venerdì 2 febbraio 2018

Youth. La giovinezza - Paolo Sorrentino (2015)

(Id.)

Visto in aereo.

Un anziano compositore si è ritirato in una spa sulle alpi svizzere, buen retiro di diversi personaggi uniti dalle professioni artistiche (un regista, un attore, Maradona, ecc...) e dal momento di crisi che, singolarmente, stanno attraversando.

L'estetica di Sorrentino è da sempre piuttosto standardizzata (regia dinamica, ricca di movimenti di macchina da presa, piani sequenza, uso delle musiche scorsesiano, cura fanatica della fotografia) e questo film non cambia di una virgola, si concede solo una fotografia dai colori più delicati per assecondare il tema più fragile e per l'ambientazione elegiaca.
L'altra caratteristica dei film di Sorrentino è il fatto di non avere mai una trama continua, ma (come già Fellini), di costruire storie affiancando momenti disgiunti in un unico grande flusso, che il regista napoletano coagula attorno a un protagonista larger than life.
E qui si arriva alla terza caratteristica standard di Sorrentino: i suoi personaggi. Da sempre il regista costruisce i propri film su un unico protagonista, granitico, centralissimo e con il potere (talvolta un potere relativo come ne "L'amico di famiglia" se non marginale a un potere più grande come ne "Le conseguenze dell'amore"). Da sempre, poi, i suoi personaggi sono dei freak solitari, degli outsider rispetto alla società in cui sono totalmente integrati, potenti, ma avvicinati solo per necessità, di successo, ma comunque isolati. Quello che cambia di più in questo film è proprio il protagonista; un personaggio di potere relativo (è solo un compositore, ma ancora quotato e molto ricercato), solitario e con problemi di comunicazione, ma totalmente positivo. Non è un outsider, anzi, sarebbe ancora centralissimo e desiderato, ma è lui a tendere all'isolamento. Una differenza non da poco che trasformano il classico personaggio sorrentiniano (una versione becera di un protagonista timburtiano) in uno eroe classico del cinema contemporaneo.
Questa scelta, di per sé non negativa, si associa male alla pretesa poesia visiva del regista; una poetica continua fatta proprio dal suo stile che nei film precedenti si coniugava benissimo alla storia raccontata, affiancando la bellezza dell'esecuzione alla negatività del contesto; da questa dicotomia la poesia è sempre stata spontanea e spiazzante. Qui c'è una galleria di personaggi feriti, ma positivi, che si trovano soverchiati dalla vita e vengono ripresi con la stessa mano pesante, dando vita a una lunga serie di scene pretestuose che trasmettono pochissimo delle emozioni che vorrebbero creare (su tutte, vince per paraculaggine, Caine che dirige i rumori di una vallata alpina).

PS: magnifico il cameo di Jane Fonda.

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