sabato 14 novembre 2015

Decor - Ahmad Abdalla (2014)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso); in lingua originale, sottotitolato.

Una direttrice artistica cinematografica che lavora con il compagno, decide, con lui, di accettare un lavoro commerciale; i tempi di produzione stretti, il regista pilatesco e i diverbi con la star causeranno un tale stress che la donna sembrerà avere problemi mentali; si ritroverà spesso sbalzata nella vita di un'altra donna che rispecchia in parte quella fittizia creata per il film. Ovviamente i continui salti introdurranno il dubbio su quale sia la vita vera e quale l'allucinazione, ma durante lo svolgimento del film, la sicurezza e la voglia di vivere l'una o l'altra vita continueranno a modificarsi.

Prima di difetti. Il film latita in ritmo; non è mai noioso, ma fin dai primi (bellissimi) minuti si percepisce una mancanza di grip. Inoltre, e soprattutto, il film dura troppo, con una sceneggiatura che parte estremamente superficiale (ma si rivelerà esattamente all'opposto) con una ripetitività evitabile; può quindi risultare facilmente indigesto, specie nella prima metà.

Poi i pregi. Il film è esteticamente bellissimo. Una fotografia in bianco e nero senza la minima sbavatura; un costruzione delle scene che sembra creare delle fotografie da esposizione; alcuni tagli di luce che il 90% dei film autoriali europei invidierebbero se solo potessero immaginare cosa c'è dall'altra parte del Mediterraneo.

Infine la lettura. Beh questo è un film con così tanti strati plausibili che difficilmente se ne può venire del tutto capo. Al di là della trama pura e semplice, la prima lettura è il film metacinematografico. Il film cita apertamente altri film classici egiziani e continua a far tornare la figura di Faten Hamama (ma ci sono anche citazioni dai Lumière con il treno nelle prime scene che precorre a quello a metà film che a sua volta sembra una citazione di "Strade perdute" di Lynch), mentre le due storie che si svolgono sono, ognuna per conto suo, un melodramma classico, quasi stucchevole; la chiusura finale che ricalca quella di un film già mostrato e poi l'uscita dal cinema sono solo le evidenze che rimangono più impresse.
C'è anche la fiaba morale che mostra come tutto ciò che è accessorio alla vita sia fuggevole (sia un decoro), compresa la felicità, ma che il migliore dei mondi possibili non si limiti per forza nello scegliere fra il bianco o il nero, ma che a volte c'è una terza via possibile (che aumenta i colori della tavolozza, come nell'ultimissima inquadratura).
C'è il risvolto meramente onirico di una vicenda che parli solo della mente umana, di cui il cinema (come rappresentazione per immagini della fantasia del suo autore) diventa simbolo assoluto e, in quest'ottica, la scena finale con l'incidente che riporta i colori in scena rappresenta la sveglia che riporta in gioco la realtà.
Infine c'è il riferimento politico; i continui discorsi sul coprifuoco che vengono fatti solo in una delle due vite sembrano riferirsi ai giorni delle proteste di piazza Tahrir, il riferimento alla terza via già citato prima (proprio durante le elezioni del 2014 si fece presente il riferimento a questa terza possibilità che non fosse né con i Fratelli mussulmani, né con i militari).

Comunque lo si voglia vedere (e credo che le interpretazioni potrebbero essere ancora molte) quello che si ha davanti è un tracotante mastodonte, perfettamente realizzato che rende omaggio al mezzo che lo produce. Comunque sia, applausi.

Il film è stato anticipato dal cortometraggio "Kwaku" del regista ghanese Anthony Nti. Il corto mostra le avventure di un ragazzino per recuperare dei soldi. Il film, opera prima realizzata con pochissimi mezzi riesce ad avere molti motivi di interesse nonostante una trama semplice e un minutaggio contenuto. Il limite principale è quello di avere una macchina da presa non hollywoodiana, ma il giovane regista la sfrutta, utilizzando la difficoltà di messa a fuoco per costruire le scene e dare più dinamismo esagerando ogni tanto in una confusa macchina a mano alla europea. L'occhio del regista si concentra spesso sui dettagli costruendo sequenze complesse (usando anche in maniera ottima il montaggio), senza, quindi, limitarsi a piazzare gli attori davanti alla macchina da presa. Inoltre la semplicità della storia non limita il linguaggio, anzi, il regista riesce a introdurre elementi all'inizio del film che diverranno chiari solo con il proseguimento della vicenda (il pallone iniziale magistralmente bucato dopo la dissolvenza, o la gamba della nonna massaggiata dal ragazzino) senza che vi sia bisogno che vengano spiegati i collegamenti; inoltre riesce a dare al film un finale totalmente aperto, ma soddisfacente, non lasciando nessuno a bocca asciutta.

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