mercoledì 25 febbraio 2015

Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza - Roy Andersson (2014)

(En duva satt på en gren och funderade på tillvaron)

Visto al cinema.

All'inizio del film compare un cartello che avverte che questo è il terzo capitolo di una trilogia sugli esseri umani; immagino quindi che "Canzoni dal secondo piano" e "You, the linving" (che non ho visto).
Come i precedenti (anzi, il precedente che ho visto) questo film si compone di una trama rarefatta; alcuni personaggi fissi che tornano spesso vivono situazioni assurde divisi in scene autoconclusive (manca una vera e propria trama; volendola a tutti i costi cercare i due personaggi più presenti sono due venditori di scherzi di carnevale che cercano di sopravvivere in un mercato piuttosto fermo).
Dietro la macchina da presa Andersson rimane sé stesso; inquadrature ferme, scene con punti di fuga e linee oblique, colori desaturati clamorosi, una costruzione degli arredamenti perfetta e un uso degli attori come se fossero pezzi di arredamento anch'essi (con corpi spesso disfatti e volti... sempre disfatti). Di fatto una costruzione a tableau vivant che si susseguono creando un mood comune con scene blandamente collegate fra loro. Direi che l'obiettivo ultimo si può intuire, ma non è fondamentale, anche perché gli elementi sono diversi (la morte, di cui tutto il film è il terzo capitolo i cui due precedenti sono brevissime scene iniziali; l'incomunicabilità, con telefonate sempre uguali in cui n on viene detto nulla o segreterie telefoniche mai ascoltate; la solitudine).

Quello che viene sempre esposto è un senso dell'attesa di qualcosa di grande, un mood tragico anche se non avviene niente e un'ironia amarissima (ho sentito molti ridere apertamente durante la proiezione!).
Quello che però ha di diverso è  che qui compaiono molte scene in esterni, esteticamente sempre impeccabile, anzi pure più curate (e percettibilmente false) che non gli interni; inoltre qualche picco dell'assurdo buono (l'incursione di Carlo XII in marcia verso Mosca in un bar di periferia o l'episodio nel 1943 con la proprietaria del bar che offre grappa in cambio di baci cantando), ma che non competono con quelle di "Canzoni dal secondo piano"; ma soprattutto non ci sono impennate di poesia come nel primo capitolo della trilogia (basterebbe il canto nell'autobus o l'incredibile finale). Altra importante differenza è che qui non c'è un senso apocalittico come nel precedente, ma un'amarezza anche maggiore.
Inoltre qui ci sono alcuni punti che dall'assurdo si passa alla esagerazione poco efficace.

Di fatto è comunque un evento incredibile vedere un film di Andersson al cinema e permette a chi non lo conosce di entrare in contatto con un regista a sé (e nel 90% dei casi di odiarlo per i tempi dilatati e la trama, eufemisticamente, rarefatta), per chi già lo conosce è un piacere sentire altra gente che ne ride... in una sala cinematografica.

PS: la scena iniziale nel museo di storia naturale, senza dire nulla e senza che succeda nulla (anzi, proprio per questo) già dice tutto del film e dello stile di Andersson.

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