono da sempre sfaccettati e scarsamente omologabili. Sono tutti stoici nelle scelte che vengono fatte, ma nei primi film erano decisamente dei buoni (certo, anche Rosetta tradisce il suo unico amico, ma è un atto di cattiveria dettato dalla necessità, che fa particolarmente impressione proprio perché lei è buona). Nel film precedente, viene per la prima volta presentato un personaggio negativo, ma solo per stupidità, non per volontà e, durante lo svolgimento della vicenda crescerà e diventerà il classico personaggio dei Dardenne. In questo, per la prima volta c'è per protagonista un personaggio apertamente negativo; dura, glaciale, sfrutta gli altri esseri umani per i suoi scopi. Per tornare sul tracciato dei film precedenti dovrà esserci una vera redenzione; diventerà solo a quel punto lo stoico e combattuto personaggio da Dardenne.

Anche stilisticamente le differenze (seppure non enormi) ci sono. La macchina a mano viene abbondantemente accantonata in favore di inquadrature più fisse e più pulite (con qualche maggior concessione all'emotività che nei precedenti veniva negata; si pensi alla scena dei due coniugi nudi uno di fronte all'altra), aumentano i dialoghi, ma con un mood generale e un ritmo che mantiene questo film perfettamente in linea con i precedenti. La cosa sorprendente è che in ogni film dei registi belgi c'è sempre qualche piccola evoluzione pur mantenendo uno dei più evidenti marchi di fabbrica di sempre.

PS: camei dei soliti noti.

mercoledì 13 dicembre 2017

Assassinio sull'Orient Express - Kenneth Branagh (2017)

(Murder on the Orient Express)

Visto al cinema.

Il film, tratto dal noto libro della Christie, si rifà in maniera diretta all'altrettanto noto film di Lumet del 1974. Identico è il cast stellare che eclissa il protagonista, identica la voglia macchiettistica di tratteggiare un Poirot caratterialmente indelebile, identica, infine, la certezza di dover creare un falso wodunit, un giallo in cui l'acume del protagonista potrà mettere insieme dei pezzi che lo spettatore non potrà mai fare allo stesso modo.

Supportato da uno dei romanzi più atipici della scrittrice inglese, Branagh, mette in scena un film realizzato in uno spazio limitato, con cast enorme e ambientazioni di particolare eleganza dando, inoltre, sfogo a un esibizionismo senza precedenti. Perché prima ancora che accusare Branagh di aver fatto un film teatrale, bisognerebbe ammettere che ha fatto un film con mattatore assoluto sé stesso. Il film gira tutto intorno a Poirot come personaggio principale, meglio caratterizzato e l'unico con una parabola all'interno del minutaggio; l'unico, infine, adeguatamente caratterizzato da risultare realmente interessante; pure con degli eccessi moraleggianti o di background fastidiosamente suggerito (la foto dell'amata mostrata a più riprese). Sia chiaro, non è una colpa, solo una scelta stilistica che in tutti i suoi precedenti era, tutto sommato, meno marcata.
Il film è esteticamente bellissimo. La cura enorme messa nella realizzazione degli interni e dei vestiti si sposa perfettamente con la messa in scena del regista; per ogni personaggio interrogato cambia location, punti di inquadratura, se necessario messa a fuoco, dando libero sfogo a ogni più represso desiderio estetico più che di realismo (arrivando a condurre un interrogatorio in esterni in mezzo alla neve). Inoltre, Branagh, elimina la componente di potenziale noia (nella ripetitività delle sequenze e nella limitata unità di spazio) con la sua regia più dinamica, con giochi di montaggio ottimi e una macchina da presa mobilissima (splendidi piani sequenza che sembrano realizzati ad hoc per diventare il trailer, inquadrature dall'alto al limite dell'utilità, movimenti della mdp in esterni che sottolineano l'ambientazione, ecc..).

Quello che però non funzione è lo svolgimento della storia. Eliminati gli inciampi di ritmo, manca però al sostanza. Troppi gli strappi di sceneggiatura, i raccordi mancanti, l'opacità nei passaggi determinanti (difetti interni al racconto particolare, ma qui enfatizzati da una certa superficialità), ma soprattutto, un disinteresse quasi patologico per tutti gli altri personaggi. Il cast è sfruttato malissimo, con personaggi bidimensionali, quando non del tutto caricaturali, che non hanno spazio per esprimersi adeguatamente e che, di conseguenza, spingono la gran parte degli attori a una performance decisamente sottotono (salverei solo la Pfeiffer e la Cruz, ma unicamente in alcune sequenze centrali).
Nel complesso un film bellissimo che lascia l'amaro in bocca per più (troppe) ragioni.

lunedì 11 dicembre 2017

Uomini di domenica - Curt Siodmak, Robert Siodmak, Edgar G. Ulmer, Fred Zinnemann (1930)

(Menschen am Sonntag)

Visto in Dvx.

Una giornata di festa nella Berlino del 1930. Il film segue, soprattutto, una ragazza innamorata di un uomo che, però, le preferisce un'altra. Ma la storia è solo la scusa per mostrare una giornata di spensieratezza nella grande città.

Una storia impalpabile (una trama presente, ma delicatissima) di fatti normali, persone come tante e piccoli dettagli, dove i sentimenti in gioco sono fragili e banali come la gioia di una domenica mattina.

Un film incredibile sotto molti aspetti, il più scontato è il poker d'assi al lavoro in questa produzione, oltre ai registi (3 su 4 sono nomi di peso della regia USA dei due decenni successivi) alla sceneggiatura c'è pure un contributo di Billy Wilder, tutti alla loro prima esperienza (tranne Wilder alla seconda).
Questo film inoltre, è una sorta di neorealismo alla tedesca, con attori presi dalla strada e un uso della città (o del fuori città) molto debitore a "Berlino: sinfonia di una città" (più che a Vertov come ho letto in giro).

Il film però è sorprendente anche dal punto di vista tecnico.
Per essere un manipolo di parvenu la regia è grandiosa, con numerosissimi punti d'inquadratura che rendono succosa ogni sequenza e danno dinamismo e ritmo.
Onestamente trovo che questa sia una delle doti principali di un'opera prima, riuscire a non annoiare con la staticità, soprattutto in un progetto, come questo, fatto da numerosi primi e primissimi piani (densi e spesso bellissimi).
Come esempi bastino il dialogo al caffè o il riposo sul prato con l'uomo diviso fra le due donne e una delle due che si appoggia col volto sulla mano di lui.

Infine, è incredibile la capacità di questo film di trasmettere emozioni. C'è un'aria complessiva di ingenua gioia di vivere (ancora più caricabile di emotività se si considera che in un decennio tutto sarà spazzato via) che traspare da ogni scena, mentre i sentimenti dei protagonisti vengono perfettamente resi percepibili da un'espressione del viso, uno sguardo, un movimento o una posizione (l'inseguimento nel bosco o il riposo sul prato). Tutto riesce a essere espresso tramite dettagli impalpabili.

Un film incredibile di quasi assoluta perfezione.


venerdì 8 dicembre 2017

Lo specchio - Andrei Tarkovsky (1975)

(Zerkalo)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un pezzo della vita del regista filtrata attraverso lo specchio appannato della memoria, sequenze dell'infanzia si uniscono senza stacchi ad episodi del protagonista da adulto, la stessa attrice interpreta sia la madre che la moglie.

Questo è, forse, il più famigerato fra i film di Tarkovsky; definito (non a torto...anzi) il suo "Otto e mezzo", di fatto è una rielaborazione poetica e surreale della vita privata e lavorativa dell'autore.
Considerato come capolavoro lirico o come spazzatura autoriale autoreferenziale il film, tutto sommato, è entrambe le cose.
Questo è un capolavoro di perfezione e semplicità. La regia ormai standardizzata nei due film precedenti (ampi carrelli, specie in esterni, o piccoli movimenti di macchina, specie negli interni) viene usata in maniera generale, la fotografia (non entusiasmante per i limiti di lavorazione) ragionata e in linea con i lavori pregressi; ma tutto questo fa parte dei dettagli secondari; quello che più traspare è un lieve poeticità presente in tutto, in una donna che siede su una staccionata, in un gatto che lecca il latte versato sulla tavola, in un labbro che sanguina per il freddo; tutto è messo in una galleria di dettagli che fanno da sfondo a una storia principale (volontariamente) meno interessante; tutto è un grande affresco di una vita a partire dalle piccole cose (a cui, ovviamente, vanno aggiunte alcune strepitose scene oniriche, come la donna che levita sul letto). Personalmente trovo che l'efficacia della poesia di questo film, superi di gran lunga, la pretesa filosofia della memoria di "Solaris".
D'altra parte questo è un film autoriale che parla a sé stesso, coi tempi soliti di Tarkovsky (che è normalmente lento come un ghiacciaio) che sembrano anche dilatati; la mancanza di una struttura narrativa peggiora la percezione e la poesia (si sà) è più complicata e più personale della prosa.
Un film a cui val la pena dare una possibilità, ma che sarà facile altrettanto facile amare od odiare.

mercoledì 6 dicembre 2017

Kamisama no iu tôri - Takashi Miike (2014)

(Id. AKA As the Gods will)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

In una scuola superiore (in realtà più tardi si scoprirà che succede in tutte le scuole di tutto il mondo) un Daruma gioca a un due tre stella, e chi si muove esplode, uno dei ragazzi sopravviverà, ma solo per riunirsi con gli altri sopravvissuti per tenere testa a un gatto della fortuna (Maneki-neko) gigante per proseguire con delle marionette, un orso bianco e delle matrioske; tutti faranno giochi idioti, ma mortali.

Nessun senso apparente, nessuna spiegazione, un finale aperto e un'arroganza come mancava da anni.
Il film è realizzato da dio, la CG che viene usata a piene mani è ottima in molte sequenze e accettabile in altre (il gatto della fortuna è l'unico che desta qualche imbarazzo, ma tutto sommato risulta accettabile), l'animazione è adattata al personaggio con un livello ottimale per il Doruma e un'animazione volutamente a scatti per l'orso bianco, adattando tutto in base alle necessità sceniche. Poi... beh, Miike è uno che ci tiene alla costruzione di immagini, e quello che cerca di fare è costruire delle location che permettano l'inquadratura ad effetto, riuscendo fin dalle prime immagini a farti capire che anche se fosse un film su commissione, lui ci sa fare lo stesso (la classe piena di corpi morti senza testa e perline rosse con il Daruma che spicca è fantastica)

I difetti di questo film sono essenzialmente due. Essendo strutturato a livelli come un videogioco in cui bisogna affrontare un boss, non tutte le prove sono egualmente interessanti e la struttura ripetitiva (con due personaggi principali che, si sa, arriveranno almeno contro il boss finale) aiutano a sotterrare il ritmo nelle sequenze scritte peggio.
Inoltre Miike stesso ci mette del suo; il lungo finale con le matrioske (che poi si rivelerà solo essere il primo di almeno altri due finali) è tirato per le lunghe, come se la lentezza fosse sinonimo di tensione; un difetto, questo che è tutto imputabile al regista.

Per chi conosce e apprezza Miike questa non sarà l'opera più anarchica e neppure la più strana; anche se qui, più che mai, ci si chiede dove sta il limite fra il genio che se ne fotte della logica per costruire macchinari (e inquadrature) perfetti e dove la presa per il culo. Per me il film funziona, lungaggini a parte è quasi perfetto e la sequenza iniziale del Daruma è da manuale, per ora non chiedo di più.

lunedì 4 dicembre 2017

Happy end - Michael Haneke (2017)

(Id.)

Visto al cinema.

A causa di un "incidente" con dei farmaci la madre di una ragazzina viene ricoverata. La ragazzina andrà a vivere col padre risposato. Lui però vive in un ampio caseggiato con l'anziano padre degli istinti suicidi, la sorella che deve affrontare una crisi aziendale, il nipote con problemi di accettazione e frequenti squilibri. Il padre stesso intrattiene una relazione telematica estremamente sguaiata.

Come spesso succede, Haneke, si occupa delle disfunzioni della borghesia, degli istinti segreti e del demone che sono le persone che bruciano per autocombustione. Qui, per la prima volta il suo punto di vista si amplia su una serie corale di co-protagonisti.
Haneke ci ha, da sempre, giocato in maniera pesantissima con i suoi protagonisti e con lo spettatore, accanendosi su entrambi, riuscendo genuinamente a creare film fastidiosi per chi li guarda e distruttivi per i suoi personaggi. Ecco, in questo caso, semplicemente, fallisce su entrambi i fronti.
A causa del cast troppo ampio la foga distruttiva viene troppo diluita e l'apparenza pulita che nasconde vite così torbide ne risulta edulcorata; non succedono apocalissi private come nei film precedenti, solo idiosincrasie, problemi, ansie. In un film in cui l'impatto sui personaggi è così superficiale anche lo spettatore si ritrova molto meno segnato; non c'è mai vero fastidio, mai vera ansia, non c'è mai il classico pugno nello stomaco hanekiano.
Per essere precisi, qui il problema non è la scrittura, anzi, la trama si muove con la consueta calma autoriale senza mai annoiare o scadere nel troppo lento. La sceneggiatura utilizza diversi sistemi di comunicazione (c'è molto digitale in questo film) e avverti di cambi improvvisi senza perdere tempo in spiegazioni; allo spettatore il compito di decifrare ciò che è successo o che potrebbe essere successo. Il problema, si diceva, non è la trama, ma il soggetto in sé.

In questo film, ben girato e magnificamente curato, non c'è la consueta malignità del regista austriaco, non c'è mai vero dolore e, addirittura, c'è un pelo di benignità eccessiva. Un film ben condotto, ma innocuo: l'antitesi di ogni altro film di Haneke.

domenica 3 dicembre 2017

Lamb - Yared Zeleke (2015)

(Id.)

Visto al Festival di cinema africano, in lingua originale sottotitolato.

Un ragazzino, orfano di madre, deve separarsi anche dal padre che cercherà fortuna nella capitale. Verrà tenuto da un loro cugino. La convivenza sarà difficile, tra spinte reazionarie e innovatrici delle due figlie e il suo affetto traslato dalla madre alla pecora che le era appartenuta, sarà rapidamente inviso al nuovo capo famiglia.

Film di formazione piuttosto semplice che fa della propria linearità un vanto. La scrittura è sicuramente alle prime armi, eppure lascia pochissimo al caso (molti i dettagli e i riferimenti interni alla trama sparsi durante lo svolgimento) e riesce a ottenere un effetto finale di compattezza invidiabile. Purtroppo tutti questi pregi vengono appesantiti da una mancanza di ritmo che sembra una precisa scelta piuttosto che una leggerezza; qualunque ne sia l'origine e l'intento il film ne viene gravato e non acquista profondità.

Il vero punto di forza, però, è tutto nelle immagini. Una fotografia molto curata dai colori accesi che si dilunga in frequenti campi lunghissimi del verdeggiante altopiano etiope; immagini che sembrano dipinti a cui si aggiungono alcune sequenze in interni in cui, la prima scena, viene costruita con la stessa plasticità e l'uso degli spazi dei quadri.

Presentato a Cannes, opera prime di Zeleke, più che essere un film pienamente soddisfacente fa ben sperare per il futuro.

venerdì 1 dicembre 2017

The square - Ruben Östlund (2017)

(Id.)

Visto al cinema.

Il curatore del museo di arte moderna e contemporanea di Stoccolma viene derubato di portafoglio e cellulare. Per cercare di ritornarne in possesso manderà lettere minatorie in un intero palazzo riottenendo la refurtiva, ma scatenando le ire di un ragazzino; nel frattempo riuscirà a prestare meno attenzione alla famiglia (le figlie) e al lavoro (la disastrosa campagna pubblicitaria per la personale di un'artista argentina).

Non conosco il cinema di Östlund, quindi definire una linea generale al di là dell'opera appena uscita è impossibile; ma in questo film ho ritrovato diversi punti di contatto con il cinema del connazionale Andersson: la stessa cura maniacale dell'immagine con una fotografia nitidissima, lo stesso gusto per il paradosso, un umorismo fatto di situazioni (le cose che succedono nel modo in cui succedono sono divertenti, nonostante non ci siano battutte o gag slapstick) e una ricerca del corpo e del viso degli attori per trasmettere il mood del film (in Andersson è lil gusto per il freak, qui invece c'è una bellezza ostentata nell'upper class e una malagrazia diffusa fra gli abitanti di serie B di Stoccolma).
Le congiunture però si chiudono qui e iniziano i punto autonomi.
Östlund cerca la critica sociale attraverso il paradosso e l'ironia grottesca; un divertimento nel mettere in situazioni fastidiose (alcune che infastidiscono il pubblico stesso) i suoi personaggi (escludendo chi viene attaccato, anche accidentalmente, dai protagonisti) che cerchino di svelare l'assurdo e l'ipocrisia non tanto della singola persona, quanto del sistema di accettazione delle convenzioni (non a caso l'intero film viene ambientato nel mondo dell'arte contemporanea che, come detto nell'intervista iniziale, è di fatto una serie di convenzioni silenziosamente accettate).

Una costruzione perfetta, tirata a lucido con una classe incredibile (alcune soluzioni dinamiche della macchina da presa sono da applausi) e alcune sequenze che rasentano il genio (l'happening artistico in cui durante la cena raffinata un uomo si finge un gorilla con esplosioni di bestialità da ambo le parti) dovrebbero supportare una critica sociale ampissima (l'arte contemporanea, l'upper class, il marketing, l'osssessione dle politicamente corretto, la libertà d'espressione, ecc...); ovviamente l'intento non funziona completamente e il film sembra aver girato a vuoto in più di un momento. Con meno tracotanza e un minutaggio più contenuto avrebbe potuto essere un cult scintillante.

giovedì 30 novembre 2017

T-Junction - Amil Shivji (2017)

(Id.)

Visto al festival di cinema africano (fuori concorso), in lingua originale sottotitolato.

Una ragazza, durante i 40 giorni dopo il funerale del padre, deve recarsi in ospedale per il ritorno del certificato di morte e per un sospetto di malaria. Lì incontrerà un'altra giovane con delle ferite alla testa e al braccio che si comporta in maniera strana e che inizierà a raccontarle la storia della T-Junction (un incrocio a T), dove si trovavano diversi venditori vari; nella storia si parla dei loro rapporti, dei loro tentativi di affrancarsi dal lavoro di strada e della polizia, violenta e ottusa.

Questo non è un bel film, ma è un film fatto da Dio.
Il problema che affossa l'intera opera è la sceneggiatura. Nonostante un'intuizione artificiosa, ma interessante (la doppia trama, la storia principale in cui si inserisce il racconto della ragazza dell'ospedale, fatto a puntate) e una iniziale tendenza a dare una pennellata di personalità a molti dei personaggi presenti (che però si ferma presto alla superficie); non corrisponde un'equivalente ritmo nella trama, non è evidente uno scopo, un obiettivo, né viene descritto un arco narrativo vero e proprio. La trama del funerale non vuole svelare i misteri che la circondano, quella della T-Junction non va oltre l'affresco fine a sé stesso; entrambe sono scelte non prive di interesse, ma una delle due avrebbe dovuto essere più canonica per permettere uno  svolgimento che mantenesse vivo l'interesse.

A fronte di evidenti problemi di trama il film si dimostra qualitativamente eccellente dal punto di vista estetico. Una fotografia con lievi viraggi del colore, una regia che riesce a dare dinamismo con una macchina amano saltuaria e mai fastidiosa, alcuni primi piani perfetti e ricchi di significato, un uso di luci crude (e in un paio di scene anche luci colorate) sensatissimo, e una scelta delle inquadrature tutta giocata sul montaggio interno per dare dinamismo (punti di fuga quasi mai centrali, location scarne, ma ottimamente utilizzate, movimenti dei personaggi ragionati).
Peccato che un tale sforzo sia stato messo al servizio di una trama così poco interessante.

mercoledì 29 novembre 2017

Ghidorah! il mostro a tre teste - Ishirô Honda (1964)

(San daikaijû: Chikyû saidai no kessen)

Visto qui, doppiato in inglese.

Una pioggia di strane meteoriti colpisce la terra e un gruppo di geologi con scarsa voglia di lavorare cerca di studiarne uno (con scarsi risultati). Nel frattempo una principessa di un paese straniero (rispetto al Giappone) sembra esplodere in volo, mentre una profetessa uguale alla suddetta principessa, che afferma di essere una marziana, va in giro a portare male, arrivando a prevedere la ri-comparsa di Rodan. Nel frattempo le due fate gemelle in contatto con Mothra fin dal precedente film finiscono in uno show televisivo. Al colmo della sfortuna (oltre alle fate in tv intendo), Godzilla torna a portare distruzione e dal meteorite esce Ghidorah, un mostro astrale a tre teste più pericoloso dei normali kaiju. Sembra un momento apocalittico, ma l'intervento diplomatico di Mothra convincerà Godzilla e Rodan a collaborare per sconfiggere il drago venuto dalle stelle.

Godzilla numero 5. Dopo 3 seguiti che cercavano la via per sfruttare il brand nel migliore dei modi, sembra, finalmente, arrivato il film di assestamento. Godzilla, di fatto, vive di riflesso rispetto ai nemici che gli vengono messi a fianco e in questo film si perfeziona l'idea di uno scontro totale con i vari mostri della Toho iniziato con il capitolo 4 della saga.
Sempre dal precedente capitolo si continua intoltre la trasformazione del franchise in una serie per bambini. Diminuiscono i momenti di distruzione, aumenta la mimica dei mostri slittando verso l'ironia (il palleggio delle rocce, Godzilla che fugge coprendosi il sedere, ecc...).
Il quadro sembra completato da una trama più articolata che si avvicina alla fantascienza cercando di allontanarsi dall'horror del primo episodio.

Tecnicamente a livello dei precedenti, il film risulta inferiore per una sostanziale mancanza di innovazione. A livello di contenuti, però, introduce il personaggio di Ghidorah (vero protagonista del film) che diverrà il principale antagonista di Godzilla e rispolvera quello di Rodan (il primo kaiju della Toho); la presenza di Mothra è, invece, il vero motore dell'azione e viene presa direttamente da "Watang", il capitolo precedente.

PS: partecipazione straordinaria, di nuovo, di Takashi Shimura.

lunedì 27 novembre 2017

Terra senza pane - Luis Buñuel (1933)

(Las Hurdes)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Documentario su una regione della Spagna ai confini con il Portogallo, terra dimenticata da Dio e dal governo in cui negli anni trenta le malformazioni d'origine genetica, il gozzo e la malaria falcidiavano la popolazione, dove le condizioni di vita erano decisamente a livello dell'attuale terzo mondo.

Documentario apertamente politico (il cartello finale è fin troppo esplicito), con un filo di anticlericalismo, che mostra uno spaccato di vita quotidiana di una zona retrograda (per stile di vita, ma anche a livello culturale). Il filmato è in origine un film muto ridoppiato da una voce fredda e musica classica.
Un documentario per lo più in presa diretta, ma con una parte del materiale registrato che appare creato ad hoc (lo stambecco... o capra, che cade), che denota una ricercatezza formale anche in un filmato minimale e con intenti più pragmatici.
Anche il dettaglio del doppiaggio è in linea con l'intento programmatico, permette infatti di capire i concetti veicolati con esattezza, purtroppo nel farlo toglie molta dell'enfasi e dell'efficacia che le immagini avrebbero da sole. Le parole della voice off sono la prosa, le immagini (da sole) la poesia; una poesia solare nelle scene naturali (la scena delle api), poesia lugubre quando mostrano gli esseri umani (che veicolano malattie e morte).
In aggiunta si vede chiaramente il sub strato storico da cui è nato il surrealismo spagnolo, l'ambiente da cui è scaturito al di là dei motivi per cui si è sviluppato (difficile non pensare a Dalì vedendo l'asino con le api).

Lui - Luis Buñuel (1953)

(El)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un retto e probo rappresentate della comunità cittadina decide, finalmente, di abbandonare la sua, morigerata, vita da scapolo. Sposa una nuova arrivata soffiandola all'amico. La donna presto s coprirà tutte le ossessioni e le fissazioni del marito, ma anche quando le cose sembreranno prendere una piega drammatica, nessuno le crederà.

C'è bisogno di dire che una delle principali ossessioni di Buñuel è l'ipocrisia della borghesia e della chiesa? stupisce il fatto che principalmente il film parli della prima e per quanto può, anche della seconda?
Nulla da ridire sul concetto in sé, ma è la sua ripetizione che sa di stantio e pesante; tuttavia in Buñuel  c'è di buono che i suoi film vivono di vita propria indipendentemente dalla tesi di fondo.
Qui la critica è talmente evidente da essere stucchevole, tuttavia, ancora una volta, Buñuel ce la fa.

Preso come storia in sé anziché come un metaforone si ha davanti una trama imperfetta, con troppe reiterazioni di un rapporto malato che a lungo andare stanca; ma l'idea di fondo riesce comunque a venire fuori, la regia è ben calibrata e godibile (pur senza guizzi) e il cast sempre a metà tra l'accettabile e l'inaccettabile- In tutto ciò il dramma da camera riesce comunque a diventare protagonista, l'ossessione che distrugge una coppia e poi un uomo (ma anche la storia di una donna in trappola) funziona magnificamente e il film riesce comunque a portarsi a casa la pagnotta.

venerdì 24 novembre 2017

Schock - Mario Bava (1977)

(Shock)

Visto in Dvx.

Una donna con un figlio dal precedente matrimonio torna nella casa in cui l'ex marito si suicidò con il nuovo compagno. Inutile dire che cominceranno strani avvenimenti, soprattutto in relazione al figlioletto.

Ultimo film di Bava (per il cinema), spiace dire che non è all'altezza delle aspettative. L'idea di partenza (chiara solo nel finale) è buona, ma quello che manca è la tensione.
Il film è un lungo girare intorno al finale, una lunga preparazione in cui la trama è gestita bene, ma il ritmo quasi totalmente assente e le scelte visive sono copie d'idee viste mille volte.
Non so se è un problema effettivo o se è solo un film invecchiato, ma vedendo il finale direi più la prima ipotesi.
Si, perché il finale è inaspettatamente buono. Il twist plot funziona, ma soprattutto ci sono idee ottime, la tensione è presente, le creazioni realizzate sono originali e sorprendono (in parte) con molta inventiva (il bambino che diventa l'adulto, la scena dell'armadio) e il meglio inizia con la famosissima scena dei capelli (che si può vedere qui); giustamente la più famosa, nonché la migliore sequenza del film (delle mani di luce che tolgono la coperta e i capelli antigravitari!).

Anche se siamo lontani anni luce dalle capacità del regista, con quel finale, tutto sommato, si chiude con dignità una grande carriera.

mercoledì 22 novembre 2017

Il serpente di fuoco - Roger Corman (1967)

(The trip)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un uomo vuole provare dell'LSD, la assume a casa di un suo amico; l'esperienza (l'intero film è il suo trip) sarà molto altalenante, tra lo stupefacente e l'angoscia.

Difficile fare un film intelligente e paraculo nello stesso tempo; eppure anche in questo Corman sembra azzeccarci. Commercialmente sul pezzo, come produttore, riesce a sfornare un film sfrontato fin dal titolo (originale) e dal sottotitolo (a Lovely Sort of Death), che però riesce a racchiudere seriamente una parte dello zeitgeist dell'epoca. In anticipo di due anni sul film manifesto "Easy rider" (con cui condivide solo la superficie, ma di cui è, di fatto, il genitore più prossimo assieme a "The wild angels") e uscito precisamente durante la summer of love, questo film si dimostra incredibilmente calato nella sua epoca; ma è evidente che Corman ha un occhio al botteghino in più rispetto a quello che si crederebbe.
Per la filmografia del regista va anche ricordato che questo è anche uno dei primi film del periodo post-Poe.

Il film inizia con un cartello che avverte dei pericoli delle droghe, poi comincia un lungo film che dichiara apertamente il contrario.
Il film è indubbiamente molto lineare... e piuttosto noioso; non si muove d'un metro dall'idea di base, il lungo trip di una uomo qualunque (dove però da di matto).
Se lo si guarda come documento storico il valore aumenta; scritto da Nicholson, interpretato da Peter Fonda, Dern e Hopper e una fotografia semplicemente calzata sul decennio (colori acidi, location adatte) e un lungo trip che tocca tutti i temi della rivoluzione sessuale, il mondo metafisico, l'insight, il sesso. Meno filosofico (e meno pretenzioso) rispetto a "Easy rider", anche qui c'è il manifesto di un'epoca.

Dietro la macchina da presa Corman si muove continuamente (nei primi dieci minuti è un continuo passare da un carrello all'altro, da una panoramica all'altra) e utilizza la musica alla maniera di Scorsese. Poi inizia un acid movie fatto di sovrapposizioni, proiezione di immagine sui corpi, montaggio rapidissimo e sequenze senza costrutto. Anche al netto delle fighetterie imposte dalla trama rimane un film innovativo per lo stile di Corman, ma ancora di più se si considera che aveva appena chiuso il suo periodo su Poe. Anche al netto di tutti i difetti che io per primo gli imputo, rimane uno dei film più estetici del regista, dove le immagini ha un impatto notevole e dove, per ottenere questo effetto, c'è una delle più brillanti collaborazioni fra tutti i compartimenti della produzione del film.

lunedì 20 novembre 2017

Zangiku monogatari - Kenji Mizoguchi (1939)

(Id. AKA La storia dell'ultimo crisantemo)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Il figlio di un noto attore di kabuki sembra non aver preso il talento del padre; quando, per giunta, si innamorerà di una ragazza di umile estrazione si allontanerà dalla famiglia vivendo in povertà. Trascorsi 5 anni, e dopo un duro apprendistato, sarà divenuto un ottimo attore, la famiglia gli chiederà di tornare e la ragazza, per amor suo, si farà da parte senza che nessuno glielo chieda per permettere il ritorno. Il giorno del grande successo di pubblico del ragazzo, la ragazza starà morendo, ma vorrà che lui non le rimanga vicino per non togliergli il suo momento di gloria.

Mizoguchi è uno che ha sempre fatto melodrammi durissimi senza sfociare nel sentimentalismo più spitno in un miracolo di equilibrismo quasi sempre mantenuto. In questo film, non solo le regole del suo cinema sono rispettate, ma per tutta la durata non sembra neppure di assistere ad altro che a un dramma familiare, con un'impennata di melodramma nello straziante finale.
Da molti considerato il film più femminista di Mizoguchi, credo che la definizione sia esagerata, il personaggio femminile è il più potente della filmografia del regista e rappresenta in toto la figura della donna angelicata classica, ma ha più i contorni della martire che non della ragazza emancipata; più che un film femminista è un film femminile, o almeno con un grande rispetto per la sua protagonista (l'unica, a mio avviso, a uscirne bene).

Lo stile di regia è ottimo, basato tutto su lunghi piani sequenza, per lo più con carrelli laterali; evidentissimo nell'ottima scena del treno con l'inquadratura dall'interno all'esterno e molto ben realizzato nella lunga passeggiata notturna dell'inizio. Inoltre la macchina da presa si muove attorno o dentro le location sfruttando in toto gli spazi ricostruiti (in una sequenza il teatro viene mostrato nel suo complesso, anche se in porzioni distinte, prima la platea e il palco, poi il dietro le quinte e quindi lo spazio sotto il palco).

Unico neo sono, ovviamente, i ritmi dilatati che gonfiano il minutaggio in maniera eccessiva.

venerdì 17 novembre 2017

Becky Sharp - Rouben Mamoulian (1935)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese


Adattamento cinematografico di "La fiera delle vanità" incentrata su una ragazza, orfana che cerca di farsi strada nel mondo con la sua vitalità, l'amore per le bugie ben sostenute e sfruttando parenti, conoscenti e guerre napoleoniche.

Di fatto un film risibile, dalla trama flebile e un gusto piuttosto insipido. La protagonista è uno dei pochi punti a favore, un bel personaggio, simpatico all'inizio e nel finale, ma anche lei, nel mezzo della storia annaspa.
Mamoulian dietro alla macchina da presa sembra inesistente; riesce benissimo nella scena della festa interrotta dai cannoni di napoleone, dove gioca con il buio e il dinamismo, ma fuori dall'eccezione per il resto dirige con il pilota automatico. Non so se questo sia dovuto allo stile di Mamoulian (e che il suo "Dr. Jekyll" quindi sia eccezione meritevole) o al fatto che il regista fosse soverchiato dal comparto tecnico (e dall'ansia dello studio per la costosa innovazione).
Perché questo film viene ricordato soprattutto (... o soltanto) per essere il primo della storia in technicolor. Girato con tre pellicole in contemporanea, una per ogni colore primario, e poi sovrapposte fu il capofila della sperimentazione su larga scala della tecnica del colore.
Al di là dell'aneddotica qui il colore ancora non è nulla di più che il tentativo di riproporre il cinema delle attrazioni (la prima scena è una sorta di sipario da cui escono una decina di ragazze; un tentativo per colpire dalla prima scena, ma senza aggiungere nulla sul significato); pochi anni più tardi "Via col vento" insegnerà a tutti cosa si può fare con il colore e uno spirito impressionista.

mercoledì 15 novembre 2017

Non si sevizia un paperino - Lucio Fulci (1972)

(Id.)

Visto in Dvx.

In un paesino del sud Italia avvengono una serie di inquietanti omicidi di bambini, tutti in maniera identica. Oltre alla polizia inizierà a indagare un giornalista che, unendosi nelle ricerche a una delle indiziate, scoprirà cosa sta succedendo realmente.

Mi trovo a concordare con l'opinione generale; considerando i film di Fulci che ho visto finora, questa è la sua opera migliore. La sinossi estremamente semplicistica non rende merito di un mood che non ha niente a che vedere con il perturbante metafisico della "Trilogia della morte", ma riesce a dare un senso di impotenza di fronte a una perversione generalizzati e insondabile.

La regia fluida è sempre la stessa, con un amore particolare per i piani di ripresa complessi (dei finti panfocus o l'uso del fuori fuoco per suddividere un'inquadratura), una mano piuttosto pesante sugli zoom e soggettive, ma soprattutto i continui, piccoli, movimenti di macchina da presa che rendono più gustoso il montaggio interno.

Ma al di là della regia sempre efficace questo film vince per concretezza. La trama sarà ai limite della sospensione dell'incredulità, ma è gestita benissimo, con estrema concretezza; i personaggi che si susseguono sono solo abbozzati, ma lasciano intendere tutto un mondo tridimensionale dietro di loro (tutta la prima parte con le indagini dei Carabinieri è la descrizione di un microcosmo dalle miriadi di anfratti). Inoltre riesce a mantenere coesa una storia estremamente dispersiva con continui cambi di protagonisti (prima i carabinieri, poi il giornalista) così come di sospettati (magnifico il fatto che il Fulci ci induca ad avere sospetti anche prima che li abbia la polizia, per poi frustrarli sistematicamente).

lunedì 13 novembre 2017

It - Andy Muschietti (2017)

(Id.)

Visto al cinema.

La storia di "It" la conosciamo tutti e chi non la conosce è una brutta persona. Comunque qui una sinossi d'aiuto.

"It" è un horror e insieme un film di formazione. La base da cui la storia parte è duplice, un clown assassino e un gruppo di regazzini sfigati e fobici che scende a patti con le proprie paure e, per quanto possibile, con i bulli. Quando dico "It" intendo questo film, anche se la base è la stessa per la precedente serie tv così come per il romanzo di King (che non ho ma letto e tutti mi dicono essere estremamente più complesso).

Il problema di questo film è che gestisce malamente entrambe le basi.
Il film di formazione viene annegato in una sceneggiatura decisamente sciatta che, nelle scene di maggior empatia, scivola nell'idiozia (i regazzini che vedono il bagno pieno di sangue e decidono di pulirlo con la stessa tranquillità che se fosse il soggiorno dopo una festa; la sassaiola sul fiume a 2 metri di distanza e che è pure montata malissimo); sorvola sulle introduzioni dei personaggi che risultano superficiali annullando completamente la fidelizzazione dello spettatore verso quel gruppo di regazzini e ne gestisce con troppa fretta le varie dinamiche (lo scontro, lo scioglimento del gruppo, la piccola evoluzione avvenuta nei mesi di distacco, la lotta con il mostro). Ovviamente gestire un cast con 7 coprotagonisti obbliga a lasciarne alcuni sullo sfondo, ma da qui a rendere sostanzialmente inutile la figura di Mike (con il risultato che lo scioglimento del gruppo appare una forzatura senza pathos) ne passa, a questo punto si poteva eliminare uno o due personaggi e aiutare lo spettatore a empatizzare con i rimanenti.
Il film horror invece si concentra totalmente sull'immagine del clown che viene sfruttata fin dall'inizio in maniera massiva; e qui bisogna ammetterlo, ogni scena con il mostro è esteticamente vincente, ognuna in maniera diversa dalle altre senza alcun rischio di cadere nel ridicolo. Gli altri mostri invece sono altalenanti (il Modigliani è molto contemporaneo, ma efficace, il lebbroso è ridicolo). Tuttavia l'efficacia estetica dl mostro sembra essere stata l'unica ansia della regia che, purtroppo, si dimentica di creare tensione. Va detto chiaramente, "It" non fa paura. Mai. Incapace di creare una genuina tensione addirittura nella iconica scena del tombino, Muschietti, fallisce anche nel fare paura con l'improvvisa comparsa del mostro, raggiungenre il non encomiabile record di film horror più bello senza orrore.

A mio avviso il film è un totale fallimento di per se, senza considerare il paragone con le due opere alle spalle. La parte più riuscita è l'efficace campagna pubblicitaria.

PS: si dai un paragone va fatto, meglio CurrySkarsgård? beh, sono due cose diverse. Curry ha inventato un mostro completamente nuovo, un clown che si comporta da clown (i movimenti buffi, la mimica facciale, gli scherzi idioti), ma talvolta mostra una fila di canini; riesce, quindi, a creare tensione in maniera completamente nuova, completamente personale. Skarsgård, invece, crea un mostro decisamente più classico, più animalesco, più inquietante fin dalla prima occhiata, più in linea con il romanzo, ma meno originale.

venerdì 10 novembre 2017

The devotion of susptect X - Alec Su (2017)

(Id.)

Visto in aereo, in lingua originale sottotitolato in inglese.
Un genio ridotto a fare l'insegnante di matematica e dalla vita piatta si innamora della vicina di casa. Quando la donna ucciderà il violento ex marito, il matematico si prodigherà per nascondere l'omicidio. Quello che l'uomo non sa è che nelle indagini verrà coinvolto un suo ex compagno di classe, anche lui non meno geniale.

Un giallo che non tocca il whodunit per spostarsi sullo scontro fra menti (che tanto piace in Giappone)  e sul come gli obiettivi vengano raggiunti.
La scrittura dei personaggi è però piuttosto piatta con uno dei due antagonisti che è un uomo geniale e figo in tutto, e l'altro un genio sfigato e impassibile, entrambi senza sfumature e con gli attori incastrati in caratteri che non permettono una performance adeguata (particolarmente vero per il povero Zhang, costretto a non recitare per l'intero film).
La storia è scritta in maniera tale da puntare tutto sul colpo di scena finale a scapito di altre idee che avrebbero potuto essere altrettanto (o più) gustose. La parte sentimentale è lasciata, infatti, a pochi tratti sparpagliati nello svolgimento che vengono ammazzati dal distacco dell'antagonista; lo scontro fra menti è addirittura annullato del tutto per l'intera parte centrale. Una serie di idee buone, utilizzabili anche come sottotesti o altri piani di lettura che vengono spente per poi pretendere un finali ricco di emozioni che però non è supportato, non è costruito con la dovuta calma e fallisce clamorosamente.
Decisamente buona, invece, la messa in scena, con una cura dell'intero comparto visivo degna della migliore industria cinematografia e una regia non inventiva, ma puntuale e completamente al servizio della vicenda.

Al di là della qualità in sé, il film è importante essendo la prima grande produzione cinese che mette in cantiere una vicenda tratta da un romanzo estero (anzi, più che estero, giapponese!), ovviamente riadattata per non incontrare la censura cinese (come l'obbligo di non mostrare la polizia come inefficiente, da lì la figura del giovane poliziotto non meno geniale dei due veri protagonisti della vicenda, figura piuttosto stonata nell'economia della vicenda che ruba spazio che sarebbe potuto essere utilizzato meglio). In caso di buoni incassi potrebbe cominciare la stagione cinese di riadattamenti di manga e anime; un periodo potenzialmente d'oro.

mercoledì 8 novembre 2017

Insospettabili sospetti - Zach Braff (2017)

(Going in style)

Visto in aereo.

Tre, anziani, amici, tutti sofferenti di ristrettezze economiche (chi rischia lo sfratto, chi ha problemi di salute e chi sta per cadere in una storia d'amore senile) si decidono, dopo molti ripensamenti, a commettere una rapina, di farlo con etica, ma anche con serietà.

Remake di "Vivere alla grande", film del 1979 che, purtroppo, non ho visto, ma dalla cui sinossi si intuisce un peso specifico maggiore o, quantomeno, più cinismo e meno faciloneria.
Alla sua terza opera da regista, Braff, cade nei suoi consueti difetti, la voglia programmatica di essere originale pur nella stretta via dei buoni sentimenti, se possibile legati a degli outsiders e/o picchiatelli che facciano tenerezza (ok, mi sto basando solo a "La mia vita a Garden State" dato che "Wish I was here" non l'ho ancora visto, ma mi sembra che stia nel solco già tracciato).
Per portare a casa il risultato, in questo film, Braff, segue un paio di tendenze degli ultimi anni e le allaccia a un heist movie classico, ma limitato alla sola seconda parte del minutaggio. Le due tendenze sfruttate sono i film geriatrici e le commedie in cui l'anticapitalismo si sviluppa in atteggiamenti illeciti come forma di liberazione dell'oppresso (si veda "Dick e Jane" o "Colpo di fulmine"). Se la prima delle due è un rimasticamento furbo, più che intelligente, di generi e vecchi attori per raggranellare facili spettatori, la seconda è, spesso, un modo piuttosto intelligente che ha trovato la commedia per declinare gli anni della crisi economica.
Ecco Zach Braff prende tutto quanto, lo mischia a un buonismo scaldacuore estremamente irritante, lo epura da ogni rischio di essere minimamente spigoloso, lo incolla in un film dalla sceneggiatura poco solida (poche le idee degne di nota e spesso attaccate le une alle altre senza alcuna grazia) e assume 3 nomi altisonanti sperando di fare cassa...
A conti fatti l'ultima manovra, la presenza di Caine, Freeman e Arkin, è l'unico motivo per cui l'ho voluto vedere e, dunque, è la vera decisione di marketing a cui bisogna riconoscere un certo successo. Anche i tre protagonisti, però, pur facendo il loro compito nel migliore dei modi, sono sviliti da un film dozzinale più che esserne accompagnati; non sarebbe neanche da citare, per rispetto suo, la comparsata di Lloyd. Fa invece piacere rivedere sullo schermo Dillon che mi era uscito dai radar da molto tempo, lui veste i panni, innocui, del poliziotti o porta a casa un risultato facile senza perdere troppo smalto.

Da evitare

lunedì 6 novembre 2017

Dhuruvangal pathinaaru - Karthick Naren (2016)

(Id. AKA "16 extremes")

Visto in aereo, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un ispettore di polizia ricostruisce l'indagine che lo portò a perdere una gamba in un incidente stradale. La ricostruzione segue l'andamento delle indagini, le supposizioni fatte e comprende alcune omissioni che verranno a galla con il proseguire della spiegazione.

Ottimo thriller Tamil che parte da un flashback per raccontare una vicenda complessa non per lo svolgimento dei fatti incriminati, ma perché rappresenta il muoversi a tentoni della polizia, le piste morte, le illazioni, la tendenza a seguire l'intuito (utile o fuorviante che sia).
Il solido protagonista è il perno della vicenda, deus ex machina che non la sua sola presenza fa proseguire la storia e con le sue elucubrazionie occhiate determina il destino di tutti.

Con lo spirito indie del nuovo arrivato (i regista è alla sua opera prima), ma ma con i soldi delle grandi produzioni locali, Naren decide di svolgere la storia senza dare aiuti allo spettatore (tutti concentrati in due capitoli, uno lo svolgimento del delitto secondo l'opinione dell'ispettore e l'altro lo svolgimento "reale"), gestendola come una puntata di "Law and Order", senza punti di riferimento iniziali se non le procedure d'indagini stesse e con l'aura del whodunit. Dall'altra parte il film rappresenta dei poliziotti come esseri, fin dalla prima scena l'arma è descritta con disincanto e più incline a mostrare le ferite più che i successi dando, fin da subito, un senso di lieve amarezza che tenderà solo ad aumentare.
Il finale con una serie di piccoli colpi di scena fino a quello vero e proprio (e meno credibile di tutti... ma con una giusta dose di sospensione dell'incredulità diventa godibilissimo) che diventano coronamento del film e non estremo tentativo di originalità a ogni costo.

venerdì 3 novembre 2017

Casa Casinò - Andrew Jay Cohen (2017)

(The house)

Visto in aereo, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Una coppia non ha più i soldi per mandare l'amata figlia all'università, decide quindi di aprire un Casinò illegale nella casa di un amico spiantato. Comincerà a essere vissuto da tutta la cittadina, ma sarà anche preso di mira dalla mala e dalla politica.

Alla sua prima prova da regista (in un lungometraggio per il cinema), lo scrittore Andrew Jay Cohen (autore di "Cattivi vicini"), prodotto da Adam McKay (il regista di "Fratellastri a 40 anni", "Ricky Bobby" e "Anchorman") costruisce l'ennesimo film perfetto per Will Ferrell. L'ennesimo film dove l'attore è un adulto piuttosto scemo che reagisce alle sfide della vita in maniera iperbolica ed esagerata e che, con gli adolescenti, condivide il senso di ribellione alla conformità di cui fa parte.
Se un film del genere, nonostante non cambi mai nonostante gli anni passati, sia comunque una rinfrescante boccata di comicità demenziale come fanno ormai in pochi (e questo soprattutto grazie alla capacità e la fisicità di Will Ferrell, che però non è di per sé sufficiente); in questo caso siamo davanti alla migliore delle opere possibili.
A fianco a un tono mutuato dalla tv (per una volta con un'accezione positiva) c'è l'intento di tutte le personalità in gioco di mettere a nudo l'ipocrisia dell'America media, dei vicini di casa, dei parenti, dei politici locali, delle forze dell'ordine e delle famiglie; una sorta di film alla Tim Burton, ma senza mostri e melodrammi. Un'impegno congiunto da parte di tutti che riesce a rendere contemporaneamente critico e divertente un intreccio, paradossale e verosimile un rapporto di forza.
Il tutto unito a un ritmo perfetto che concede diversi momenti di sincero divertimento (non mi capita spesso di ridere sguaiatamente, qui ci sono almeno due sequenze da antologia).

mercoledì 1 novembre 2017

Ghajini - A.R. Murugadoss (2005)

(Id.)

Visto in aereo, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Il proprietario di un'azienda di telecomunicazioni si innamora di un'attricetta che ha messo in giro la voce di essere la sua fidanzata segreta. Faranno appena in tempo a dichiararsi che lei verrà uccisa e lui aggredito perdendo la memoria... a breve termine... giurerà di vendicarsi, ma per farlo sarà costretto a tatuarsi le informazioni fondamentali circa l'omicidio... per tutto il resto si arrangerà con delle polaroid. Qui però le cose si complicano con una tirocinante in medicina che prima lo vorrebbe aiutare, poi lo incasina, poi lo aiuta di nuovo...

In che punto della trama si può gridare "Memento"? Se si considera come si sviluppa il film, più o meno dal minuto 10 (che in un film oltre le 2 ore e mezzo è come dire "subito").
Eppure questo film Tamil (prodotto nel Tamil Nadu, stato del sud dell'India, fratello povero della Bollywood che è di lingua e cultura hindi) si muove su altri binari; considerato dal grande pubblico indiano più oscuro della media, cerca incorreggibilmente di accontentare tutti. Parte come un thriller che tocca solo per sbaglio il torbido neo-noir costruito da Nolan per poi deviare (grazie a un flashback) verso la commedia romantica scioccherella per almeno 30 minuti buoni; torna quindi dalle parti del thriller con accenti action per finire il tutto con uno showdown di lotta che si mangia anche l'happy ending (se così si può definire).
Creatura chimerica segue assolutamente i gusti indiani, ma portandoli verso l'oscuro, mischiando a piacimento ogni genere che gli viene in mente di toccare con una irragionevole ingenuità che rendono ogni svolta di tono tollerabile. Il ritmo latita qui e la (rimane comunque un film di quasi 3 ore, un pò troppe per il gusto europeo), ma nel complesso il film si fa vedere senza troppe difficoltà e direi che questa è una virtù non indifferente.
L'ingenuità, naturalmente, genere anche dei mostri, ma se si accetta una sospensione dell'incredulità tarata sulle abitudini del subcontinente si riesce ad accettare tutto.
Il vero neo, a mio avviso, è aver giocato anche con materie che non si riescono a dominare. Il trhiller è semplice (e il protagonista in questa veste assomiglia di più a Hoffman in "Rain man" che a al Pearce di "Memento") e aggrovigliato, ma rimane in piedi da solo, la commedia romantica è la parte più riuscita, ma le scene di azione sono semplicemente mal girate. Le sequenze di lotta sono poco chiare, con un montaggio troppo rapido, il gusto per il dettaglio più che l'insieme, si, insomma, tutto il contrario di quello che andrebbe fatto.

PS: dato il successo del film, lo stesso regista realizzerà un remake hindi 3 anni dopo.

lunedì 30 ottobre 2017

Lo sconosciuto del terzo piano - Boris Ingster (1940)

(Stranger on the third floor)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un giornalista, unico testimone di un delitto diviene testimone involontario anche dell'omicidio del vicino di casa, ma prima di chiamare la polizia il dubbio lo assale, i fatti sembrano contro di lui; quando finalmente si deciderà di denunciare l'accaduto non verrà creduto e sarà arrestato. Spetterà alla fidanzata trovare lo "sconosciuto" che ha commesso entrambi i delitti.

Un film di serie B dal minutaggio limitato; un riempitivo che è diventato sperimentazione che è diventata un genere. Di base c'è un thriller classicheggiante, ma l'estetica è presa pesantemente dall'espressionismo tedesco; il risultato è il primo noir della storia. C'è un finale solare e una storietta d'amore, ma i fondamentali ci sono tutti: luci crude, ombre nette e spigolose, angoli d'inquadratura dal basso o sopraelevati, inquadrature oblique, prospettive esagerate, uso del flashback, voice off e pure della paranoia.
Nel complesso il film è deboluccio, ma la parte centrale è una gallerie di scene da ricordare; il lungo incubo del protagonista è un bignami d'espressionismo (è questa la vera base per la futura estetica del genere), mentre Lorre che esce dalla porta del terzo piano è un'immagine iconica senza tempo (potrebbe anche venire da "M").
A livello di contenuti c'è anche un'interessante estremizzazione del concetto langiano dell'assassino nascosto anche nella persona più buona; qui si va oltre, si suggerisce infatti che tutti siamo potenziali innocenti condannati ingiustamente.
L'ho solo citato, ma non l'ho sottolineato abbastanza; c'è Peter Lorre che fa il Peter Lorre che tutti vorremmo vedere sempre; la parte è minimale, ma come sempre lascia un'impronta sulla pellicola e si mette in lizza per diventare un istant classic o un archetipo per il genere.

venerdì 27 ottobre 2017

Se... - Lindsay Anderson (1968)

(If...)

Visto in Dvx.

La vita in un collegio inglese passa fra le lezioni, piccoli atti di bullismo, prevaricazioni dei superiori, piccoli atti di violenza fisica o psicologica, alcool, omosessualità più o meno latente. Sempre uguale a sé stesso, almeno fino a quando uno degli studenti non viene messo sotto pressione e decide di fare una strage (molto prima di "Elephant").

Nella lunghissima lista di film che ho sempre odiato pur senza averli mai visti, vanno annoverati di default tutti i film ambientati nei collegi e i film del '68 (come tipologia, non come anno d'uscita). Ovviamente, come per chiunque sia in qualche modo razzista, la mia vita è costellata di scoperte incredibili e ripensamenti insperati (come il magnifico "L'attimo fuggente"); ciononostante, non imparo mai e continuo con il mio disprezzo.
Tutto questo per dire che ho evitato attivamente di vedere "Se..." per anni, fino ad ora. E ora mi tocca ammettere che è un buon film.
Questo è un film figlio del suo tempo, con una critica oramai banalotta all'istituzione più borghese e rigida esistente in UK e il finale è uno dei scioglimenti più scontati per quel periodo (a livello di contenuti).
Al netto di tutto questo, rimane un film godibile, con attori estremamente in parte (tutti) e un'interessante commistione di parti totalmente realistiche con altre solo verosimili con punte surreali; oltre al noto uso non convenzionale (ma mi pare neppure troppo razionale) di una fotografia in bianco e nero che si inserisce in un film altrimenti a colori.
La regia morbida di Anderson è assolutamente adatta a sottolineare una vita quotidiana collegiale, così come non puntare troppa enfasi su un finale già di per sé enfatico.

mercoledì 25 ottobre 2017

Shamo - Pou-Soi Cheang (2007)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un ragazzo, arrestato per aver massacrato i genitori, viene arrestato... in carcera subirà violenze d'ogni genere, finché un karateka accusato di aver cercato d'uccidere il primo ministro non lo inizierà alle gioie del combattimento. Diverrà una celebrità nel mondo delle pacche.

Non conosco l'omonimo manga, ma ne sono rimasto affascinato, una trama essenziale (anzi, pure piuttosto banale) ma con qualche sgurz, vista l'estetica del film mi sono fatto convincere... peccato.

Fotografia patinata, colori carichi, attori carini, personaggi sempre cool (anche quelli senza soldi abitano in attici finto-povero carichi di figaggine), location strepitose, luci mobili o fluo a uso ridere. Un concentrato di messe in scena fighette e rimasugli di postmoderno anni '90. In una parola... packaging buono, anche se del genere pretenzioso e vecchio nello stesso tempo.
Quello che manca è il contenuto.
La storia sarebbe, di per sé, lineare, ma i un film con almeno due lunghe sequenze di combattimento (più un altro paio importanti, ma più brevi) si vorrebbe che il regista fosse interessato a mostrare le pacche, non a impacchettarle e basta. Quelle sequenze sono, alla meglio, confuse, alla peggio sono prive di combattimenti veri e propri (si inquadra il pugno e poi il corpo dell'avversario che vola, eliminando completamente il gesto atletico nel mezzo... in alcuni casi si elimina pure il pugno iniziale). Impacchetta bene, ma si dimentica che cosa deve impacchettare e l'effetto è di noia e fastidio.

Di fatto questo è un film il cui scopo non è lo sport e neppure un discorso più articolato sulla violenza (come lascia intendere il manga originale); è solo un prodottino ben confezionato per un pubblico young adult. 

lunedì 23 ottobre 2017

Faust - Jan Švankmajer (1994)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Una rielaborazione del "Faust" Gothiano con la tecnica del teatro nel teatro. Un impiegato di Praga viene invitato a recarsi a un indirizzo senza una spiegazione vera e propria; arrivato trova dei vestiti e dei trucchi che indossa; si ritroverà dietro le quinte di un teatro misto con attori in carne e ossa e burattini a grandezza naturale; inizia a quel punto un corto circuito fra personaggio reale e personaggio interpretato, fra palco ed edificio, fra racconto e vita reale.

A distanza di una manciata d'anni da "Alice", Švankmajer torna alla regia di un lungometraggio a tecnica mista spostando l'asse (come sarà poi sua abitudine) verso il live action; come nel precedente prende la sostanziale inutilità delle parole (tutta la prima parte, dove c'è l'incipit extra teatro, è completamente muta) che vengono utilizzate solo per far ripetere parti del testo originale; mentre risulta completamente stravolto l'assetto dell'opera di riferimento. Se "Alice" era una versione identica al libro originale, qui è totalmente rielaborato per poter mantenere lo spirito, ma l'impianto che ne viene tirato fuori è uno dei più complessi e articolati cortocircuiti fra realtà e finzione che abbia mai visto; il protagonista entra in un teatro all'inizio per non uscirne più, anche quando se ne andrà, fisicamente, dall'edificio. Descriverlo è sostanzialmente inutile, bisogna vederlo.

Dal punto di vista di messa ins cena siamo davanti al classico Švankmajer; c'è sempre un gusto particolare per il dettaglio (nel senso del tipo di inquadratura), anche se sembra meno programmatico che in "Little Otik", c'è sempre un impianto artigianale della messa in scena (e l'utilizzo di luoghi dismessi, squallidi, spersonalizzati e senza tempo) e c'è sempre un fantastico uso del sonoro, con un numero limitato di suoni rispetto a quello naturale, ma quei pochi vengono amplificati. Lo stile dunque è quello che ci si aspetterebbe conoscendo il regista, solo, forse, un poc meno compiuto o meno insistente.
L'unica pecca è, anche qui un classico per Švankmajer, la lungaggine; quando il gioco è ormai evidente, il regista sembra insistere troppo in alcune ripetizioni eccessive.