lunedì 4 dicembre 2017

Happy end - Michael Haneke (2017)

(Id.)

Visto al cinema.

A causa di un "incidente" con dei farmaci la madre di una ragazzina viene ricoverata. La ragazzina andrà a vivere col padre risposato. Lui però vive in un ampio caseggiato con l'anziano padre degli istinti suicidi, la sorella che deve affrontare una crisi aziendale, il nipote con problemi di accettazione e frequenti squilibri. Il padre stesso intrattiene una relazione telematica estremamente sguaiata.

Come spesso succede, Haneke, si occupa delle disfunzioni della borghesia, degli istinti segreti e del demone che sono le persone che bruciano per autocombustione. Qui, per la prima volta il suo punto di vista si amplia su una serie corale di co-protagonisti.
Haneke ci ha, da sempre, giocato in maniera pesantissima con i suoi protagonisti e con lo spettatore, accanendosi su entrambi, riuscendo genuinamente a creare film fastidiosi per chi li guarda e distruttivi per i suoi personaggi. Ecco, in questo caso, semplicemente, fallisce su entrambi i fronti.
A causa del cast troppo ampio la foga distruttiva viene troppo diluita e l'apparenza pulita che nasconde vite così torbide ne risulta edulcorata; non succedono apocalissi private come nei film precedenti, solo idiosincrasie, problemi, ansie. In un film in cui l'impatto sui personaggi è così superficiale anche lo spettatore si ritrova molto meno segnato; non c'è mai vero fastidio, mai vera ansia, non c'è mai il classico pugno nello stomaco hanekiano.
Per essere precisi, qui il problema non è la scrittura, anzi, la trama si muove con la consueta calma autoriale senza mai annoiare o scadere nel troppo lento. La sceneggiatura utilizza diversi sistemi di comunicazione (c'è molto digitale in questo film) e avverti di cambi improvvisi senza perdere tempo in spiegazioni; allo spettatore il compito di decifrare ciò che è successo o che potrebbe essere successo. Il problema, si diceva, non è la trama, ma il soggetto in sé.

In questo film, ben girato e magnificamente curato, non c'è la consueta malignità del regista austriaco, non c'è mai vero dolore e, addirittura, c'è un pelo di benignità eccessiva. Un film ben condotto, ma innocuo: l'antitesi di ogni altro film di Haneke.

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