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domenica 24 gennaio 2021

Arirang - Kim Ki Duk (2011)

 (Id.)

Visto qui, in lingua originale sottotitolato in inglese (con sottotitoli spesso fuori sincro).


Durante le riprese di "Dream" un incidente fa rischiare la vita alla protagonista; Kim Ki Duk ne rimane sconvolto si isola dal mondo e (lui che scrive e dirige quasi un film all'anno) smette di produrre per 3 anni, nel 2011 se ne esce con questo documentario/mockumentary per poi ricominciare con la solita frenesia produttiva.

A un mese circa dalla morte ho voluto recuperare questo film perché è proprio qui che io e il regista coreano ci siamo lasciati. A fronte di opere enormi con il picco che pongo personalmente con il suo "Ferro 3", Ki Duk ha via via sbragato, andando a perdere prima il mordente, poi l'asciuttezza in favore di un sentimentalismo ai limiti del sopportabile. Personalmente ho visto tutti i suoi film dal 2000 al 2008 (tornando al cinema per l'arrivo improvviso de "Il prigioniero coreano") partendo come giannizzero del regista per arrivare in fondo a quel decennio stanco di un uomo con più idee che talento per realizzarle. 

Vedendo questo film l'idea non cambia, ma sarà il distacco o la recente scomparsa non mi sento di fustigarlo in eccesso.

Il documentario mostra la vita quotidiana di Kim Ki Duk nel suo eremo, la sua quotidianità fatta di cibi cotti nella stufa, notti passate in una tenda e l'assenza di un bagno, oltre che la costruzione di una macchina per farsi l'espresso. In mezzo a tutto questo Ki Duk si confessa realizzando un documentario in cui si mette a dialogare con sé stesso, con la sua ombra, sente un continuo bussare alla porta e nel finale aumenta l'irrealtà con una serie di gesti estremi. Siamo di fronte a una sorta di "Real fiction". Anche le confessioni fatte sono lunghe geremiadi a metà fra l'autocompiacimento e il tentativo di farsi del male da solo, un pò onestà e un pò vittimismo che danno l'impressione di essere messe lì apposta (Ki Duk stesso dice che piange per aumentare la drammaticità). 

L'effetto finale è piuttosto deludente per il ritmo assente, anche i dialoghi non lo sono mai davvero, ma sono lunghi soliloqui ripetitivi, ma l'idea di fondo è affascinante. Tanto più affascinante per l'impossibilità di capire dove sia il limite fra il reale e l'artificiale e, in questo unico senso, è uno dei suoi film più efficaci. Consigliato solo per completisti.

lunedì 2 novembre 2020

Viaggio all'inferno - Fax Bahr, George Hickenlooper, Eleanor Coppola (1991)

(Heart of darkness: a filmmaker's apocalypse)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Durante le riprese di "Apocalypse now" la moglie di Coppola gira il back stage (su indicazione del marito) e registra alcune loro conversazioni su nastro. Da quel materiale origina questo documentario, unitamente a interviste ai diretti interessati e qualche immagine di repertorio. Quello che viene fuori è la descrizione (edulcorata) di uno dei più fortunati fallimenti della storia del cinema.
Viene quindi impresso su pellicola tutte le voci che circondarono il film; i set distrutti dal tifone, gli elicotteri offerti dallo stato filippino che venivano improvvisamente portati via (anche in mezzo alle riprese) per combattere i comunisti da qualche parte, l'attacco di cuore di Martin Sheen, la sceneggiatura improvvisata, il cambio in corsa del protagonista (Keitel verrà fatto fuori dopo un paio di settimane di riprese), parzialmente le sostanze d'abuso e le uccisioni rituali di galline, maiali, ma soprattutto del bufalo.
Personalmente mi ha colpito particolarmente le riprese dell'incipit con uno Sheen fatto come un cotechino, sanguinante e sproloquiante; così come le scene con Brando e Coppola che gira in torno non sapendo cosa fargli fare oltre ai dialoghi con Hopper che, fuori scena, è peggio di Sheen della scena ricordata poco fa.
Anche se forse i documenti migliori sono gli sfoghi, solo audio, di Coppola che preconizza il fallimento e che si chiede perché siano tutti così accomodanti, il film sarà orribile, lui fallirà personalmente, ma tutti i presenti sembrano possibilisti.

Un pò accomodante, taglia molto la parte sulle droghe, che pure vengono nominate, ma glissando (sembra essere noto ad esempio che l'arrivo di Hopper però rappresentò l'arrivo di droga fresca per tutti che portò nuovi disagi aggiuntivi alla produzione); rimane un documentario interessante sul fallimento più di successo di sempre, con dietro le quinte fantastici e che rende giustizia a Coppola che ne esce, più che come visionario, come un santo per aver dovuto sopportare tutto quello e tutte quelle persone (leggasi, come sempre, Hopper e Brando).

giovedì 8 ottobre 2020

Junun - Paul thomas Anderson (2015)

(Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Nel 2015 Jonny Greenwood (chitarista dei Radiohead e amicone di P. T. Anderson) va in India per incidere un album con il polistrumentista Shye Ben Tzur e un gruppo di fiati e corde indiano. Ovviamente per il filmino delle vacanze di portano dietro Anderson.
Umilmente il regista non si accredita se non come operatore e, tecnicament,e il documentario è senza regia. Un manovra che sembra più che altro un lavarsene le mani o un disimpegno per fare un video che non è niente di più che un passatempo. ovviamente questo disimpegno si vede.

Le scelte di regia ci sono e sono molte e molte sono quelle poco giustificabili. La macchina da presa che perde la messa a fuoco, i movimenti eccessivamente liberi che sottolineano solo il cambio di idea improvviso, il contrarsi sui piccioni che entrano nella sala di registrazione o i falchi sui merli del forte.

Davvero siamo dalle parti dei filmati delle vacanze con intermezzi musicali (questi si molto belli), una sorta di making of dell'album che non avrebbe sfigurato come extra nei DVD che i gruppi facevano uscire a cavallo tra gli anni '90 e gli anni '00; una delusione però l'assenza di interesse dello stesso Anderson.

giovedì 28 maggio 2020

Gimme danger - Jim jarmush (2016)

(Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Era quasi inevitabile che Jarmush, facesse un documentario sugli Stooges, dato il suo precedente su Neil Young e la sua amicizia, quasi venerazione, per Iggy Pop.
E non c'è che dire, Jarmush si conferma un grande utilizzatore d'immagini. Dovendo attingere a molte foto, qualche raro filmato, riesce a mantenere una qualità e un colpo d'occhio magnifici. Soprattutto con le fotografie d'epoca, sembra sempre avere quella giusta per la situazione (di solito al limite) raccontata, come se fosse stata presa proprio per essere utilizzata in questo documentario. Dove non arriva lo storico si ripiega su un'animazione bidimensionale molto semplice, veloce ed efficacie.
Le interviste attuali invee si limitano al normale lavoro con camera fissa e una scelta delle location che sembra casuale; è evidente che al regista interessa di più gestire il resto.

Il vero limite del documentario però è un altro e lo condivide con la maggior parte dei biopic: tutto viene mostrato come inevitabile, tutta la giovinezza è un prodromo fatale del futuro che rappresenta il gruppo. ma ancora di più pesa l'edulcorante Jarmush.
Il fattore urticante, non accomodante, repulsivo degli Stooges e Iggy Pop in particolare, il loro appetito per la (auto)distruzione, il loro gigiallinare sul palo ben prima dell'eponimo GG è toccato qua e la di sfuggita, per lo più in maniera veloce e secondaria, arrivando a relativizzare collari e nazismo, istrionismo lesionista e droga in favore una più rassicurante invenzione dello stage diving o della disintossicazione.
Togliere tutto questo agli Stooges è togliere la loro anima e la potenza del loro impatto, fare tutto questo facendo sentire in totale 3-4 canzoni per lo più di sottofondo è quasi criminale.

lunedì 4 maggio 2020

Divine Horsemen: the living Gods of Haiti - Maya Deren, Cherel Ito, Teiji Ito (1985)

(Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Maya Deren è una regista surrealista degli anni '40 (e già solo con questo credo che potrebbe riempire un libro di storie interessanti) che conosco solo in maniera indiretta per l'aura vagamente mitica e per una citazione sostanziosa nel Dizionario snob del cinema.
Sono rimasto quindi sorpreso dal sapere della sua passione per il voodoo che la portò (tra gli anni '40 e i '50) a passare un lungo periodo ad Haiti, a entrare in contatto con i sacerdoti locali che le permisero di riprendere numerosi riti oltre che di essere edotta sui significati di quanto stava avvenendo. Morta improvvisamente nel 1961 il materiale raccolto non fu mai montato. Ci pensò il marito, Teiji Ito, a metterlo insieme con la collaborazione della quarta moglie, Cherel, e a presentarlo nel 1985 (in realtà a i quell'anno pure Ito era già morto).

Operazioni del genere le guiardo sempre con sospetto non potendo sapere come doveva essere il film (pur se in presenza di appunti come i questo caso).
Per questo film però c'è una sequenza che risulta montata e doppiata (mi pare) dalla Deren stessa e che risulta essere la base per le scene precedenti e successive (doppiate invece da una voce maschile). Ciò non garantisce una totale aderenza all'idea originale, ma probabilmente è la cosa più vicina possibile.

Detto ciò il documentario è estremamente interessante perché mostra una pratica ipercaricata di strutture e idee che poco hanno a che fare (derivate sopratutto dal cinema) facendone piazza pulita. La scena iniziale già dice tutto, una festa in piena luce con persone che ballano in maniera sempre più convulsa e il soggetto che viene "cavalcato" che va in una sorta di trance con occhi rivolti al cielo; immagine che nello stesso tempo elimina anni di mistificazioni e rende comunque un senso di spiritualismo.
Come pecca c'è una certa ripetitività e un gusto per l'elenco e il name dropping delle divinità voodoo che può soddisfare un antropologo, ma che difficilmente farà portare a termine con facilità la visione (pur breve) a uno spettatore meno interessato alle abitudini culturali haitiane.

giovedì 13 febbraio 2020

The devil and Father Amorth - William Friedkin (2017)

(Id.)

Visto su Netflix, visto in lingua originale sottotitolato.

Un documentario fatto dal regista de "L'esorcista" su un vero esorcista (il noto, in Italia, e buffo, padre Amorth) non può non attirare l'attenzione.
Si compone di una parte iniziale in cui Friedkin ripercorre le location del suo stesso film, passa quindi a descrivere sommariamente Padre Amorth, descrive e riprende un caso di esorcismo (la signora in questione riferisce che le capitano spesso delle piccole sfighe e che quello è segno di possessione); si sposta poi in giro per il mondo a sentire le opinioni di molti neurochirurghi sul video dell'esorcismo (che giustamente non sanno cosa dire non essendo materia loro) e di alcuni psichiatri (che invece spiegano abbastanza nei pochi minuti a loro concessi), poi un altro paio di interviste a vescovi e scrittori circa la presenza del maligno...

Inutile nascondercelo, il documentario è deludente. Non c'è nulla di interessante nella sua realizzazione. Friedkin è un grande regista di corpi umani che usa, abusa e sfrutta in ogni suo film; qui però non c'è nulla di tutto questo, non c'è nessuna idea di regia che vada oltre il documentario televisivo più banale con il solo protagonismo del regista a rendere l'impianto più "moderno" (se questo si possa definire ancora moderno è tutto da discutere).
Dall'altro lato non è neppure chiaro l'obiettivo nel contenuto del documentario. Chiaramente verto attorno alla figura di Padre Amorth, che però ne viene fuori a metà; poco raccontata la sua vita e il suo personaggio. Viene spiegata la grande impressione che provoca su Friedkin, ma non viene mostrata né motivata, di fatto è solo il regista che dice (a parole) che è un grande e tu gli devi credere.
Non c'è un focus vero sull'esorcismo (che è, come prevedibile poco interessante) e c'è solo un accenno di indagine sull'argomento portata avanti da alcuni addetti e da molti chiacchieroni.

Complessivamente è solo il documentario delle vacanze di un regista ossessionato dall'occulto.

venerdì 27 dicembre 2019

Auf der Suche nach Ingmar Bergman - Margarethe von Trotta, Bettina Böhler, Felix Moeller (2018)

(AKA Searching for Ingmar)

Visto in aereo, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Il film inizia con la Von Trotta nella location della prima sequenza de "Il settimo sigillo" che ripercorre a memoria scena per scena quell'incipit. Il film inizia quindi con una regista che descrive l'opera di un regista dal suo punto di vista, non tecnico, ma emotivo.
Il documentario poi si sposta su un piano di genere; pochi registi hanno avuto un rapporto così stretto con le attrici feticcio delle loro opere e la Von Trotta fa parlare le dirette interessate su Bergman.
Infine la regista cerca di gettare un ponte fra il regista svedese e i nuovi (?) volti della regia internazionale.

Per me questo documentario piuttosto scontato nella messa in scena (campi lunghi con la regista come narratore e poi interviste a mezzo busto inframezzate a porzioni di film) semplicemente non sa che strada prendere. Parte dalla descrizione emotiva di quello che può essere il cinema di Bergman, ma la abbandona per il racconto del personaggio (indubbiamente interessante) fatto dalle attrici (dunque limitato) con qualche curiosità interessante; infine cerca l'apertura contemporanea, ma per farlo imbarca registi giovani e interessanti, ma che sono di seconda fascia e hanno ancora molto da dimostrare (discorso che non vale per Assays), niente di grave in questo, ma un pò poco per parlare di un lascito tangibile.

lunedì 18 novembre 2019

20,000 days on earth - Iain Forsyth, Jane Pollard (2014)

(Id.)

Visto in Dvx.

Un documentario su Nick Cave, che non ne ripercorre la storia, ma lo affianca durante la registrazione dell’allora nuovo album (Push the sky away) infarcito di considerazioni personali sulla musica, la vita, la memoria.
Di fatto questo non è un documentario, ma un film di pura fiction con molti personaggi che interpretano sé stessi. I registi infatti costruiscono scene impegnative, richiedono determinati movimenti e posizioni agli “attori”, creano una fotografia satura bellissima, ma soprattutto creano location che interpretino il personaggio e ne parlino. In questo senso è magnifico l’ufficio di Nick Cave.
A conti fatti, più che un film sulla musica, questo è un film sulla memoria e il lavoro visivo (e cinematografico in genere) fatto per rappresentarla o avere la scusa di parlarne è encomiabile: “l’intervista” tenuta dallo psicoanalista che ripercorre i ricordi del cantante; le opinioni dei vecchi amici che vengono mostrati come fantasie di Cave mentre guida (una delle idee migliori); ma soprattutto l’archivio dei ricordi.
Un’opera colossale che dice molto di più di quanto non venga espresso con i lunghi dialoghi, riesce ad avere picchi di surrealtà (con Warren Ellis) e di immagine iconiche... tuttavia può facilmente deludere i fan che otterranno poche informazioni, ma soprattutto deluderà chi si aspetta un film (o un documentario) vero e proprio; se si ha la pazienza di vederlo, però, si avrà un dei documentari più belli e più strani.

lunedì 8 luglio 2019

Comandante - Oliver Stone (2003)

(Id.)

Visto in Dvx.

Oliver Stone realizzò questo documentario in una 3 giorni a Cuba nel 2002 passando circa 10 ore al giorno con Fidel Castro facendogli domande su tutto, gli eventi cubani, gli USA,la vita privata, la filosofia, la storia.
Da quei 3 giorni di interviste continue (ci sono molte scene a tavola e in macchina, ma anche durante visite a musei o università) vengono ritagliati questi (poco più di) 90 minuti.
Il documentario è molto lontano (e precedente) a "South of the border", il documentario su Chavez, ma ne è anche lontano come tipologia di racconto. Quello partiva da Chavez per raccontare un particolare periodo storico di rivincita del socialismo in Sud America; qui invece l'unico intento è parlare con (e di) Castro.
Data la compattezza dell'intento (niente sbrodolamenti didattici) l'effetto è decisamente migliore e, per fortuna, anche la regia ne guadagna. Stone infatti realizza un documentario ricco di immagini (sono almeno 3 le videocamere che tallonano Castro in ogni momento) intercalate con un gioco di montaggio estremamente filmico figlio dei migliori lavori anni '90 del regista. Il montaggio postmoderno con immagini enfatiche ma non direttamente collegate e minimale, spesso vengono intercalate alla voce di Fidel immagini di repertorio che mostrano ciò che sta dicendo, ma ancora più spesso le immagini sono affiancate per paragone (lo stesso movimento, la stessa dinamicità), lo stesso vale per il sonoro, talvolta sovraimpresso su immagini di Castro intento a pensare, ascoltare o discutere di altro.

Se la regia è interessante (e per fortuna dato che questo documentario monografico morirebbe d'inedia data la scarsa dinamicità del racconto) il contenuto è opinabile. Stone non è interessato a fare un ritratto storico obiettivo, né vuole portare a galla elementi particolari. L'intento sembra quello di un fan che cerca solo di sapere tutto di un suo idolo, senza soluzione di continuità e con poco interesse ai lati oscuri (le domande scomode sono poche, tutte montate insieme rapidamente nel finale e le risposte superficiale non vengono ulteriormente indagate).
L'effetto finale è quello di un documentario parziale (e di parte), ma estremamente interessante, con il punto di vista cubano non solo sui fatti che li vedono direttamente interessati, ma anche su altre questioni più intimamente americane e raccontate da un uomo che, per la prima volta, da pezzo di storia appare come un "personaggio" a tutto tondo; un vecchio ironico, sicuro e furbo che vive in un passato fatto di battaglie e di gloria che utilizza per capire il presente (che, come sempre in queste tipologie umane, vede in costante peggioramento).

mercoledì 24 aprile 2019

La nave dolce - Daniele Vicari (2012)

(Id.)

Visto in Dvx.

A 20 anni circa dal grande esodo di albanesi giunte sulle coste di Bari, anche Daniele Vicari gira un documentario. Inevitabile per me fare un paragone con il contemporaneo "Anija" che ho visto diverso tempo fa.
Se "Anija" voleva dare un'idea dei rapporti fra Albania e Italia negli anni '90 (voleva raccontare la storia di tutta l'emigrazione albanese che è durata per tutto il decennio), Vicari si concentra sul singolo episodio, rappresentativo di un evento storico più ampio, ma che permette anche di indagare più nel dettaglio modi e motivazioni di quella fuga di massa, così come le reazioni da parte dell'Italia.
Quello che salta di più all'occhio è la contrapposizione totale che Vicari realizza fra stato centrale (entità mai davvero definita che parla solo con la dura e accusatoria voce di Cossiga) e governo locale (parla poco, ma viene descritto in maniera illuminante).

A livello di immagini, meno repertorio, ma una cura maggiore nelle interviste. Alternanza di dettagli (gli occhi, le mani) e mezzibusti, tutti su sfondo neutro con una splendida luce a illuminare i volti.

Infine il lavoro più raffinato è quello operato sui suoni (come già succedeva nei migliori momenti di "Diaz"); durante le interviste il rumore del mare o il vociare delle persone riprende quanto viene raccontato dai protagoniste sottolineandolo e aumentandone l'effetto.

Un documentario meno emotivo di "Anija", ma più curato.

lunedì 18 febbraio 2019

Le mura di Sana'a - Pier Paolo pasolini (1971)

(Id.)

Visto qui.

Al termine delle riprese per il "Decameron", Pasolini si risolve a realizzare una serie di registrazioni del centro storico della capitale yemenita e della popolazione locale. Quelle riprese verranno montate in questo cortometraggio.
L'intento è, dichiaratamente, un appello all'UNESCO affinché si faccia carico della salvaguardia della città medievale di Sana'a.
Intriso di un poco di arroganza (l'appello a nome del popolo yemenita che ancora non l'ha fatto, ma certamente lo farebbe) e di un occhio estremamente lucido sui mutamenti reali (l'idea cinematograficamente più azzeccata è la serie di inquadrature dei piedi degli yemeniti per sottolineare l'invasione dei beni di consumo) il documentario è un'opera interessante, ma confusa.
Interessante per l'invettiva iniziale anti neo colonizzazione (per lo più cinese!), che però è decisamente fuori tema, e interessante per il parallelo con quanto avvenuto in Italia, è però confusa per gli stessi motivi. Aggiungere argomenti al di fuori del significato fanno perdere nerbo al documentario e la lunga sequenza in Italia è eccessiva per l'obiettivo finale (anzi, l'obiettivo di sollevare lo stesso problema sul territorio nazionale sarà rappresentato molto meglio dal documentario televisivo "Pasolini e... la forma della città" del 1974; torneranno gli stessi argomenti, ma meglio esposti e con più minutaggio).
Rimane comunque un esempio precoce e altissimo di impegno sociale di un intellettuale al di là del proprio giardinetto di casa, che dimostra, inoltre, una preveggenza lodevole e una sensibilità non comune.

venerdì 14 dicembre 2018

Cry Freetown - Sorious Samura (2000)

(Id.)

Visto qui.

Il regista di questo documentario di circa 30 minuti era un montatore di video per UNICEF, si ritrovò addosso la battaglia di Freetown (evento finale... più o meno, della lunga e terribile guerra civile sierraleonese); decise di scendere in strada e riprendere quello che successe. Montando il tutto il documentario che ne risultò venne reso pubblico dalla CNN e da lì i premi furono ad un passo.

Data la storia particolare non stupisce di trovarsi di fronte a un documentario che è più un documento, mostra eventi particolari e minimali (con troppa enfasi, blame insistiti e un portagonismo del regista che sa di tracotanza più che scelta di stile) che rimangono fini a sé stessi, non spiega gli eventi, la situazione più ampia o l'intera guerra, non spiega neppure la battaglia nella capitale; si limita mostrare immagini truculente che rimangono importanti quanto il filmato di Zapruder, ma con la stessa qualità che rimane costantemente a zero.

Niente più che un documento, solo immagini, nessun valore aggiunto, nessun chiarimento.

mercoledì 31 ottobre 2018

Kagamijishi - Yasujirô Ozu (1936)

(Id. AKA The lion dance)

Visto qui.

Il primo film sonoro di Ozu, piuttosto tardivo, fu un documentario, un cortometraggio, ma, soprattutto, un film su commissione. Per promuovere la cultura giapponese fu chiesto a Ozu di riprendere un'opera di Kabuki. L'impressione che si ha è che il sonoro fu una scelta imposta più che ricercata; la musica, certamente lo imponeva (non c'era più la possibilità di suonare dal vivo nel 1936?), ma anche la velocissima spiegazione iniziale sarebbe risultata piuttosto laboriosa con i cartelli, anche se, immagino, Ozu avrebbe trovato una via alternativa.

Il filmato riprende in toto un'opera Kabuki in cui un attore interpreta una anziano donna che, toccando una testa di leone, viene impossessata dalla spirito dell'animale.
La parte inziale, quella introduttiva (a mio avviso la più interessante), mostra il teatro vuoto da diverse inquadrature in un gioco di montaggio rapido. Il resto sono inquadrature alternate di un campo lungo, con la figura intera dell'attore, con alcuni, rari, primi piani.
Assolutamente elegante, ma senza mordente; l'attore è piuttosto bravo nella parte della donna (anche se avrei immaginato una grazia decisamente superiore), ma riesce al meglio nella energetica parte del leone.
Carino, interessante, importante per la filmografia di Ozu, ma ovviamente non fondamentale.

mercoledì 19 settembre 2018

Chavez, L'ultimo comandante - Oliver Stone (2009)

(South of the border AKA A sud del confine)

Visto in Dvx.


Il documentario parte dal presentare il personaggio di Hugo Chavez, come viene mostrato dai media americani e poi come dovrebbe essere realmente. Da Chavez parte poi un breve excursus sui leader sudamericani dell'epoca, per lo più non allineati con le politiche statunitensi di Bush.

Documentario di Oliver Stone creato con intenti totalmente politici. La cosa va sottolineata poiché è il contenuto l'unico interesse del regista, la forma, la regia, sono totalmente insignificanti; non c'è una cura particolare in nulla, non c'è un'idea, almeno di montaggio, particolare; non sembra per nulla un film di Oliver Stone.
Il regista americano sembra soffrire della medesima malattia di Ken Loach, quando buttano tutto in politica, in una tesi, dimenticano il cinema.

Tolto questo dettaglio il documentario è ben ritmato e piuttosto interessante, solo troppo caotico. Nella prima parte viene brevemente tratteggiata la figura di Chavez in maniera tutt'altro che approfondita, ma abbastanza per farsi un'idea del punto di vista del regista, la seconda poi deraglia volendo mostrare una sorta di zeitgeist antimperialistico senza soluzione di continuità, diversi leader sudamericani che parlano molto brevemente senza aggiungere granché all'idea di fondo.
Carino, godibile, ma molto limitato.

mercoledì 20 dicembre 2017

Corman's World: Exploits of a Hollywood Rebel - Alex Stapleton (2011)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Nel 2010 viene assegnato a Roger Corman un oscar alla carriera tanto doveroso quanto ambiguo. Doveroso per aver creato un modello di produzione simile in molte cose a quello delle major degli anni d'oro di Hollywood, solo con pochi soldi e con tuta la libertà e la fretta di fare tanto della nuova Hollywood (le liste con Corman tendono a diventare un testo a sé, comunque, citerei solo Scorsese, Coppola, Hopper e Demme tra i registi); doveroso per aver dato la possibilità a dei giovani di farsi le ossa e poter poi diventare gli autori più importanti del decennio successivo ed essere oggi considerati dei classici; doveroso per la sua continua dedizione alla distribuzione che affiancava ai drive-in movies anche opere europee intellettuali che, altrimenti, non sarebbero state proiettate nei cinema USA; doveroso, infine, per la continuità e la serietà del suo lavoro come regista e produttore, nel mettere in scena ciò che al pubblico poteva piacere, ma non era realizzato dalle major.
Dall'altra parte, l'Oscar, è stato un premio ambiguo, dato a un uomo di cinema che ha sempre lavorato in contrapposizione a Hollywood e che nello spreco di denaro per i film delle major vede un'oscenità morale.
L'Oscar ha dato un colpo di grancassa al nome ormai nel dimenticatoio di questo autore e produttore ancora attivo e a parte una cerimonia a lui dedicata con la presenza di tutti quelli che gli dovevano qualcosa, qualche intervista, una serie di uscite in DVD dei sui classici più famosi, l'anno successivo venne realizzato questo documentario.
Non è il primo documentario su Corman (sicuramente ne uscì uno nel 2006, ma immagino ce ne siano in giro altri), ma, in questo caso, la sommaria descrizione della carriera registica e produttiva del protagonista viene lasciata  alle parole di familiari (il fratello, produttore anch'esso), collaboratori ed epigoni (termine che vorrei senza l'accezione negativa).
Al di là del piacere di vedere Scorsese che ne sottolinea la qualità artistica, Nicholson prima lo sfotte e poi si commuove, Tarantino che introduce la consegna dell'Oscar, Platt che ne sottolinea la parte più umana; al di là, insomma, del puro piacere provinciale di vedere un proprio eroe osannato da personaggi importanti, al di là del fattore emotivo fine a sé stesso; qui si vede un'orazione eroistica di un modo di fare cinema fatto da chi quel cinema l'ha vissuto e goduto ed ora ha scelto di fare altro. Qui c'è la Hollywood ormai considerata classica che esalta l'uomo che negli ultimi 60 anni è stato ostinatamente un outsiders descrivendolo come l'uomo più importante dell'allora nuova Hollywood.

PS: Come aggiunta ci saranno importanti insegnamenti base, come il fatto che se una moto compare in una scena dovrà, per forza di cose, andarsi a sfracellare e poi esplodere, o come il climax ideale degli omicidi del mostro in un film di mostri.

lunedì 27 novembre 2017

Terra senza pane - Luis Buñuel (1933)

(Las Hurdes)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Documentario su una regione della Spagna ai confini con il Portogallo, terra dimenticata da Dio e dal governo in cui negli anni trenta le malformazioni d'origine genetica, il gozzo e la malaria falcidiavano la popolazione, dove le condizioni di vita erano decisamente a livello dell'attuale terzo mondo.

Documentario apertamente politico (il cartello finale è fin troppo esplicito), con un filo di anticlericalismo, che mostra uno spaccato di vita quotidiana di una zona retrograda (per stile di vita, ma anche a livello culturale). Il filmato è in origine un film muto ridoppiato da una voce fredda e musica classica.
Un documentario per lo più in presa diretta, ma con una parte del materiale registrato che appare creato ad hoc (lo stambecco... o capra, che cade), che denota una ricercatezza formale anche in un filmato minimale e con intenti più pragmatici.
Anche il dettaglio del doppiaggio è in linea con l'intento programmatico, permette infatti di capire i concetti veicolati con esattezza, purtroppo nel farlo toglie molta dell'enfasi e dell'efficacia che le immagini avrebbero da sole. Le parole della voice off sono la prosa, le immagini (da sole) la poesia; una poesia solare nelle scene naturali (la scena delle api), poesia lugubre quando mostrano gli esseri umani (che veicolano malattie e morte).
In aggiunta si vede chiaramente il sub strato storico da cui è nato il surrealismo spagnolo, l'ambiente da cui è scaturito al di là dei motivi per cui si è sviluppato (difficile non pensare a Dalì vedendo l'asino con le api).

lunedì 25 settembre 2017

Il sangue della bestia - Georges Franju (1949)

(Le sang des bêtes)

Visto qui.

Se "Earthling" inserisce qualcosa di nuovo, il discorso di fondo è più vecchio di quanto ci si possa aspettare. Al di là della questione meramente alimentare, la violenza sugli animali perpetrata nell'industria della carne ha un antesignano illustre. Questo cortometraggio documentaristico di un, quasi, neofita Franju. Prima dei suoi splendidi lungometraggi surreali il regista francese si pose nella scia del documentario, direi, pionieristico. Lo è perché la sua opera prima è degli anni '30, lo è per le difficoltà di realizzare documentari veri e proprio in quei decenni, ma qui lo è soprattutto il tema, all'epoca decisamente poco mainstream.
Il documentario mostra il macello di alcuni animali (mucche, cavalli, maiali) in alcuni mattatoi della periferia parigina. Le sequenze delle uccisioni sono mostrate senza reticenze e con un distacco che evita il voyerismo (e devo ammettere che impressionano poco grazie al bianco e nero) e vengono introdotte da alcune brevi spiegazioni fatte con voice off mentre la macchina da presa mostra i quartieri dove sono presenti i macelli.
Questo corto è certamente originale per l'epoca, ma lo trovo molto più interessante per la sua realizzazione. Ci sono inserti arty con gli stacchi da una scena all'altra fatti tramite oggetti (un ventaglio che si apre), inquadrature dolcemente e tranquillamente surreali (il lampadario sospeso nel nulla, l'uomo seduto a tavola in mezzo a una spianata in esterni) che sembrano voler esaltare l'impatto visivo della macellazione a cui si assisterà poco dopo. Al di là della realizzazione però, c'è anche una certa intelligenza nel portare avanti il concetto (questo documentari non sono mai crudamente obiettivi); con una serenità incredibile, Franju, sembra voler fare dei paralleli fra la periferia urbana (dove sono costruiti i mattatoi) e quella umana; dove uomini allo sbando si concentrano attorni a luoghi non di orrore, ma di fredda indifferenza professionalità.

Earthling - Shaun Monson (2005)

(Id.)

Visto in streaming, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Documentario shock contro lo sfruttamento animale in ogni campo delle attività umane, dall'industria della carne e quello dei vestiti, dagli esperimenti scientifici all'intrattenimento (i circhi).
Inutile discutere sulla tesi proposta; essere d'accordo o in disaccordo con il documentario è pura opinione e (Michael Moore ha reso evidentissimo che) ogni documentario è di per sé fazioso, dovendo partire da un'idea di base che non è mai pura obiettività giornalistica.

La struttura è piuttosto semplice. Immagini di repertorio (alcune troppo datate) per lo più disturbanti (la parte sull'industria alimentare è una delle sequenze più persuasive a favore del mondo vegan che abbia mai visto) e molto efficaci che che riportano a una sorta di Mondo movie con una voce narrante (Joaquin Phoenix) molto adatta, competente e convincente e con un intento educativo che i veri Mondo non avevano.
Quello che cambia rispetto ai precedenti documentari sullo stesso tema (che io abbia visto, ovviamente) è, in parte, proprio questo intento educativo. Più che cercare di convincere o svelare fatti nuovi e sconvolgenti, cerca di spiegare perché ha ragione, di insegnare le basi morali che sostengono la tesi proposta. Un insegnamento piuttosto didascalico nell'incipit e nel finale che si fonda sull'antispecismo; teoria tutt'altro che nuova o innovativa a livello filosofico, ma (per me) nuova a livello documentaristico (sicuramente per quello più mainstream); che, dunque, non si accontenta di mostrare le torture subite dagli animali (cosa che viene pedissequamente fatta almeno dai tempi di Franju in poi), ma le mette in prospettiva/relazione rispetto alle esperienze umane. Ecco, questa idea di fondo è la cosa migliore del film (e per quanto molto rigidamente aneddottica, all'inzio del film, viene anche ben spiegata).

Forse troppo didascalico (...senza forse), certamente troppo lungo (specie nell'assunto finale) e nella lunga porzione centrale mostra il festival da grand guingnol che ci si può aspettare da un film di questo genere (molto più efficace dei discorsi iniziali, ma non molto costruttivo), ma molto intelligente.

mercoledì 6 settembre 2017

Roger and me, Roger e io - Michale Moore (1989)

(Roger & me)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Dopo aver legato indissolubilmente il nome della General Motors a quello della cittadina di Flint, l'industria decide di chiudere lasciando senza lavoro migliaia di persone, per poter aprire fabbriche a basso costo in Messico. Michael Moore, nato in quella cittadina decide di incontrare l'amministratore delegato, fallendo continuamente, ma nel farlo incontrerà persone il cui futuro è stato distrutto dalla chiusura della fabbrica.

Ciò che più sconvolge nel vedere questo primo film di Moore,  che un parvenu del documentario sia riuscito a fare una cosa così originale e così diversa da tutto ciò che c'era in circolazione all'epoca.
Costretto, forse dall'argomento, Moore scende in campo in prima persona e con un espediente narrativo non molto distante da un MacGuffin (incontrare l'amministratore generale della General Motors per farlo venire a Flint, da parte di un signor nessuno e senza appuntamento, è abbastanza difficile) mette in scena un documentario che è già compiutamente in stile Moore, solo meno raffinato.
Immagini scadenti, spesso fuori fuoco, immagini di repertorio prese solo dai tg o dai filmini locali (o anche da vecchi film, immagino senza più copyright); ma tutto il resto c'è. C'è l'uso ironico della musica e l'ancor più efficace umorismo creato con il solo montaggio, c'è la faziosità estrema di un film costurito a tesi (che nel documentario è cosa comunque diffusa), c'è l'accostamento di situazioni contraddittorie e un interesse particolare per i piccoli freak di tutti i giorni; e poi c'è un nemico da combattere.
Meno aggressivo che nei successivi, ma non meno efficace, anzi, la capacità di gneerare scene divertenti utilizzando solo il girato originale ha dell'incredibile (la donna delle analisi dei colori è pazzesca).
Da vedere.

lunedì 21 agosto 2017

El Sicario, Room 164 - Gianfranco Rosi (2010)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Un sicario dei narcotrafficanti messicani racconta la sua storia, sul come è statoa vvicinato per lavorare coi narcos, alla descrizione delle sue mansioni (dall'omicidio ai rapimenti, alle torture) con dimostrazioni pratiche, ma racconta anche le tecniche e le gerarchie, i sistemi di sicurezza del narcotraffico e le collusioni con lo stato (con un'inquietante diagramma dove sostiene che chiunque a qualsiasi livello sia implicato), i rischi professionali e il burn out.

Con uno stile di regia estremamente asciutto che si concentra totalmente sul suo protagonista (sia come inquadratura, sia seguendone i tempi e il flusso di coscienza) mostra il lato oscuro con un distacco invidiabile. Inquadratura ravvicinata durante il racconto, concentrata sulle mani (certamente in quanto sono l'unica parte visibile del sicario, ma anche perché sono le vere protagoniste della vicenda; quelle mani sono le responsabili di rapimenti, torture e omicidi), mentre la macchina da presa si fa distante (mostrando la figura intera del sicario) durante le dimostrazioni pratiche (ovviamente per motivi di chiarezza dell'inquadratura, ma riuscendo anche a ottenere un risultato psicologico). I racconti sono aiutati dalla grafomania del protagonista che scrive e disegna ogni parola, permettendo una maggiore scorrevolezza a un documentario altrimenti molto statico. Le sequenze di racconto sono, brevemente, inframezzate con inquadrature fisse della città o del motel e da alcune inquadrature nere di stacco; scene, queste su cui spesso viene sovrapposto il sonoro della scene precedente o della successiva con un effetto efficace, specie sui frequenti sospiri del protagonista.
Il lavoro di regia, apparentemente semplice (ma supportato da una fotografia molto ragionata) è in realtà una realizzazione estremamente raffinata e totalmente funzionale alla storia. Non si vuole fare pubblicità a un personaggio, ma lasciare che una persona racconti una storia, senza confusione e senza distrazioni.

Film molto emotivo nonostante la frigida realizzazione, che si concede anche un finale a sorpresa.
Personalmente l'ho preferito a "Sacro GRA" in maniera decisa, per la sua concisione, l'effetto emotivo e l'interesse maggiore per la storia mostrata.