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Visto in Dvx.
Film iconico per eccellenza di cui chiunque ha già detto tutto. Personalmente non sono mai stato un appassionato cultore, ma rivedendolo oggi non si può non riconoscerne il valore.
Il film si muove con il fiato spezzato del noir e con il ritmo lento degli Scotts degli anni '80.
Il film prende un vago spunto da un libro di Dick solo per partire con una densa trama filosofica, ricca di filippiche e strati di significato; una sceneggiatura complessa e complicata (un pò film autoriale un pò noir classico, di nuovo) che riesce a reggere il colpo nonostante qualche eccesso (il famosissimo monologo finale posto dopo un inseguimento teoricamente violento avrebbe ammazzato qualunque altro film).
Ma con tutto questo il film avrebbe fatto la gioia di Dick e sarebbe stato messo nel dimenticatoio del tentativo autoriale di un regista con potenzialità mainstream.
Il reale valore aggiunto però è altrove: nel comparto estetico.
Mi rendo conto della tautologia, ma mai come in questo caso siamo davanti a un film da guardare. Scott crea un film in cui le immagini trasmettono interamente il mood veicolato dalla sceneggiatura con in più informazioni potenziali su quanto successo fino a quel momento.
Anzi, Scott fa di più, crea un intero mondo solo con le immagini. Una Los Angeles che è un'immensa Chinatown, costantemente umida, barocca e adagiata nella sua dissoluzione, un disfacimento calmo e accettato da tutti, nonostante tutto. Un luogo buio in cui le luci al neon sono pervasive quanto gli schermi pubblicitari e le luci intrusive che dall'esterno illuminano gli interni ancora più cupi della città senza però chiarire ciò che accade, anzi, aumentando la confusione.
All'opposto rispetto al precedente "Alien", le immagini sono densissime pur nella loro semplicità, ma sono costantemente ragionate. La regia fa ciò che vuole per seguire i personaggi: primi piani, piani medi (per mostrare adeguatamente gli interni), movimenti di macchina, inquadrature fisse, montaggio interno; c'è tutto.
Il film parla più con le immagini che con le parole, accumulando informazioni, emozioni e simbologie in una serie di sequenze assolutamente impeccabili. Mostra, giocando, il concetto di mostrare (con i continui riferimento agli occhi, la vista e le immagini) e rappresenta di per sé un film nel film.
PS: Spoiler. Deckard è un replicante? L'idea (anzi l'idea di lasciare il tutto nell'ambiguità) è intrigante e aggiunge un nuovo livello di lettura tirando le fila di un discorso altrimenti solo evocativo (il rapporto con Gaff); ma, a conti fatti, non aggiunge nulla alla trama. L'incertezza di essere o meno un androide è già rappresentata da Rachael, l'idea che un androide vada a caccia di androidi non aumenta il fascino del film, il fatto che Roy nel finale sia più umano di un umano non è sminuita se quest'ultimo è un robot (ci sono degli umani dietro Deckard in ogni caso, Gaff non mostra neppure la comprensione del personaggio di Ford).
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