lunedì 1 aprile 2019

Dancer in the dark - Lars von Trier (2000)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Una donna cecoslovacca, emigrata negli USA, lavora in una fabbrica e si arrabatta di mille lavoretti per mettere via abbastanza soldi per poter pagare un'operazione agli occhi del figlio che, per una tara genetica, è desitnato a divenire cieco; lei stessa lo sta diventando quasi del tutto. Donna entusiasta della vita e dolce con tutti è però estremamente determinata a portare a termine il suo dovere senza che nessuno lo sappia, per non dover spaventare il figlio. Andrà incontro a un crimine per il quale sarà condannata, ma non cederà di un millimetro dalla sua posizione.

Per chi non l'ha visto la trama sa di melodrammetto spiccio come ce ne sono molti. Invece questo film è il più grande rappresentante del melodramma moderno, un riuscito concentrato di sentimenti ostacolati, ma giganteschi che non può non colpire.
La storia di un personaggio minore che vive per gli altri e si mantiene viva con un ottimismo contagioso; la storia di un personaggio del genere che è costretta a ogni umiliazione, sofferenza e delitto per arrivare in fondo al suo unico obiettivo è qualcosa che di per se sarebbe sufficiente; resa in maniera tanto realistica, quanto trattenuta; sentimentale, ma mai stucchevole con uno dei gradi di empatia più alti della storia del cinema. Ripeto, tutto questo sarebbe già di per sé sufficiente.
Invece von Trier si inventa il musical. La sua protagonista ama i musical americani, perché nei musical non possono succedere cose troppo brutte e perché c'è sempre qualcuno pronto a prenderti quando cadi. Li ama a tal punto che nei momenti di maggior difficoltà, quelli in cui deve ragionare, distrarsi o razionalizzare quanto avvenuto, riesce a farlo solo pensando in quella maniera; raccoglie i suoni che la circondano (un treno che passa, un giradischi che viaggia a vuoto, i rumori di una fabbrica) e li fa diventare musica su cui canta i propri pensieri.

Von Trier, finalmente, abbandona il Dogma, anzi, lo sfrutta nella misura in cui gli è ancora necessario; con lunghe scene sgranate, dalla fotografia povera e dai continui, dondolanti piani sequenza. Uno stile secco che aiuta la verosimiglianza dell'opera e ne aumenta l'impatto emotivo (i sentimenti esposti sono aumentati dall'ambiente arido in cui esplodono) e l'empatia. Ma questo stile cambia completamente nelle scene musicali; dove la macchina da presa diventa fissa, il montaggio rapidissimo, le inquadrature si allargano e i colori vengono saturati; rendono la differenza fra il mondo reale e la fantasia indiscutibilmente potente.

Il film poi si avvale di Bjork in maniera egregia. Non siamo di fronte a musical vero e proprio (la prima canzone è dopo 45 minuti di film), ma le sette canzoni scritte sono perfette, in linea con il film e dolcissimi o strazianti anche ascoltate in maniera avulsa dal contesto; la performance canora è di quelle che lasciano il segno. Come attrice Bjork sorprende; ha sicuramente il viso e il piglio giusti per la parte dell'innocente, ma riesce in alcuni picchi emotivi su cui era lecito aspettarsi un risultato inferiore. Il film inoltre è arricchito da un cast che va da una Deneuve in disparte, ma che fa il suo lavoro con dignità, a una serie di facce da secondo piano del cinema americano sfruttate al meglio; su tutte Stormare, utilizzato, finalmente, fuori dal luogo comune del villain in una delle parti più delicate dell'opera.

Un film enorme per potenza ed efficacia, originale e spiazzante nonostante attinga da generi più che abusati. Un film che, nonostante l'abbia rivisto per l'ennesima volta, non riesce a non commuovermi.

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