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mercoledì 20 gennaio 2021

Il caso Spotlight - Tom McCarthy (2015)

 (Spotlight)

Visto su Netflix.


la ricostruzione dello scoop giornalistico sul caso della pedofilia coperta dalla curia di Boston è inserita nel sottogenere (tutto made in USA) del journalist movie drammatico.

Pur se ben accolto, l'ho avvicinato con molti dubbi.

Ovviamente si tratta di una produzione splendidamente limata fin dalla sceneggiatura, costruita con esperienza che sorprende per la grazia e la compostezza. Un film su un tema delicatissimo (e su cui non fa sconti) che decide di evitare ogni scena madre (c'è giusto uno scontro con Ruffalo nel suo momento sopra le righe), pur avendone molte possibilità, e lasciare il cuore emotivo del racconto al racconto stesso. Sarà il dipanarsi degli eventi, i fili che collegano tutti e che faranno cadere ad uno ad uno i vari notabili della città a costituire il cliffhanger; è lo svolgersi stesso degli eventi a mantenere l'interesse. Una scelta molto elegante, ma non scontata, che può esitare in una freddezza superficiale, ma che guadagna molto in rispetto per i fatti reali e per lo spettatore.

Ovviamente per mettere in piedi un progetto del genere ci vuole una sceneggiatura a prova di bomba. Molti eventi condensati in un minutaggio limitato, ma mostrati con estrema chiarezza sostenuti da una regia che si mette in secondo piano per favorire il flow. ottima anche il world building (utile per chiarire la vicenda, ma formalmente non necessario) in cui si mostra la società bostoniana come un blocco unitario in cui la chiesa è presenza pervasiva e in cui tutti sono condizionati, anche inconsapevolmente, tutti, pure i buoni (sarà quindi un estraneo a dover dare l'abbrivio).

Ottimo il cast che gioca una sfida all'autocontrollo in una serie di performance perfette quanto trattenute (erano anni che non si vedeva un Keaton così composto).

lunedì 26 ottobre 2020

La grande scommessa - Adam McKay (2015)

(The big short)

Visto su Netflix.

La crisi del 2008 è stata causata dall'inadeguatezza del sistema finanziario di capire quanto male stava facendo (oltre che dal disinteresse) era prevenibile e prevedibile. Alcune (poche) persone l'hanno prevista... e ci hanno guadagnato. Questa è la storia di 3 gruppo indipendenti e di come hanno gestito la possibilità su una crisi in un settore che non poteva andare in crisi.

Nel suo primo film senza Ferrell, Adam McKay si butta sulla commedia impegnata, parla di alta finanza e di crisi dei mutui e lo fa con piglio moralista ed educativo prendendo a mani basse dai predecessori.
La grande scommessa è, infatti, un furto continuo a "The wolf of Wall Street" e, in parte, a Michael Moore.
Moore è presente soprattutto all'inizio e nella descrizione di quello che sarebbe dovuto succedere; immagini di repertorio ben utilizzate e molto ritmate, la voce fuori campo, uso enfatico dello schermo nero e molto, molto ricatto emotivo.
Scorsese è invece ovunque. Dalla fotografia, all'uso della musica, dal montaggio alla visione morale della finanza come covo di malvagità che, pertanto, deve essere punita fino alla rottura della quarta parete.
L'effetto finale lungi dall'essere solo un compitino è un ottimo prodotto, un film su un argomento ostico (uno dei meno interessanti di sempre, almeno per me) trattato con la giusta leggerezza e un ritmo invidiabile che punta tutto sullo stupore dei suoi personaggi per quello che scoprono e non tanto sui meccanismi reali che vi hanno portato; un film che funziona.
Ottima prova d'attori che in qualche caso (per esempio tutto Bale) avrebbero dovuto essere trattenuti un poco.
Unico vero e proprio neo le sequenze con personaggi famosi (Robbie, Bourdain, Gomez) che spiegano concetti difficili al pubblico; momenti piuttosto pretestuosi che al di là della simpatia iniziale sembrano una versione moderna e fighetta di Troy McClure.

lunedì 19 ottobre 2020

Mi gran noche - Alex de la Iglesia (2015)

(Id.)

Visto su Netflix, in lingua originale sottotitolato.

Durante la registrazione del programma televisivo per il capodanno si intrecciano i giochi di palazzo per avere più visibilità degli altri partecipanti

Ad Alex de la Iglesia piace la Tv (e dell'intrattenimento in generale), ci si sente a suo agio perché la vede come parte del proprio mondo, come estensione di quel grottesco e cinico multiverso che crea con i suoi film. Ci era già passato diverse volte da vent'anni a questa parte, ora ci torna con un tocco più farsesco, ma mai così efficace.

Appoggiato a una scrittura davvero convincente che riesce a dare spazio ad ognuna delle minuscole storie che vengono portate sul video, riuscendo a farle risaltare (nonostante alcune siano davvero dimenticabili), dando spazio agli attori e arrivando integrare e rendere credibile gli scontri fra star da una parte e le rivolte sedate dalla polizia dall'altra.
De la Iglesia dalla sua ci mette una messa in scena kitsch il giusto che esagera solo quando deve (i due cantanti), ma soprattutto un ritmo costante che non cede mai un secondo. Unica deflessione il finale alla "Hollywood party", un poco eccessivo e un poco troppo semplicistico (e quasi normalizzante)

Siamo lontani dall'epica tragica di "Balada triste", ma anche dalla profondità e dal cinismo di "La chispa de la vida"; niente di serio qui, solo una montagna russa, non c'è stratificazione, ma un divertimento viscerale che punta sul ritmo.

PS: Per chi segue il regista spagnolo da tempo questo film è anche una carrellata di tutti i volti iglesiani degli ultimi anni e, finalmente, fa partecipare direttamente il Raphael che cantava "Balada triste de trompeta" (evidentemente un suo guilty pleasure) nella parte di una caricatura di sé stesso magnifica. Vorrei un remake su questo film solo per vederlo interpretare da Gianni Morandi.

giovedì 15 ottobre 2020

Revenant. Redivivo - Alejandro González Iñárritu (2015)

(Revenant)

Visto su Netflix.

Selvaggio west (solo più a nord della media dei film di genere), lo scout di una spedizione rimane ferito da un orso, il gruppo lo lascia indietro accudito dal figlio (mezzo indiano) da un ragazzo e dall'uomo che lo odia di più (bella idea). L'antagonista ucciderà il figlio e abbandonerà l'uomo lasciando che freddo e animali facciano il lavoro sporco... spoiler, non lo faranno, e lui tornerà redivivo solo per ucciderlo.

Gigantesco e lussureggiante film di vendetta che impiega quasi un'ora per perpetrare l'abbrivio e il resto si dilunga i una lotta contro la natura per rimanere vivi.
Inutile nascondere che il pensiero viaggia subito a "Corvo rosso non avrai il mio scalpo", ma li differenzia la trofia, ipertrofico il film di Iñárritu, asciutto e diretto quello di Pollack.
Se il difetto è proprio nell'eccesso e nell'accumulo costante senza troppi motivi che gonfia il minutaggio in maniera artificiale; il film vince per il tono cupissimo che riesce a creare (dando vita ad un ambiente permeato dalla morte che viene dagli uomini, dagli animali, dal clima e dagli elementi naturali inerti) aumentando il titanismo dello scontro fra l'uomo e il resto del creato.
La messa in scena poi è perfetta (e con un'interesse maniacale alla verosimiglianza tramite CGI) per dare la giusta voce a questo scontro; una serie di inquadrature incredibili degli sfondi naturali (con l'occhio clinico di chi sa inserire ogni elemento su più piano) fotografato con Malick in mente (e infatti in entrambi c'è Lubezki).
Sineddoche del film la scena  dello scontro iniziale con gli indiani, morte ovunque, che si muove senza un ordine preciso, fango, acqua alberi e frecce che trasudano violenza e che si muovono con il disinteresse e la rapidità di una valanga.

Fosse stato più stringato e con mezz'oretta in meno, sarebbe un film di vendetta perfetto.

giovedì 8 ottobre 2020

Junun - Paul thomas Anderson (2015)

(Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Nel 2015 Jonny Greenwood (chitarista dei Radiohead e amicone di P. T. Anderson) va in India per incidere un album con il polistrumentista Shye Ben Tzur e un gruppo di fiati e corde indiano. Ovviamente per il filmino delle vacanze di portano dietro Anderson.
Umilmente il regista non si accredita se non come operatore e, tecnicament,e il documentario è senza regia. Un manovra che sembra più che altro un lavarsene le mani o un disimpegno per fare un video che non è niente di più che un passatempo. ovviamente questo disimpegno si vede.

Le scelte di regia ci sono e sono molte e molte sono quelle poco giustificabili. La macchina da presa che perde la messa a fuoco, i movimenti eccessivamente liberi che sottolineano solo il cambio di idea improvviso, il contrarsi sui piccioni che entrano nella sala di registrazione o i falchi sui merli del forte.

Davvero siamo dalle parti dei filmati delle vacanze con intermezzi musicali (questi si molto belli), una sorta di making of dell'album che non avrebbe sfigurato come extra nei DVD che i gruppi facevano uscire a cavallo tra gli anni '90 e gli anni '00; una delusione però l'assenza di interesse dello stesso Anderson.

lunedì 22 giugno 2020

The invitation - Karyn Kusama (2015)

(Id.)

Visto su Amazon prime.

Una donna sparita per un paio d'anni invita a casa sua (e del suo nuovo compagno) tutti gli ex amici, compreso il suo ex marito (i rapporti fra i due sono tesi, ma per problemi indiretti che hanno causato la loro separazione). I motivi non sono chiari, ma noi che spettatori che abbiamo un sacco di sgurz capiamo subito che ci sono problemi, grossi.

Il primo film della Kusama che vedo ce l'ho sul comodino da almeno 3-4 anni, ma vengo motivato a vederlo solo per la facilità datami dalle piattaforme online.
Togliamo subito tutti i dubbi, siamo davanti al classico dramma da camera in cui un piano sottostante sta venendo costruito ai danni di una persona o un gruppo e che esploderà nel finale. I dubbi da togliere sono sul plot (necessario che il botto finale stia in piedi dopo i lunghi minuti di attesa e che la sospensione d'incredibilità non sia mai superata), l'idea di base è un poco eccessiva, ma sopportabile, il finale in linea con le aspettative, la sospensione d'incredulità deve sopportare diverse volte il fatto che i personaggi siano troppo stupidi per accorgersi di qualcosa di creepyi che sta avvenendo, ma per chi è abituato agli horror classici anni '70/'80 questo non può essere un problema.

Detto ciò il film si prende i tre quarti del tempo per allestire il campo d'azione e lascia solo agli ultimi minuti (20-30 minuti, non ero attento al minutaglie) lo scioglimento del caso. Questa che sembra un colpa è invece il grande pregio dell'opera della Kusama.
Il film imbastisce una trama in cui è evidente che qualcosa non va (fin dalla scena d'apertura tra il metaforico e il predittivo), ma continua a giocare al gatto col topo, saltuariamente smorzando la tensione, ma più spesso aggiungendo dettagli, evidenti, ma tutti minimali, nessuno sufficienti a far fuggire tutti urlando, ma ognuno a modo suo perturbante e che sommati diventano intollerabili.
L'effetto è potente. La tensione è in crescendo quasi costante per tutto il film mettendo a disagio in ogni situazione e rendendo fastidiosi i tentennamenti dei personaggi (ma questo va visto in ottica positiva).
L'efficacia nel corpo centrale del film è anche il motivo del mezzo fallimento del finale. Dopo un crescendo così efficace è difficile mettere in scena uno show-down realmente soddisfacente. Kusama si fa in quattro, non risparmia niente e nessuno nel finale che preso da solo è uno slasher piuttosto buono, nulla da ridire, ma è difficile recuperare dopo aver eliminato tutto quella tensione con la scoperta del piano.

lunedì 15 giugno 2020

Irrational man - Woody Allen (2015)

(Id.)

Visto su netflix.

Un professore di filosofia dell'università si trova in una profonda depressione a causa della propria sensibilità (e una vita con un passato impegnativo). Non servirà a aiutarlo la relazione con una giovane studentessa, ma il loro rapporto lo aiuterà a prendere una decisione, uccidere un uomo che non conosce per una sorta di "bene superiore". Questo atto diretto con conseguenze reali (che lui ritiene positive) gli fa riscoprire il gusto della vita.

Questo film è la classica riproposizione di topos allenniani (quelli più della fase depressiva) rimescolati, il caso che decide delle vite delle persone, l'impossibilità di rapporti stabili, le sovrastrutture sociali e filosofiche utili solo a sopportare la vita ecc...
Il film riesce in maniera particolare a far uscire i personaggi, meno caricaturali e più incisivi del solito (il protagonista maschile, quantomeno, magnifico nella sua depressione e la moglie del professore suo amico).
Il problema è la trama; sicuramente interessante, ma piuttosto superficiale nello svolgimento, leggera nelle fasi gravi e sfuggente in quelle leggere, non riesce mai a creare il pathos giusto neppure nella scena dell'omicidio o quella negli ascensori del finale dove l'emotività andrebbe incanalata e fatta esplodere. Forse è più un problema di distacco e mancanza di empatia, ma il risultato non cambia, il film si fa guardare, ma scivola via facilmente.
Da sottolineare invece il finale, fugace e leggero come il resto del film, ma, incredibilmente (per Allen, soprattutto in un film del genere), ricco di speranza.

giovedì 19 marzo 2020

Green room - Jeremy Saulnier (2015)

(Id.)

Visto su Amazon prime.

Un gruppo punk raccatta all'ultimo una serata in un locale neonazi; sono lontani da casa, hanno speso molto, quei soldi fanno comodo. Andrà tutto abbastanza bene (nonostante aprano con "Nazi punks fuck off"), però al momento di uscire vedranno qualcosa che non avrebbero dovuto, si chiudono in una stanza interna e inizia un home invasion fuori dalla home ufficiale.

Il film è di fatto un assedio su terreno nemico, uno stillicidio di tentativi di stanarli (per lo più  a buon fine) che funziona bene con un crescendo di tensione, almeno finché il gioco del gatto col topo si rende evidente come idea centrale del film e non come fatto passeggero. Il finale, ovviamente deve smuovere le acque e riesce a ricominciare con la tensione perduta.
Al secondo film di Saulnier visto (ma è il terzo in carriera) si conferma un ottimo regista che conosce le regole dei film di genere e le sa utilizzare in maniera sapiente. Qui la storia, confrontata con quella di "Blue ruin", ha meno epica, meno carne al fuoco ed è molto più diretta; questo è forse il segreto per cui il film ingrana benissimo quasi subito, ma è anche il motivo per cui finito l'afflato iniziale si sgonfia un poco e per cui alla fine si fa ricordare meno.

Rimane comunque ottimo, godibile e assolutamente perfetto nella gestione dei personaggi (almeno quelli principali) con il valore aggiunto di Imogen Poots, irriconoscibile, ragazza nazi distrutta dalla vita, pragmatica, rocciosa, ma che accusa il colpo a mano a mano che il film si svolge, ripiegandosi su sé stessa (anche fisicamente) senza perdere un filo di capacità d'azione.

lunedì 30 dicembre 2019

The witch. Vuoi ascoltare una favola? - Robert Eggers (2015)

(The VVitch: A New-England Folktale)

Visto in DVD.

Una famiglia di pellegrino americano troppo estremisti religiosi anche per la loro comunità di pellegrini viene scacciata ed esiliata nella foresta vergine.
Dovrà fare i conti per prima cosa con l'ambiente ostile, umido e malaticcio, con la scarsità di cibo e con le loro stesse regole sociali che opprimono la donna. In secondo luogo dovranno vedersela con una strega che abita in quel bosco e con Satana (ammesso che entrambi non siano che una leggenda).

Film spettacolare, costruito con un'attenzione per i dettagli estrema degna delle psicopatologie di Kubrick: vestiti cuciti a mano, inglese arcaico dell'epoca, luce naturale (che fra tutte queste apparenti minchiate è la scelta più evidente che da all'ambiente un aspetto lattiginoso).
Non è il primo film a perdersi dietro a una messa in scena autoriale, né il primo a parlare di come l'ambiente modifichi le persone; ma è quello che recentemente riesce meglio in questo campo e si permette di costruirci attorno un horror senza jump scare, ma pieno di tensione continua che deriva tanto dalla presenza incombente del maligno (mai mostrato, ma veicolata attraverso gli alberi che murano laa casa in una radura e attraverso gli animali che, però, si comportano da animali normali), quanto dai rapporti familiari che si allentano e degradano verso la follia più totale.

La struttura della trama è un lento, dieci piccoli indiani, un centellinare le scomparse e le morti immotivate fino allo showdown finale.
Il film è efficacissimo, e si appoggia su un cast incredibilmente e credibile, tutti in parte e tutti con le facce giuste, ma vanno sottolineate le prestazioni di Anya Taylor-Joy che si porta gran parte del film sulle spalle (è la figlia adolescente che ha la grave colpa di essere donna e adolescente) e di Harvey Scrimshaw che dura meno, ma la scena dell'invocazione (Gesù o il diavolo?) pre morte è credibile, dolente e sensuale nello stesso momento (e all'epoca aveva solo 14 anni!!!).

PS: sottotitolo italiano totalmente fuori contesto, credo che parta da quello originale, ma che l'abbiano scelto senza aver visto il film.

lunedì 4 novembre 2019

Latin lover - Cristina Comencini (2015)

(Id.)

Visto in DVD.

Le quattro figlie di un grande attore del cinema italiano fino agli anni '70, ne devono onorare il decennale della morte con una retrospettiva. L'occasione, come si può immaginare, è il momento buono per far esplodere tutti i problemi e i segreti di una famiglia allargatissima.

Si muovo in un ambiente già molto usato, la Comencini, e nel farlo vorrebbe fare onore al cinema italiano di una volta. Con uno sguardo nostalgico enorme e una continua citazione diretta di molti film ("Il sorpasso", "Per qualche dollaro in più", "La classe operaia va in paradiso", "Divorzio all'italiana", "L'armata Brancaleone", ecc...), la regista non sembra però trovare mai la via per arrivare al punto di vista giusto, all'occhiata interessante. A livello di contenuti la storia è tracciata in maniera piuttosto consueta e semplicistica (seppure con migliaia di "colpi di scena"); dal punto di vista estetico ci prova ad essere originale o citazionista in maniera concreta, almeno all'inizio, ma rimane sempre superficiale e non riesce mai a spingersi oltre un gusto superiore solo a quello televisivo.

Il film vive sulle spalle di un cast tutto femminile (con due o tre comprimari maschili più o meno secondari) ovviamente molto discontinuo. Meravigliosa la perfetta Candela Peña, completamente in parte, tanto da non sembrar recitare; enfatica, ma aggraziata, Virna Lisi (scelta corretta?); una Finocchiaro e una Bruni Tedeschi che si limitano a rifare lo stesso personaggio su cui sono rodate; infine uno Scianna, nella parte del protagonista assente che non mi sembra essere la scelta di casting giusta, possibile non ci fosse nessuno con più fascino?

Nel complesso questo film zoppicante si fa vedere, con abbastanza gusto nella prima parte e sempre più zoppicante a mano a mano che prosegue. Un film adattissimo a una pigra domenica pomeriggio mentre fuori piove, ma nulla di più.

venerdì 20 settembre 2019

Jurassic World - Colin Trevorrow (2015)

(Id.)

Parco divertimenti con dinosauri, le cose andranno male. credo che questo sia più o meno il riassunto.

Non sono pià in quella fase della vita per cui basta un dinosauro per fare un grande film, ho visto Jurassic World ed è stato bellissimo. In fondo ci sono un sacco di dinosauri. Dove non funziona la qualità funziona la quantità.

Diciamocelo, il film è lontanissimo dall'essere perfetto e anni luce dal "Jurassic Park" originale. I difetti sono sotto gli occhi di tutti, manca empatia, personaggi che vadano oltre la macchietta, idee balzane utilizzate come novità attira-pubblico che poco hanno di sensato o scene completamente folli.
Di tutti questi difetti l'ultimo è il meno importante perché permette momenti wow altrimenti impossibili (quanto è scema la scena degli pterodattili che fuggono e cominciano, senza motivi, a sollevare esseri umani?! ma d'altra parte, quanto figa è quella scena?!).
Di tutti i difetti, il penultimo, è invece il più assurdo. A cosa serve un ibrido di dinosauri? A Hollywood si è deciso che i dinosauri in sé (e ne esistono centinaia di tipi, diversi carnivori giganti) non sono più sufficientemente cool? Oppure creare una creatura ex novo con caratteristiche peculiari che si scoprono a mano a mano con irritante esattezza sembrava un ottimo sistema per creare un climax? (e non parlo dei velociraptor addestrati).

Detto ciò, quel che manca in fantasia di regia la si ottiene con la spettacolarità, il dinosauro acquatico compare due volte, ma si mangia sempre la scena (ah ah ah), e il senso di distacco da Spielberg (che comunque ci manca) si sente sempre meno, avendo il film preso con sicurezza la via del blockbuster d'azione e giocando, quindi, in un altro campionato rispetto al primissimo film della saga.
Apprezzabile comunque, per noi affezionati agli anni 90 il citazionismo spinto di quel film capostipite da cui tutti veniamo, che si spinge fino alla comparsata inaspettata di Wu (e di Mr. DNA).
A conti fatti un film più che soddisfacente per quello che prometteva, ma con ampi margini di miglioramento.

venerdì 13 settembre 2019

Tag - Sion Sono (2015)

(Riaru onigokko)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Una ragazzina in gita scolastica si trova all'improvviso in mezzo a un massacro ad opera... del vento. Fugge, si ritrova in un'altra scuola dove tutti sembrano conoscerla; tutto bene, finché un nuovo massacro non la costringe a fuggire di nuovo. Questa volta vestirà i panni di una novella sposa e questa volta (niente massacri) la trama si ingarbuglia davvero con uomini con teste di maiale, due ex insegnanti che fanno judo duro vestite come fossero in "Matrix".

Se è vero che la carriera di Sion Sono tende ad avere un aspetto simile a quella di Miike (film fuori dagli schemi e dai generi, violenza stilizzata e continua, perturbante sempre presente, una certa dose di sadismo e un gusto estremo per lo shock, la provocazione o il semplice assurdo) è anche indubbio che tra il fare un film caotico e surreale, ma buono e farne uno che sia solo una cazzata (magari pure pretenziosa) il passo è breve. Miike, quasi sempre, riesce nel miracolo di rimanere sul piano del caos costruttivo dando vita a film eleganti e violenti ed estremi o semplici pastiche surreali, ma sempre soddisfacenti. Qui invece Sono dimostra di non essere all'altezza del collega; ci prova, ci da dentro, all'inizio si prende anche in giro, ma poi scade nell'idiozia.
Hanno un bel lavoro i pasdaran di Sono a dire che è tutta un'allegoria della condizione della donna (interpretazione possibile, ma un po semplicistica) o del passaggio all'età adulta di una ragazzina con il primo ciclo mestruale (indubbio che il finale sembri riportare tutto a questo, ma anche qui, mi pare ancora più limitato); ho anche letto in giro lodi legate all'occhio sempre particolare che Sono dedica agli adolescenti, sempre in fuga, sempre vittime (tratto comune assolutamente azzeccato, ma rimane tale, solo un tratto in comune).
Qui semplicemente il gioco di prestigio di fare un film surreale e violento, ironico, che gioca coi generi e finisca serio, semplicemente non regge. L'incipit è buono, parte come un fastidioso filmetto adolescenziale con un'inquietudine crescente, è evidente che sta per succedere qualcosa, ma cosa? Poi arriva il massacro, la fuga e un picco di sentimentalismo adolescente (solo in parte auto-ironico) e pretenziosità filosofiche che arriva ad un nuovo massacro. Anche qui tutto bene, è tutto quello che succede dopo che scade nel banale, il film smette di voler essere uno sberleffo ai film per regazzine e decide di prendersi sul serio e di voler tirare le file di troppi discorsi solo abbozzati. Il risultato finale è terribile; peccato perché l'incipit rimane carino.

mercoledì 4 settembre 2019

Love - gaspar Noé (2015)

(Id.)

Visto su Netflix.

Una coppia si crea, il loro rapporto si sviluppa, da segni di stanca, tentativi di rivitalizzarsi con successo alternante, muore. La causa ultima è lui che la tradisce e mette incinta l'amante; ma i problemi sono più vecchi dell'epifenomeno.

Togliamo subito il dubbio sul "porno in 3D". L'ho visto su una tv in 2d quindi l'effetto tridimensionale era assente, ma a detta di Noé stesso doveva solo dare un effetto di rilievo su immagini di struttura fotografica, dei tableau vivant con la profondità. Per il resto non viene sfruttato se non per la patetica scena del primo piano dell'eiaculazione in faccia allo spettatore, idea che ha il solo carattere di far parlare di sé, ma è realizzata con un gusto per l'eccesso da terza elementare (la cosa peggiore sono gli effetti sonori da serie b); non è questione moralizzante, ma di uso della scena,  ben diverso l'effetto di una scena simile in "Enter the void" che riesce anche a non essere pretestuosa!

L'idea della trama è antica come il cinema, ma Noé cerca di renderla più viva con idee di messa in scena e di struttura, oltre che con il sesso esplicito.
La messa in scena è, come si diceva prima, un'imitazione della fotografia: una serie di sequenze che sfumano l'una nell'altra, quasi tutte organizzate con i protagonisti in primo piano visti di fronte, a distanza fissa, di solito statiche, al massimo con carrelli che anticipano o (meno spesso) seguono (un unico piano sequenza degno di questo nome, quello iniziale). Come sempre Noé è attentissimo all'estetica e l'impatto è positivo, con un film curato dal ritmo rilassato.
La struttura è quella tipica di chi ha una storia normale e non sa come ravvivarla: mostra le scene non in ordine cronologico. Non c'è nessun valore aggiunto se non quello di concentrare le scene madri e permetter alcuni parallelismi; poco originale, ma comunque efficace.
Il sesso esplicito; all'inizio sembra utile ai fini della trama, sembra avere un collegamento con il rapporto che hanno i due personaggi, ma perde rapidamente questo senso (ammesso che l'avesse avuto e non sia stata una mia iperinterpretazione) e rimane solo per titillare la spasmodica voglia di Noé di creare un pò di chicchiericcio (unica con un significato, quella nel locale per scambisti). Purtroppo a lungo andare sono scene in più, che allungano il minutaggio e spezzano il ritmo.

Una prova esteticamente ottimale e caratteristica, che però viene azzoppata da una trama non all'altezza, non gestita nella maniera migliore (e dalla voglia di distinguersi a ogni costo).

lunedì 15 luglio 2019

Room - Lenny Abrahamson (2015)

(Id.)

Visto in aereo.

Una ragazza viene rapita e tenuta imprigionata per 7 anni, in quel periodo le nasce un figlio a cui spiega la condizione in cui si trovano tramite invenzioni, favole e bugie. Quando finalmente riusciranno a fuggire, lei soffrirà il tempo perduto e la difficoltà a re-inventarsi una vita in un mondo che ha avuto lontano per troppo tempo; per il figlio, invece, sarà la scoperta che tutto ciò che sapeva era sbagliato e il tentativo di scendere a patti con una realtà nuova.

Il drammone realizzato da Abrahamson è grottesco ed efficace seppur con una dose estrema di paraculaggine (l'intera vicenda è interessante, ma è solo un McGuffin), il tutto però viene gestito con un'intelligenza molto poco americana. Laddove un film (USA) classico avrebbe mostrato l'intero episodio dalla vita normale alla sua distruzione per poi tornare alla situazione iniziale, Abrahamson inizia a metà; butta lo spettatore nel mezzo della vicenda già iniziata, in pieno svolgimento della tragedia senza dare spiegazioni. Il minutaggio usato a seguire i due protagonista nella loro (limitata) vita quotidiana sarà utile per spiegare dove ci si trova e perché riuscendo a ottenere un effetto straniante notevole.
Una volta usciti l'effetto però si riduce notevolmente, la sorprese scema e il dover tornare su un terreno già battuto da molti altri risulta debilitante. Il tentativo continuo di agnizione o di poesia è intralciato dallo sgonfiarsi della vicenda, l'effetto verrà raggiunto solo con il finale, il ritorno alla stanza, con quel misto di orrore e rimpianto e di proporzioni alterate che rappresentato la chiusura migliore possibile.

Se la Larson è efficace, ma non particolarmente esaltante, il piccolo Tremblay risulta ineccepibile ed è il vero valore aggiunto di un ottimo film.

venerdì 21 giugno 2019

Yakuza apocalypse - Takashi Miike (2015)

(Gokudô daisenso)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un boss yakuza è un vampiro e viene combattuto da un padre pellegrino che parla inglese e sembra Django e da Ruhian in versione turista sfigato. I due riusciranno a ucciderlo, ma prima della disfatta il boss vampirizzerà un suo sodale che, incapace di gestire la cosa creerà centinaia di altri vampiri. Intanto i due antagonisti si uniranno a un kappa e provvederanno a spianare la strada al più potente di tutti, un uomo dentro un costume da rana modello Gabibbo.

Miike torna a dirigere la follia, il nonsense come programma di vita. La trama del film è tra l'esile e l'assente e serve solo a veicolare una sequela di scene scarsamente collegate, ma tutte parte del grande flusso.
La potenza del regista sta tutta qui, nel veicolare una storia assurda e nel tenere saldo il timone senza deragliare nel fastidioso. A essere onesti l'inizio sembra promettere un film di yakuza quasi classico, e l'effetto dirompente dell'assurdo l'ho salutato con sofferenza e fastidio, ma a mano a mano che il film procede e che le situazioni si accumulano appare un quadro più grande in cui la trama non serve. Le singole sequenze sono ottimamente realizzate (solo la macchina da presa degli scontri poteva essere più sicura e mostrare le azioni con maggior chiarezza) e, ognuna singolarmente, complete.
Siamo dalle parti di "Gozu", ovvio, ma senza la sua austera concretezza surreale; quello era un film con una trama che si buttava nella surrealtà ed era di una serietà estrema. Questo "Yakuza apocalypse" ne è una versione cazzara, con ironia facile e una realizzazione seria che cerca spesso di buttarla sul ridere; un cazzeggio intellettuale divertente.

mercoledì 9 gennaio 2019

Hunger Games: il canto della rivolta, Parte 2 - F. Lawrence (2015)

(The Hunger Games: Mockingjay - Part 2)

Visto in DVD.

Il film di chiusura della saga di Katniss conclude il discorso portato avanti negli ultimi due: l'uso delle immagini come fonte di propaganda, la manipolazione del potere e i dubbi morali sull'essere utilizzati o nel sostenere una parte.
Decisamente moderno nel mostrare la morte degli ideali e aggiornato nel mostrare la lotta per ottenere una giustizia personale (non giustizialismo, ma etica) è la derivazione più moderna del supereroe. Unito al fatto che la protagonista è una donna, non forte, non indipendente, ma decisa e autonoma (e la dama da salvare, sempre in pericolo, è un uomo) la cui storia d'amore è la meno convenzionale possibile (un amore hollywoodiano con l'uomo perfetto che viene sorpassato a destra da un amore di comodo che diventa volontà di salvare e vero affetto); l'effetto che ne viene fuori è che ci sit rova davanti al blockbuster più anticonvenzionale di sempre.

Con una messa in scena ormai ben codificata, ma sempre più sporca (salvo che nel finale), pecca in una generale mancanza di idee potenti; ottima la scena della trappola tra gli edifici, ma è poca cosa rispetto a un finale che poteva essere decisamente più maestoso.
Gioca comunque benissimo le sue carte trasformando il capitolo finale di una saga adolescenziale in una discesa all'inferno dove è più facile morire che amare (cit.), con punte da cinema horror vero e proprio nelle fogne. Non delude nel confronto finale fra Katniss e Snow riuscendo a renderlo estremamente breve e cordiale spostando completamente l'attenzione.
E per concludere realizza un finale antieroico come solo Nolan è riuscito a fare, con Batman, nel recente passato.

Complessivamente il più debole dei quattro, ma soffre della sfortuna di essere stato anticipato da ottimi film e, in ogni caso, rimane un buon film e tra i più originali nella sua nicchia.

venerdì 9 novembre 2018

The lobster - Yorgos Lanthimos (2015)

(Id.)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un futuro uguale al mondo attuale, ma in cui la solitudine non è accettata; i single vengono portati in un albergo dove hanno 45 giorni di tempo per trovare un partner, in caso contrario verranno trasformati in animali. Un uomo fugge dall'hotel e si unisce a un gruppo di ribelli in cui i rapporti di coppia sono vietati; ovviamente sarà proprio lì che si innamorerà.

Come sempre in Lanthimos una metafora semplice e chiara viene utilizzata come idea base per la creazione di un intero universo; articolato, stratificato e dettagliato al massimo. Come sempre in Lanthimos i colori desaturati e la recitazione scarna sono cifre stilistiche (ma che differenza se a recitare ci metti qualcuno capace di farlo, Farrell e la Weisz trasmetto tutto con un labbro vagamente mosso o un'espressione imbronciata).
Come sempre il mondo gelido che viene creato vive del grottesco che ne sta alla base, mai aperta ironia, ma sempre uno stridor di denti che può essere divertito se si ha abbastanza cinismo.
Come sempre è il mood a fare il film e non la storia.
Ma al contrario del molto elogiato "Kynodontas", qui il metaforone non rimane congelato in sé stesso e, con la parabola di Farrell diventa storia, la narrazione diventa fondamentale e non ci si trova davanti a un affresco senza scopo; anzi è la narrazione stessa che permette all'affresco di acquisire profondità e senso.
Ad ora (tra quelli che ho visto), il film più bello di Lanthimos che, comincia con molta calma, a non rimanere chiuso nella torre d'avorio della spocchia autoriale, riuscendo a trasformare la sua metafora ombelicale in una allegoria potente e distruttiva (l'amore come obbligo, negazione od ossessione; la solitudine come problematica sociale inaccettabile).

venerdì 5 ottobre 2018

Deathgasm - Jason Lei Howden (2015)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

In un paesino della Nuova Zelanda un ragazzo appena trasferitosi ha dalla sua una madre psicotica, degli zii ultrareligiosi e una passione smodata per il metal. Di fatto dovrà cercare di uscire vivo dalla sua adolescenza, la sfigaggine che lo segue ovunque, il suo isolamento dal resto del mondo a cui il metal fa schifo, ma soprattutto, da un'accidentale evocazione satanica fatta proprio suonando con la sua band metal.

Horror splatter con corredo di possessioni zombesche e demoni, oltre che a potenti nemici umani che si muove con estrema dignità e passione nel proprio genere. Con una regia che sembra una versione accettabile e pulita di "Scott Pilgrim", con un'attenzione alle strizzatine d'occhio metacinematografiche concentrate all'inizio, con segmenti alla Manowar e filmati amatoriali; si fa via via più diretto e meno fighetto nella parte finale per permettere uno showdown come dio comanda.
Ammazzamenti ironici e grotteschi (peccato che la scena dei vibratori sia stata tenuta troppo a lungo), fatti con effetti speciali artigianali estremamente curati che non potranno non essere apprezzati dagli appassionati; pacchetto tecnico ottimale in tutto.
Inoltre, questo film, ha il valore aggiunto di calare la classica horror comedy nel mondo del metal con riferimenti interni e con l'utilizzo di questa forma musicale come simbolo dell'adolescenza e il suo senso di inadeguatezza, dell'essere fuori posto, ma con la voglia di essere grandiosi.

mercoledì 7 febbraio 2018

Daddy's home - Sean Anders (2015)

(Id.)

Visto in aereo.

Il secondo marito della bellissima Linda Cardellini è il mediocre Will Ferrell; patrigno amorevole dei suoi due figli di primo letto. Le non facili relazioni famigliari cominciano a prendere la piega sperata fino all'arrivo del padre biologico Mark Wahlberg, cool oltre ogni dire, sicuro di sé, avventuroso e perfetto in tutto. I due padri si troveranno a dover convivere.

Will Ferrell ha fondato una carriera sul personaggio dell'arrogante coglione, dell'ignorante pieno di sé incredibilmente bravo a fare qualcosa di molto specifico e a cui, alla fine, la propria ignoranza non solo non è un limite, ma gli permette anche di superare le avversità. Nei film, estremamente scemi, fondati su questi caratteri, riesce magnificamente, dando vita a gag totalmente anarchiche che, alla loro uscita, furono una ventata d'aria fresca e che, ancora adesso, si riescono ad apprezzare.
D'altra parte non gli si fa una colpa di voler fare qualche film drammatico o di ritornare al comico con un personaggio diverso. Quello che gli si incolpa è di svilirsi nel continuare a proseguire nel piatto carattere blandamente iniziato (o che almeno io ho visto per la prima volta) in "I poliziotti di riserva" (già in coppia con Wahlberg). Il personaggio dell'uomo mediocre perfettino e con rigide regole, dell'uomo fuori posto in ogni contesto, insicuro, ma disposto a rischiare ogni umiliazione per perseguire i propri intenti.
Gliene si fa una colpa perché è un terribile passo indietro rispetto alle sue creazioni precedenti, è uan concessione al già visto che riporta la sua vena anarchica a una serie di creazioni comiche banali e già viste. Di fatto è un tentativo di minarsi da solo e i risultati in questi film sono effettivamente imbarazzanti. In questo film un paio di momenti sono anche azzeccati, ma decisamente sono inseriti in un sistema che non funziona, che appiana, che scalda il cuore e che fa ritornare tutto alla normalità borghese di cui Ferrell è sempre stato in antitesi.
Wahlberg bravo e funzionale come spesso riesce ad essere fa il suo lavoro; senza infamia e senza lode non può essere accusato di aver affossato un film di cui doveva essere solo l'antagonista.

venerdì 2 febbraio 2018

Youth. La giovinezza - Paolo Sorrentino (2015)

(Id.)

Visto in aereo.

Un anziano compositore si è ritirato in una spa sulle alpi svizzere, buen retiro di diversi personaggi uniti dalle professioni artistiche (un regista, un attore, Maradona, ecc...) e dal momento di crisi che, singolarmente, stanno attraversando.

L'estetica di Sorrentino è da sempre piuttosto standardizzata (regia dinamica, ricca di movimenti di macchina da presa, piani sequenza, uso delle musiche scorsesiano, cura fanatica della fotografia) e questo film non cambia di una virgola, si concede solo una fotografia dai colori più delicati per assecondare il tema più fragile e per l'ambientazione elegiaca.
L'altra caratteristica dei film di Sorrentino è il fatto di non avere mai una trama continua, ma (come già Fellini), di costruire storie affiancando momenti disgiunti in un unico grande flusso, che il regista napoletano coagula attorno a un protagonista larger than life.
E qui si arriva alla terza caratteristica standard di Sorrentino: i suoi personaggi. Da sempre il regista costruisce i propri film su un unico protagonista, granitico, centralissimo e con il potere (talvolta un potere relativo come ne "L'amico di famiglia" se non marginale a un potere più grande come ne "Le conseguenze dell'amore"). Da sempre, poi, i suoi personaggi sono dei freak solitari, degli outsider rispetto alla società in cui sono totalmente integrati, potenti, ma avvicinati solo per necessità, di successo, ma comunque isolati. Quello che cambia di più in questo film è proprio il protagonista; un personaggio di potere relativo (è solo un compositore, ma ancora quotato e molto ricercato), solitario e con problemi di comunicazione, ma totalmente positivo. Non è un outsider, anzi, sarebbe ancora centralissimo e desiderato, ma è lui a tendere all'isolamento. Una differenza non da poco che trasformano il classico personaggio sorrentiniano (una versione becera di un protagonista timburtiano) in uno eroe classico del cinema contemporaneo.
Questa scelta, di per sé non negativa, si associa male alla pretesa poesia visiva del regista; una poetica continua fatta proprio dal suo stile che nei film precedenti si coniugava benissimo alla storia raccontata, affiancando la bellezza dell'esecuzione alla negatività del contesto; da questa dicotomia la poesia è sempre stata spontanea e spiazzante. Qui c'è una galleria di personaggi feriti, ma positivi, che si trovano soverchiati dalla vita e vengono ripresi con la stessa mano pesante, dando vita a una lunga serie di scene pretestuose che trasmettono pochissimo delle emozioni che vorrebbero creare (su tutte, vince per paraculaggine, Caine che dirige i rumori di una vallata alpina).

PS: magnifico il cameo di Jane Fonda.