lunedì 10 dicembre 2012

Le ombre degli avi dimenticati - Sergei Parajanov (1964)

(Tini zabutykh predkiv)

Registrato dalla tv, in lingua oroginale sottotitolato.


Gli anni ’60 sono stati un periodo nella cinematografia sovietica in cui la sperimentazione ritornò a farla da padrone e, forse per reazione al realismo sovietico o per altre dietrologie possibili, in cui il metafisico, il fantastico, il poetico sono stati la grande novità. Il nome che viene subito in mente è certamente quello di Tarkovskiy. Il secondo però dovrebbe essere Parajanov (traslitterato anche come Paradzanov).

Parajanov, nasce come regista di regime negli anni '50; divenne responsabile di una serie di opere realizzate nel classico realismo sovietico, con alcuni personalismo. Sarà solo nel 1964 con questo film che Parajanov, prendendo come scusa il centenario dello scrittore Kocjubinskij, metterà in scena una sua storia in una versione fiabesca intrisa di folklore locale che nulla avrà a che fare con lo stile del regime. Il film sarà ostracizzato e sarà messo in difficoltà nella distribuzione incassando pochissimo.

La storia è il racconto di un’amore fra un uomo e una donna, cominciato in maniera burrascosa durante l’infanzia e coronato con il matrimonio nell'età adulta. Però la donna morirà in un incidente. Dopo anni di doloroso peregrinare l’uomo si risposerà con un’altra donna, senza però condividerne mai una relazione vera e propria, senza più essere felice. La gioia tornerà solo con la morte.

Parajanov è un visionario fantastico. Un estremista nei movimenti di camera; fa quello che farà 20 anni dopo Kubrick senza avere una steady cam; si muove in ogni direzione possibile (letteralmente) e di continuo. Mette in scena per visioni, per impatti visivi, costruisce scene che sono quadri o piccole opere teatrali o balletti. Ma ciò che più di tutto entusiasma è la costruzione di sequenze in cui ciò che viene mostrato suggerisce qualcosa più che farlo vedere direttamente (la sequenza del tradimento della moglie con l’uomo che doma la tempesta e l’albero che prende fuoco; in maniera più tecnica e meno poetica la scena in cui il marito scopre il tradimento spiando da dietro un muro di legno), in queste situazioni le tecniche del regista si uniscono per creare scene di un notevole impatto e di una poetica estremizzata.
Per avere un’idea dello stile di regia basti guardare l’incipit che dalla caduta dell’albero fatta in soggettiva, alla carrellata sui vari personaggi che affollano l’esterno della chiesa (una delle “carrellate” più dinamiche ed efficaci che abbia mai visto) e poi l’interno con il funerale (esattamente all'opposto con una perfezione formale geometrica). Per avere un’idea della poetica invece è sufficiente la scena finale in cui i due innamorati si incontrano dopo morti, una serie di carrellate laterali sui volti dei protagonisti che fluttuano in una foresta di betulle, i visi dei due innamorati sono color argento come la corteccia degli alberi. Perfetto.

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