mercoledì 9 marzo 2016

Il figlio di Saul - László Nemes (2015)

(Saul fia)

Visto al cinema.

In un campo di concentramento un ebreo deputato a occuparsi delle docce crede di riconoscere suo figlio in un ragazzino sopravvissuto (e poi ucciso comunque) al gas. Girerà per il campo mettendo a repentaglio la vita di tutti e anche la propria (oltre che rischiando di mandare a monte il piano di rivolta degli internati) per cercare un rabbino per poter sotterrare il corpo.

La primissima scena mostra esattamente lo stile del film; un'inquadratura completamente fuori fuoco in cui lo sfondo è descritto solo con macchie di colore; dalla distanza si avvicina un uomo che si ferma in un primissimo piano perfettamente a fuoco.
Subito dopo a questa presa di posizione estetica c'è una delle sequenze più potenti del film; tutto girato in un ostinato primissimo piano il protagonista si occupa degli internati che si spogliano per entrare nelle docce, alle sue spalle corpi nudi in fila sono resi con pennellate di colore molto vivide ed evidenti per contenuto, ma non chiare (le usurate immagini dei film da olocausto ci sono tutte, ma sono rese meno dettagliate, ma non meno potenti). Una volta entrati nelle docce si sentono da dietro al porta le grida delle persone che stanno morendo e il protagonista, sempre impassibile, va a tenere chiusa la porta mentre i rumori che provengono da dietro diventano sempre più forti fino allo stacco su un'inquadratura nera e senza suoni. Titolo.

Il cinema sull'olocausto è il più standardizzato in assoluto e il più spaventoso da affrontare con delle innovazioni pretendendo che gli stessi simboli riescano a essere sempre potenti nonostante l'usura del tempo (un vestito a righe, un filo spinato, ecc..) mentre i personaggi sono più macchiettistici che nel noir o nel western classico, con gli internati vittime innocenti ed estremamente buone e nazisti totalmente disumani; nessuna via di mezzo, mai. Qui, con pochi tratti e un'idea estetica più espressionista che descrittiva riesce a rielaborare i soliti simboli in maniera meno evidente, ma molto più efficace; quell'incipit è una delle scene più emotive che abbia mai visto in un film sulla Shoah.

Questa tecnica di lasciar suggerire senza mostrare permette di portare sullo schermo ogni efferatezza senza fermarsi a essere uno splatter, ma riuscendo a dare perfettamente il senso di ciò che avviene; il riverbero del fuoco trasforma la scena in un girone dantesco, l'uscita dal crematorio fa sembrare la scena presa da un fantasy, il fumo dei corpi bruciati rende tutto simile a Silent Hill, il lavoro delle donne è una frenesia da alveare.
Nemes però lavora anche sui suoni con l'impegno che ci mettono solo i registi dei film horror. Nessuna musica (una canzone solo per pochi secondi), continui comandi urlati in lingue incomprensibili (tedesco of course), mentre i rumori vengono amplificati mettendo in primo piano urla, pianti, lo scalpiccio dei personaggi, l'abbaiare dei cani, ecc.

Oltre alla sequenza iniziale vorrei sottolineare anche la ricerca del rabbino fra gli internati che stanno andando verso la fossa comune; questa è l'altra scena perfetta per intenti e mood che rimarrà nella memoria.

Di fatto non solo un film sull'olocausto, ma un film sull'inferno come mai si era visto al cinema, dove tutti i personaggi sono dei folli che mentono e cercano di perseguire i propri scopi in un ambiente dove la morte è l'unica condizione  presente e costante.

2 commenti:

Christian ha detto...

Uno dei film migliori e più interessanti dell'anno, anche perché è un'opera prima!

Lakehurst ha detto...

E anche perché è il primo film sull'olocausto con un minimo di originalità da 50 anni a questa parte. Non è facile cercare di cambiare le regole in un sottogenere così codificato